L’Europa promessa: i Balcani e l’allargamento della UE

Il Kosovo, l’Europa, la Russia, la storia. Alla vigilia del primo grande allargamento della UE, Predrag Matvejevic traccia una geografia storico-letteraria dei Balcani, una regione "che non ha conosciuto autentiche tradizioni laiche".

21/04/2004, Redazione -

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Sarajevo, 2004 (Foto Mik Pik)

Di Predrag Matvejevic

Traduzione di Giacomo Scotti

Riprendiamo e pubblichiamo questo recente saggio di Matvejevic apparso su Notizie Est #778, del 15 Aprile scorso

ALCUNE CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

Ultimamente ho visitato la gran parte dei nuovi candidati all’adesione all’Unione europea, sia quelli che entreranno per primi che quelli che ne faranno parte in una seconda fase.

Con l’avvicinarsi del «gran giorno», un certo realismo ha sostituito le prime illusioni e, comunque, si puo osservare che le reazioni decisamente antieuropee sono sempre più deboli o limitate. Esse rimangono confinate solo in ciò che resta di una certa sinistra, legata in qualche modo al passato, come pure negli ambienti nazionalisti o ultraconservatori come, ad esempio, la «Lega delle famiglie polacche» o altre organizzazioni decisamente minoritarie.

Nel grande calderone della marea proeuropea, d’altra parte, emergono apprensioni tutto sommato auspicabili e positive. La volontà di «uscirne a qualunque costo», di liberarsi del passato e del suo fardello, si accompagna a quella di «entrarvi a qualunque costo» e di diventare infine membri di un’Europa unita. Evidentemente vi è in tale atteggiamento anche precipitazione, improvvisazione, mancanza di riflessione e molto altro.
Il primo gruppo di candidati senza dubbio porrà meno problemi del secondo, ma, molto probabilmente, sufficienti perche i ritardatari vedano prolungata la loro attesa nel lungo termine.

D’altra parte, i tempi della riconversione e dello sviluppo, necessari per liberarasi dalle conseguenze del "socialismo reale” non sono stati e non saranno brevi, prova ne sia che un paese come la Slovenia, che spesso si cita come buon modello di transizione, ha avuto bisogno di più di sette anni per ritornare solo ad essere… la Slovenia del 1990. Anche gli ingenti aiuti erogati dalla Germania occidentale alla sua sfortunata sorella dell’Est fanno emergere perfettamente quale sia la dimensione dei mezzi necessari per queste trasformazioni strutturali. Così sia i lavori preparatori che l’adesione dei candidati, mostreranno probabilmente, lacune di dimensione differente e in alcuni paesi e nei prossimi anni ci troveremo forse di fronte a difficoltà impreviste e inattese, di cui fin d’ora dovremmo essere consapevoli.

Nel complicato processo di adesione i problemi culturali sono stati posti raramente in evidenza. D’altra parte, si vive in un’epoca in cui l’intellighenzia dell’Europa occidentale, dopo gli []i che le sono stati a torto o a ragione imputati, sembra cerchi di evitare impegni troppo diretti o espliciti, mentre quella dell’Est non sembrerebbe essersi ancora completamente ripresa da ciò che le è successo.

Né l’una né l’altra appaiono, al momento, avere una presenza importante in questo processo e, a dir il vero, non sembrano nemmeno determinate ad averlo. Viaggiando nelle regioni dell’Europa orientale ho potuto comunque raccogliere idee sui diversi modi in cui l’Unione è vista dall’"altra Europa".
Il ventaglio delle opinioni spazia dalla convinzione che l’Europa del futuro dovrebbe essere meno eurocentrica di quella del passato, più aperta agli altri dell’Europa colonialista, meno egoista dell’Europa delle nazioni, più consapevole di se stessa e meno incline all’americanizzazione. Inoltre, si è convinti che sarebbe utopico prevedere che essa divenga, in tempi ragionevoli, più culturale che commerciale, meno comunitaria che cosmopolita, più comprensiva che arrogante, meno orgogliosa che accogliente, più l’Europa dei cittadini che si tendono la mano e meno l’"Europa delle patrie" che si sono tanto combattute l’un l’altra e, in fin dei conti, più socialista dal volto umano (secondo il senso che alcuni dissidenti dell’ex Europa dell’Est davano in passato al termine) e meno capitalista senza volto.

La sorte dell’Est Europeo non dipende più, come nel passato, dall’influenza dell’Unione Sovietica. La Russia, nonostante cerchi ancora di impersonare il ruolo di grande potenza (e riesca, entro certi limiti, ad esserlo), non è evidentemente il colosso del passato ma i legami sempre presenti, specialmente nell’area balcanica, ne fanno un interlocutore da non sottovalutare.

