L’incredibile, travolgente Gabbiano che arriva dalla Serbia

Ci sono momenti in cui – come scriveva Flaiano – il teatro “illumina la nostra autobiografia”: dice chi siamo, cosa siamo, cosa proviamo. Una recensione dell’allestimento di Tomi Janežić di Gabbiano, con il Teatro Nazionale Serbo di Novi Sad

30/05/2014, Andrea Porcheddu -

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Il Gabbiano (foto di Ilaria Costanzo)

(testo originariamente pubblicato dal blog dell’autore sulle pagine de Linkiesta .it, il 13 maggio 2014)

Il teatro, tutto il teatro richiede atti d’amore, ha a che fare con l’amore.

In mezzo alla disoccupazione, alla cialtroneria, al pressapochismo, alle rivalità, alle invidie, alla miseria, si resiste solo per passione, e con l’amore. E ci sono momenti, pochi nella vita di uno spettatore, in cui questo amore sboccia sorprendente: e travolge, porta via, stordisce, intenerisce, incanta e commuove – come ogni storia d’amore.

A me, fortunatamente, è capitato in questi anni: e spesso grazie a Checov. Il Gabbiano, ad esempio, è un atto d’amore assoluto.

Uno di quei momenti in cui – come scriveva Flaiano – il teatro “illumina la nostra autobiografia”: dice chi siamo, cosa siamo, cosa proviamo in quella fase della nostra vita. Ci spiega nelle nostre piccolezze, nei guai, nei desideri, nelle ambizioni e nei sogni. Ci racconta quel che eravamo, e quel che diventeremo. Ci dice come e chi amiamo.

Continuiamo a infatuarci di Nina e a innamorarci di Masha; continuiamo a ritenere ingenuo quel Kostia e a trovare insopportabile Trigorin, cui pure in qualche modo assomigliamo. E, soprattutto, non smettiamo di osservare meravigliati lei, Arkadina, la grande attrice con quel suo mondo, con quel suo modo sgradevole e fragilissimo di affrontare la vita.

C’è tutto nel Gabbiano. L’amore, certo: non corrisposto, svenduto, sognato, inseguito sempre oppure inesorabilmente rinviato a mai. C’è il lavoro: gli affanni, i problemi di soldi, di avidità e di bisogno, il conflitto tra le classi sociali. E c’è il teatro, con una costante, continua, riflessione meta-teatrale: di un teatro che mette in scena se stesso, nella dialettica tra fantomatiche “nuove forme”, propugnate dai “giovani”, e “tradizione” incarnata da Arkadina.

Ma c’è ancora tanto, tutto, in un testo che è un compendio, un manuale di perfetta drammaturgia. Di fronte a questo tutto, il regista quarantenne Tomi Janezic (mi scuso per l’imperfetta grafia del cognome) parte invece da una assenza: quella che si nota in una celebre foto. Si può notare un’assenza? Sì, se questa mancanza è provocata, indotta, da una cancellazione operata scientemente dalla Storia. C’è una bella foto di gruppo, di tutta la compagnia che provava il Gabbiano nella sua prima edizione, con la regia di Kostantin Stanislavskij. Seduto al tavolo, in mezzo agli attori, c’era anche un regista e attore: Mejerchol’d. Era Treplev nella prima edizione del Gabbiano. Però quella figura verrà cancellata da un ordine del Comitato Centrale. Fucilato nel 1939 e cancellato dalla memoria.  

Tomi Janezic, nel suo infinito, bellissimo allestimento di Gabbiano con il Teatro Nazionale Serbo di Novi Sad – uno spettacolo di sette ore, vissuto e visto alla Stazione Leopolda nel prestigioso festival Fabbrica Europa, grazie al direttore artistico Roberto Bacci e al consulente, esperto del teatro balcanico, Giorgio Ursini Ursich – muove i suoi passi proprio dalla memoria, ovvero dal bisogno di riflettere attorno, dentro il testo di Checov.

Accoglie il pubblico in un ambiente a pianta quadrata: sedie a limitare lo spazio degli attori, un tavolo, qualche oggetto al centro della scena. Tutto intorno, sui quattro lati, gli spettatori, chiamati subito a mettersi in gioco, a entrare in questo maestoso flusso teatrale. Lo spettacolo è scandito in quattro grandi capitoli. Noi che abbiamo iniziato alle 19, ne siamo usciti alle 2,30 di notte: esaltati, felici, commossi, divertiti, storditi e beati.

