L’isola del granoturco

Si è chiuso ieri con un successo di presenze, un’ottima qualità media e il premio principale al film più meritevole, il 26° Trieste Film Festival

23/01/2015, Nicola Falcinella -

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Un fotogramma tratto da "L'isola del granoturco"

Il principale appuntamento italiano con il cinema del’Europa centro-orientale ha premiato come miglior lungometraggio, sulla base dei voti assegnati dal pubblico, il georgiano “Corn Island – L’isola del granturco” di George Ovashvili. Un film bellissimo, che era nella short list per l’Oscar e passava in anteprima italiana. Una folgorante piccola grande storia, quasi un western di sapore fordiano e insieme una parabola sul ciclo della vita.

L’isola

Tutto si svolge su un’isola alluvionale del fiume Inguri, che riappare a primavera e viene sommersa dalla piena in autunno. Là, tra Georgia e Abkhazia che si sono combattute nel 1992-93, un vecchio abkhazo prende possesso della terra di nessuno appena le acque si abbassano. Quasi un pioniere, si insedia a poco a poco compiendo un rituale di ringraziamento, eleva una baracca, ripara le rive dalla corrente, poi ci porta anche la nipote adolescente. Insieme rendono abitabile il luogo, mentre barche di armati passano in pattuglia. In lontananza si odono spesso spari, mentre i due sono mossi dal bisogno, dalla disperazione e da un compito quasi eterno. Ci sono pochissime parole, le prime dopo quasi 20 minuti di film, non sono necessarie, pochissima musica aggiunta, il rumore dell’acqua regna.

Ovashvili, già regista di “The Other Bank”, regala momenti magici, come la camminata nel granoturco piccolo, e di angoscia, con la tempesta che rischia di rovinare tutto. C’è una tensione sempre viva, mentre la ragazzina diventa donna e ci si affeziona a questi esseri umani venuti dal nulla e dei quali non si sa nulla. L’isola è quasi un miracolo e un’oasi di salvezza pur nella sua precarietà e nella sua esposizione a tutti i pericoli, vengano dall’uomo o dalla natura. L’uomo, che si procaccia a fatica il cibo per la sopravvivenza, nasconde, assiste e nutre il soldato che trova una mattina nel campo e che parla una lingua diversa. Ovashvili ha realizzato un film lirico e potente, essenziale, che evoca i conflitti e dà vita alla solidarità, la paura della guerra e l’abbandono al flusso dell’esistenza. Una pellicola potente che meriterebbe una circolazione in Italia e cui si perdonano piccolissime incoerenze che non lo inficiano minimamente.

Gli altri premi

Miglior documentario in concorso è la coproduzione polacco-danese “Something better to come – Qualcosa di meglio verrà” di Hanna Polak, sulla vita di Jula che vive nella discarica più grande d’Europa alla periferia di Mosca. Miglior cortometraggio in concorso è stato votato l’ucraino “Davay ne syogodni – Facciamo la prossima volta” di Christina Syvolap, a confermare l’ottimo momento di una cinematografia in crescita: tra le proiezioni speciali c’era anche il bellissimo e sconvolgente “Plemya – La tribù” di Myroslav Slaboshpytskiy.

Riguardo alle cinematografie nazionali dell’area, Trieste ha confermato le tendenze dell’ultimo periodo: grande fermento in Georgia, Ucraina e Polonia, prepotentemente tornata alla ribalta; un assestamento della Romania, nell’ultimo decennio la più all’avanguardia; vivacità in Serbia, Croazia e Slovenia; Bosnia legata a pochi nomi, Danis Tanović (che ha presentato il nuovo “Tigers – Tigri”) su tutti; qualcosa che si muove in Bulgaria anche se ancora manca un movimento; una Russia in continua evoluzione; Ungheria in difficoltà anche politica pur non difettando di bravi registi; una Repubblica Ceca al di sotto della sua tradizione; repubbliche baltiche con qualche nome ormai consolidato (Laila Pakalnina o Signe Baumane) e qualche lampo.

Il festival è riuscito a dare un quadro abbastanza vario dell’area, rivolto più al pubblico cittadino che agli addetti ai lavori, fin dall’apertura con il buon melodramma in costume “Dve ženščiny – Due donne” della russa Vera Glagoleva con Ralph Fiennes alla chiusura con lo storico “Miasto 44 – Varsavia 44” di Jan Komasa.

Il premio InCE (Iniziativa Centro Europea) è andato alla croata Tiha K. Gudac per “Goli – Isola nuda” “perché denuncia come il passato di una nazione possa avere ancora conseguenze sul presente”. Un film molto bello, emozionale e che tocca tanti livelli, già vincitore al Sarajevo Film Festival che avrebbe meritato anche la vittoria nel concorso documentari.

Il premio Corso Salani al miglior film della sezione Italian Screenings è andato a “Frastuono – Uproar” di Davide Maldi, già in concorso al Torino Film Festival, "per la ricerca visiva e sonora, per la geometria inesatta delle composizioni e per l’idea filmica di uno spazio interiore vulnerabile e dissonante". Il premio SkyArte assegnato dal canale Sky Arte Hd attraverso l’acquisizione e la diffusione di uno dei film della sezione Trieste FF Art & Sound va all’animazione estone-americano “Rocks in My Pockets – Sassi nelle mie tasche” di Baumane.

Il Premio Mattador di 1.500 euro per il miglior soggetto va a “The Village – Il villaggio” di Marcello Bisogno e Mirko Ingrassia. Infine il progetto selezionato a Midpoint, Central European Script Center di Praga è il macedone “Midnight Train – Il treno di mezzanotte” di Ana Jakimska.

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