Come potrebbe materializzarsi questo suo ruolo, molto dipende dalla sua evoluzione interna. Si possono ipotizzare diverse Russie del domani. Sarà essa una vera democrazia o una semplice "democratura"? Tradizionale o moderna? "Santa" o profana? Ortodossa o scismatica? Più bianca che "rossa" o viceversa? Meno slavofila che occidentalista o viceversa? Tanto asiatica quanto europea o il contrario dell’una e dell’altra? Una Russia che "la ragione non è in grado di comprendere appieno e nella quale possiamo solamente credere" (come diceva magnificamente il poeta Tjutchev nel XIX secolo), oppure quella "robusta e dal grosso fondoschiena" (tolstozadaja) cantata da Aleksander Blok durante la Rivoluzione? "Con Cristo" o "senza la croce"? Semplicemente russa (russiskaja) o "di tutte le Russie" (vserossiskaja)? Qualunque cosa diventi, dovrà fare i conti con tutto ciò che l’ex Unione Sovietica le ha lasciato e tutto ciò di cui l’ha privata.
Noi, nati all’Est e formati nell’altra Europa, dobbiamo dar voce a questi ed altri interrogativi di fronte a tanti comportamenti conservatori, atteggiamenti tradizionalisti, mancanza di trasparenza o mentalità retrograda nella maniera di governare che riemergono in tanti paesi allo tempo stesso europei eppure tagliati fuori dall’Europa. E ciò soprattutto dove l’assenza di tradizioni democratiche appare evidente, laddove i diritti dell’uomo continuano ad essere violati e lo Stato di diritto è lungi dall’esser instaurato.

I BALCANI IN CONTROLUCE

Chi approda nei Balcani non tarda a rendersi conto delle loro contraddizioni. Sono una penisola vera e propria o un grosso blocco del Continente immerso nel bacino mediterraneo? L’una e l’altra cosa alternativamente o, a seconda del luogo, sia l’una sia l’altro? Sono tanti i mari che lambiscono queste coste – l’Adriatico, lo Ionio, l’Egeo con, ai suoi confini, quello che viene chiamato il Mar Nero e quello, più piccolo, il Mar di Marmara. Il litorale non è tutto marittimo. L’entroterra è per la maggior parte montagnoso. Nessuno dei cinque mari che lo circondano aveva dato il nome a questi spazi, ma piuttosto i rilievi del loro interno: per gli antichi geografi erano Haemus e catena mundi, per gli Slavi «Vecchio Monte» (Stara planina) che i Turchi hanno tradotto nella loro lingua con Balcani.

In passato, i Balcani si chiamavano anche Penisola Illirica, Greca, Bizantina e, più di recente, «Turchia europea»: ciò rivela, fra l’altro, le diverse appropriazioni o appartenenze di questi territori. A differenza delle cugine appenninica e iberica, separate dal Continente da catene montuose, come le Alpi e i Pirenei, la Penisola Balcanica non offre, di fronte all’Europa centrale, una barriera difficile da superare.

Per vari geografi e storici sarebbero i fiumi Danubio, Sava e Kupa a delimitare la frontiera dei Balcani verso il Nord e l’Ovest. Lungo la costa, invece, i confini (soprattutto nei mappamondi più antichi) vengono posti nel golfo del Quarnero o addirittura in quello di Trieste. Dall’altro lato, a Est, la linea che potremmo tracciare passerebbe probabilmente attraverso la Dobrugia e si fermerebbe non lontano dal misterioso delta denubiano. Del resto queste delimitazioni sono relative e spesso arbitrarie e quelli che le propongono o le ratificano raramente concordano gli uni con gli altri ed il tracciato dei confini sulle antiche carte varia da un’epoca all’altra.

I Balcani vengono spesso identificati a oriente, nell’Europa, in funzione dell’angolazione dalla quale li si osserva e dal punto di vista che si adotta. E’ stato detto e ripetuto più volte che, vista dal centro del nostro Continente, questa "zona turbolenta" comincia già a Monaco di Baviera o a Vienna (si riporta la famosa battuta di Metternich che riguardava una Vienna più balcanica che mitteleuropea); gli abitanti di queste due città spostano questa "frontiera incerta" verso Lubiana e Zagabria (lo scrittore croato Miroslav Krleža la faceva partire dal prestigioso Hôtel de l’Esplanade al centro di questa città); mentre gli Sloveni o gli stessi Croati la spingono ben più a est, verso Belgrado o Sarajevo.