Janezic è in scena: spiega, presenta, illustra. Quasi un operatore di psicodramma, ma anche un orchestratore alla Kantor: sta là, perfettamente calato nel suo lavoro. Usa le musiche retrò per avviare situazioni sentimentali, prende per mano gli attori, dà o cambia il tono di alcune battute, segue ogni suggestione, si interroga su cosa significhi essere attori. E loro, gli attori e le attrici, sono un gruppo formidabile: nel primo quadro, disinvolti, entrano e escono dai propri personaggi. Copioni spesso alla mano, come fossero scene sempre di nuovo messe in prova. Due addirittura le “attrici-suggeritrici” che intervengono, correggono, si sovrappongono, sottolineano. Tutti in abiti quotidiani: tuta, jeans, vestitini leggeri. Ma Checov incombe, le sue parole esplodono in tutto il loro fragile e dirompente fragore. In un attimo e siamo già tutti profondamente dentro la storia. Tensione e leggerezza, violenza e simpatia, slanci e trattenute. Non c’è nulla di manierato, nulla di prevedibile, nonostante il gioco del “recitare il non recitare” sia ormai pratica consunta. La riflessione sullo “statuto” del teatro è esplicitata, anche con intrusioni di voci fuori campo che riportano frammenti di conversazioni degli attori durante le prove. Ma si va avanti.

Il lago è dietro una quinta, il sipario è tenuto su dal servo Jacob – che più volte, con la sua sola muta presenza, ricorderà il divario tra capitale e sottoproletariato. Ma è la guerra dei sentimenti e dei sensi che incombe: è la dialettica tra i personaggi, è lo stridio dell’amore e del possesso. Il secondo quadro, dopo un lungo intervallo, cambia completamente il clima. Rientrano in costumi d’epoca, ma con inedite originalità. Focalizzata sulla scontro tra il fattore e la proprietaria Arkadina, lo spazio del croquet si restringe in una sorta di gabbia limitata da plexiglass, calati dall’altro, e dentro quella scatola esplode e si sovraccarica, in un sabba dove tutti gli interpreti si mutano in animali costretti a correre fino allo sfinimento. “Non si uccidono così anche i cavalli”, veniva da pensare di questi possenti attori, dannati a correre intorno. Generosità degli interpreti – questi, come tanti, forse tutti, gli attori – che danno ogni sera la loro energia per continuare l’eterno gioco del teatro. Intanto il sabba non si placa: Nina folle d’amore per Trigorin non esita a mettersi a nudo, a svendersi per quello scrittore, correndo folle ovunque. Cosa è il talento? Cosa è il successo? Quanto contano quei soldi, quei dollari che invadono la scena? Cosa è l’ambizione? Cosa siamo disposti a fare, per “arrivare”?

Ancora un intervallo, e si apre il terzo quadro: forse il momento più alto dello spettacolo. La pianta, stavolta, è frontale. Gli spettatori sono in una gradinata, di fronte una parete divide orizzontalmente lo spazio scenico. Di qua dalla parete, tutti seduti, gli interpreti. Mentre Trigorin prova incessantemente mise da star eccentrica, il dipanarsi della storia è affidata a voci che riecheggiano registrate e invadono lo spazio. Come se il regista avesse scelto di portare in primo piano le controscene, di far esplodere questo racconto continuamente “decentrato”, “diffuso”, “centrifugato” come le anime dei personaggi; e lasciare al dietro – all’oscuro, all’osceno – i dialoghi, la vicenda. Solo le voci che risuonano, sussurrate o gridate: davanti invece silenzio e volti spersi che raccontano molto più delle voci. Il dramma si sta compiendo, le relazioni sono ormai esplose, il male viene fuori. La morte è dietro l’angolo, la rassegnazione pure. Masha ha abdicato al suo amore e si spegnerà nel mesto matrimonio,  Kostia ha tentato il suo grottesco e infantile suicidio. Si confronta con la madre in un dialogo sempre più violento e sensuale, fino a tentare di violentarla. Ma l’acme del lungo atto, difficile qui da riassumere, per complessità e ricchezza, deve ancora venire. Prima una struggente sequenza: mentre Arkadina fascia la testa al figlio ferito, tutte le donne in scena fanno altrettanto con i loro uomini. È un momento bellissimo, che evoca – naturalmente – il recente assurdo conflitto che ha sconvolto i Balcani, lasciando ovunque vedove e orfani. Le donne accudiscono quegli uomini folli e ottusi. La dolente azione, però, non ferma l’inesorabile disastro: ancora dobbiamo ascoltare il brutale addio tra Trigorin e Nina. Dopo una foto di rito, lui con una scusa lascia il gruppo e torna a salutarla: sentiamo solo le voci, i sospiri, i rumori. Si consuma un sesso veloce, sbrigativo, brutale più che passionale. Eccola là, tutta la passione di Nina, tutto l’aplomb di scrittore di “successo” di Trigorin con il suo “soggetto per un racconto breve”: tutto finisce nel rimestio spudoratamente squallidino delle carni che sbattono, dei sospiri strozzati, dell’orgasmo vuoto. Niente altro.

