L’incontro

I profughi dal Kosovo, l’arrivo in un’Albania disorientata e lacerata. Il 1999 è stato dramma ma anche occasione per due comunità, per decenni divise, di ri-conoscersi. E di sfatare miti nazional-romantici. Un contributo al dossier ”Dopo le bombe”

20/03/2009, Marjola Rukaj -

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Dieci anni fa, mentre in Kosovo veniva consumato l’ultimo conflitto jugoslavo, l’Albania era un paese lacerato e disorientato, appena uscito dalla crisi finanziaria e politica del ’97. Le autorità continuavano ad invitare i cittadini a consegnare le armi, di cui per la maggior parte si erano impossessati nel ’97, mentre la crisi kosovara veniva seguita con la stessa indifferenza e retorica con la quale era stato seguito in precedenza il conflitto in Bosnia, spesso da giornalisti che non avevano mai avuto modo di visitare il Kosovo.

Ma il ’99 è stato anche l’anno in cui il fantasma minatorio della guerra, e i Balcani, iniziavano a materializzarsi più vicini che mai, interrompendo quell’isolamento che continuava a mantenere il paese immune da quanto succedeva nel resto dei Balcani negli anni ’90. I segnali di tutto questo furono il rafforzamento del controllo settentrionale del paese grazie a pattuglie speciali dell’esercito e, sopratutto, l’intenso flusso di più di 400 mila rifugiati kosovari che iniziavano ad attraversare il confine, dando l’impressione che il conflitto non fosse più meramente un fatto di cronaca da telegiornale, da seguire con indifferenza.

Tutto faceva infatti temere che il conflitto kosovaro si potesse estendere anche all’Albania, portando a un confronto diretto tra Tirana e Belgrado. Nulla si poteva prevedere in un momento di alta tensione politica, con un’opposizione guidata da Sali Berisha, uscito sconfitto e screditato dalla crisi del ’97, e al potere la sinistra con a capo il Partito Socialista di Fatos Nano e del premier Pandeli Majko. I legami ambigui tra entrambi le maggiori formazioni della politica albanese (e dei loro leader) con diversi attori politici degli altri paesi balcanici rendevano impossibile prevedere scenari plausibili.

Con l’inizio dell’intervento militare da parte della NATO i media albanesi iniziarono a seguire più attentamente la vicenda kosovara, e il conflitto venne trasmesso in tutta la sua crudezza attraverso i racconti dei rifugiati kosovari. Si trattava di gente disperata che fuggiva in massa in cerca di un riparo nell’Albania che avevano sempre sognato e immaginato, facendo spesso fede esclusivamente ai racconti degli anziani. La maggior parte si trovava a visitare la tanto agognata "madre-patria" per la prima volta, avendo solo delle nozioni di tipo emotivo, nazionalromantiche, ma allo stesso tempo sopraffatti da pregiudizi politici e regionali e da una scarsissima conoscenza della realtà.

Nei rapporti tra gli albanesi dell’Albania e i kosovari, la crisi del ’99, si è tradotta in una tappa importante per l’ulteriore sviluppo nei rapporti inter-albanesi, le cui conseguenze si possono scorgere tuttora a distanza di dieci anni. I campi profughi, allestiti dalle numerose ONG nazionali e internazionali, sono diventati per dei mesi luogo di pellegrinaggio per i media albanesi, offrendo una panoramica variegata sui nuovi arrivati, sulle loro aspettative e sul loro passato. Il confronto si è materializzato ulteriormente con il contatto diretto nel momento in cui circa 300 mila kosovari sono stati ospitati nelle case private dei cittadini albanesi, con una impressionante distribuzione geografica, sia nelle zone più settentrionali, più vicine al Kosovo, che nel profondo sud del paese.

Prima del ’99 i kosovari nell’immaginario comune albanese erano rappresentati dalle comunità provenienti da quell’area installatesi in Albania nella prima metà del ‘900, da tempo perfettamente integrate, sia dai nuovi uomini d’affari sbarcati nell’Albania del dopo regime, nell’epoca delle grandi privatizzazioni e speculazioni. I rifugiati del ’99 portarono una rappresentazione più estesa del Kosovo. Era molto varia la loro estrazione sociale e la loro provenienza geografica. Certo li accomunava però il fatto di essere persone in difficoltà.

In quei mesi, l’Albania sembrava vivere una nuova fase, che costituiva una parentesi alla sua crisi interna. Maggioranza e opposizione si erano trovate sulla stessa lunghezza d’onda, nel sostegno della crisi umanitaria, e nel promuovere internazionalmente la soluzione del problema kosovaro, introducendo in tal modo anche l’Albania tra i soggetti internazionali con cui interloquire.

Un fenomeno senza eguali rimane la grande solidarietà dimostrata dai cittadini albanesi, che volontariamente hanno offerto vitto e alloggio alle numerose famiglie kosovare, nelle loro modeste abitazioni, mentre secondo diverse analisi effettuate in seguito, le ONG e le strutture promosse dal governo albanese non hanno saputo gestire la crisi con efficienza. Solo circa 80 mila kosovari hanno scelto di sistemarsi presso i campi di accoglienza gestite da queste ultime.