Oramai questo Gabbiano ha avviluppato il pubblico, profondamente scosso: siamo a notte fonda quando inizia l’ultimo quadro. Che è una mesta veglia, illuminata da un mare di candele portate lentamente in scena. E passato del tempo: sono tutti più spenti, appesantiti, incarogniti, induriti. Prima una tombola, in cui i dialoghi amari e disincantati sulla sorte di Nina contrappuntano l’estrazione dei numeri. Poi una sorta di fumoso cabaret, in cui la divina Arkadina canta, e infine, il suicidio di Kostia, consumato in un assordante silenzio.

A chiudere questa narrazione ormai epica, il Teatro Nazionale Serbo offre agli spettatori un film, che entra benissimo nello spettacolo: riprese dalle prove, nel palcoscenico nudo, il regista accanto all’attrice e all’attore. Provano la scena in cui Nina e Kostantin si ritrovano. E questi due personaggi si svelano ormai come due falliti, due sconfitti. Soffrono per amore: per quel nulla evanescente, dunque, che macera la nostra vita. Soffrono senza motivo. Lei ancora innamorata di Trigorin, Kostia ancora innamorato di lei. Non sono cattivi, non hanno fatto nulla, avrebbero certo voluto un esito diverso delle loro vite. Sono là, e stanno come cani.

Il film si sofferma sui primi piani, svela il metodo di lavoro del regista – così “analitico e esistenziale” – passa dal palcoscenico vuoto delle prove, a un set vero e proprio in cui gli attori finalmente recitano i personaggi.

Intanto, gli interpreti sono ancora tutti in scena: guardano se stessi recitare nel film. Così la metateatralità iniziale – quel gioco dell’attore sul personaggio – si rivela percorso assennato e profondo, lungo e articolato scavo non solo nelle “sensazioni”, non solo nella riviviscenza stanislaskiana, ma sull’essere nel mondo, sul vivere questa vita qua. Inseguendo l’amore, fallendo, ricominciando e magari – come diceva il poeta – “fallendo meglio”, in scena e fuori scena.

Sarebbero da menzionare tutti gli attori, per entusiasmo e passione, ciascuno magistralmente interprete del proprio ruolo, ma anche e soprattutto presente come non mai a se stesso. Voglio almeno citare la superba Arkadina di Jasna Duricic, il Kostya di Filip Duric, la Nina straordinaria nella sua semplicità di Milica Janevski.

E sarebbe auspicabile riveder presto, da noi, Tomi Janezic: tanto autorevole e onnipresente in scena, quanto appartato e timido fuori scena. Per quanto abbia avuto modo di conoscere e studiare il teatro della ex Jugoslavia, è la prima volta che mi imbatto in un suo lavoro. Spero proprio che, con quel bell’italiano che parla, Janezic possa tornare presto a lavorare da noi. C’è molto da imparare.

Alle due e mezza di notte, spettatori e attori si stringono in un applauso che è un abbraccio condiviso: chi ce l’ha fatta, chi è restato sino alla fine, ed eravamo in tanti, ha capito forse qualcosa in più di sé, del mondo, del teatro. Oggi, come nel 1895, quando andò in scena il Gabbiano, o quando, attorno a un tavolo, assieme agli attori e al regista, c’era anche quel signore là, quel Mejerchol’d che se ne andrà troppo presto.

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