I primi centri sono stati allestiti al nord del paese a pochi passi dal confine, mettendo non poco in pericolo i rifugiati. In seguito altri – con condizioni di vita molto migliori – sono stati allestiti presso le maggiori città albanesi, sud incluso. Inizialmente vi era grande esitazione da parte dei kosovari di spostarsi dal confine, verso il sud. In parte perché la vicinanza con il confine permetteva di ricevere meglio le informazioni su quanto stava avvenendo, che passavano anche attraverso gli uomini dell’UCK che si occupavano dei reclutamenti.

Ma anche un altro motivo è stato molto dibattuto da parte dei media albanesi all’epoca: in molti non volevano spostarsi verso il sud pur sapendo che le condizioni di alloggio sarebbero state migliori rispetto al poverissimo nord, poiché temevano un’ostilità nei loro confronti da parte della popolazione tosk del sud del paese. L’Albania settentrionale, di tradizione gheg, e culturalmente molto vicina al Kosovo, in cui non mancano le lontane parentele, veniva percepita come un rifugio più sicuro.

Dieci anni fa, nell’Albania appena uscita dalla crisi del ’97, che aveva preso le sembianze di un conflitto tra il sud ribellatosi al governo Berisha, e il nord suo fedele sostenitore, i kosovari si identificavano di più con Berisha, e i suoi sostenitori dell’Albania del nord, ritenuti di orientamento nazionalista, mentre il sud veniva visto come in mano ai socialisti grecofili e slavofili di Fatos Nano.

Tra l’altro storicamente il nord albanese trovava un suo sbocco commerciale naturale nelle città kosovare, e i legami culturali, economici e familiari, erano sempre stati molto intensi, seppur avessero subito una lunga interruzione negli anni del regime di Enver Hoxha. Molti abitanti del Kosovo più profondo immaginavano che il sud albanese fosse abitato da greci, che spesso venivano chiamati con lo stesso termine dispregiativo usato per i serbi, shkja.

I fatti hanno però smentito le previsioni. La sinistra albanese si è dimostrata molto motivata a sostenere il Kosovo a livello internazionale, intessendo legami con l’UCK in contrasto con lo scetticismo tradizionale dimostrato in più occasioni dal leader del PS, Fatos Nano. Proprio in quel periodo iniziarono a circolare i progetti sulla grande autostrada panalbanese che dovrebbe collegare Durazzo a Pristina. Progetto sostenuto con grande pathos nazional-romantico da tutti i governi che si sono susseguiti a Tirana dal ’99 in poi.

Il leader della Destra albanese, Sali Berisha, si è trovato dal canto suo ad avere poca voce in capitolo, trovandosi all’opposizione, fatto che lo spingeva a prendere posizioni scettiche nei confronti delle iniziative della sinistra al potere, dimostrandosi poco fiducioso nel ruolo dell’UCK, e accusando il governo Majko, di fare il gioco della Serbia, e di manipolare a propria discrezione le risorse concesse dai finanziamenti internazionali per la crisi umanitaria.

La crisi umanitaria ha dunque fatto sì che gli albanesi si incontrassero, nel nome della solidarietà umana, che non sfociò però in alcun tipo di attivismo da parte dei cittadini albanesi per la questione nazionale kosovara. Ma anche le esperienze dei rifugiati kosovari dimostrano un incontro fatto di disincanto e di razionalizzazione dei rapporti con l’Albania, sino ad allora trasformata nell’immaginario quasi in un non luogo nazionalromantico. Sono emerse le differenze tra le due comunità, di tipo linguistico, culturale, e storico, che hanno alimentato non pochi aneddoti in seguito. Non sono mancati episodi spiacevoli in un’Albania ancora in balia alla crisi, in cui nelle zone più periferiche si continuava a sparare la notte, dando spesso l’impressione ai kosovari traumatizzati di essere ancora in Kosovo, e ancora in pericolo. Una brutta impressione ha sicuramente lasciato la profonda povertà del nord del paese, e la mancanza di infrastrutture che riguardava l’intera Albania.

I media albanesi nel ’99 definivano quell’anno come l’inaugurazione di una nuova fase per gli albanesi nei Balcani. E’ stato effettivamente un anno che ha segnato l’apertura dell’Albania ai Balcani, e in cui si è plasmata la posizione politica ufficiale volta ad assicurare il ruolo dell’Albania come fattore di pace e stabilità nei Balcani,che promuove l’integrazione euro-atlantica, per abbattere i confini e non cambiarli. Si è iniziato a instaurare un rapporto realistico tra gli albanesi dell’Albania e quelli del Kosovo e fu in seguito al conflitto che l’Albania divenne una meta del turismo patriottico kosovaro, e Tirana riprese a esportare cultura nel vicino Kosovo.

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