La questione della molteplicità e della diversità demografica è tanto vecchia quanto gli stessi Balcani. Ha suscitato l’interesse e acceso la passione sia di illustri saggi sia di ciarlatani. Si evoca spesso una curiosa ricerca fatta dal canonico di Sebenico che si faceva chiamare con un nome latino, Georgius Sisgoreus, e con un altro, croato, Juraj Šišgorić. Vissuto all’epoca del Rinascimento, cantando la gloria di Venezia e al tempo stesso raccogliendo le opere popolari slave, questo erudito aveva tentato di fare il censimento delle popolazioni o delle tribù balcaniche, richiamandosi alle testimonianze degli antichi storici e geografi, enumerando strani ed esotici predecessori: Encheli (Encheleae) Himani, Peuceci (Peuceciae), secondo Callimaco; Soreti, Serapilli, Iasi, Andiseti o Sandiseti (Sandisetes), Colaphiani (Calophani) e Breuci, secondo Plinio; Norici, Antintani, Ardei (Ardiei), Pallarii e Giapodi (Japodes), poi Tribali, Daysi (Daysii), Istriani (Histri), Liburni, Dalmati (Dalmatae); Cureti o Croati (Curetes)», eccetera. A questa nomenclatura si aggiungono altri popoli Slavi, come pure le antiche popolazioni romaniche da loro cacciate. E si continua con gli Illiri e i Traci, antenati degli Albanesi; i Sarmati e i Geti (Getae), popolazioni "feroci e irsute", stando alla descrizione che ne fa Ovidio durante il suo esilio in quei luoghi; ed in seguito i Goti, i Celti ed anche anche i Franchi che vi fecero più di un’incursione. Ma, sopratutto, i Balcani furono abitati dagli antichi Greci, nostri maestri, non dimenticando però i Pellasghi, che li precedettero, e persino i Peceneghi, i Gheghi, i Manii, i Morlacchi o Valacchi Neri (Mauri Volcae) e tanti altri che non sono citati in questo scritto per mancanza di spazio o forse per una sorta di negligenza, voluta o involontaria, atteggiamento non raro nei Balcani.

Lo spazio balcanico è disseminato dalle vestigia degli imperi sovranazionali che vi dominarono e dai resti dei nuovi Stati, nati dalle idee di nazione del XIX secolo e dalle ideologie internazionaliste del "socialismo reale" del XX secolo; eredità di due guerre mondiali e di una guerra fredda; vicissitudini dell’Europa dell’Est e di quella dell’Ovest. In definitiva, vi ritroviamo relazioni ambivalenti fra Paesi sviluppati e in via di sviluppo; tangenti e trasversali Est-Ovest e Nord-Sud; legami e fratture fra il Mediterraneo e l’Europa; l’Unione europea e "l’altra Europa". Tante divisioni e faglie, linee di demarcazione o di frontiera, materiali e spirituali, politiche, sociali, culturali e altre ancora. Alcune parti di questo territorio recano marchi e ferite, inflitti sia dalla storia che da un passato al quale non è stato dato di essere realmente storico.

Ogni volontà di allargarsi a scapito dell’altro si è rivelata in fin dei conti illusoria, e nell’allargarsi della follia nazionalista non c’è stato alcun spazio per una «grande Serbia», un’«Albania allargata», una Croazia comprendente la Bosnia-Erzegovina o una Bulgaria che si appropria della Macedonia. La penisola è troppo ristretta per tali manie di grandezza e risulta essere molto scomoda per simili ambizioni. Le sue frontiere sono già fissate, al suo interno e all’esterno. I giochi sono ormai fatti.

Alle differenze etniche e linguistiche vanno anche sommate diversità immaginarie e mitologiche. Ognuno pretende di avere radici più profonde dell’altro, ragioni più convincenti per impadronirsi dei territori vicini: fondate su stati e poteri che affondano nelle nebbie del passato. Gli avvenimenti reali e le loro rappresentazioni fittizie si sostituiscono così gli uni alle altre, la storia e il mito si confondono, le rivendicazioni trovano fondamento tanto su ambedue e, talvolta, contemporaneamente su entrambe. Gli argomenti che si invocano e le "prove" che vengono fornite sono considerati irrefutabili o addirittura "sacri": si prevarica in nome del diritto storico; oppure si rivendica in nome del diritto naturale, con la pretesa degli uni di detenere la verità della storia e degli altri di possedere il diritto assoluto. I Balcani ne sono stati vittime innumeri volte, molto spesso per loro stessa colpa.

La storiografia tradizionale si è concentrata sopratutto sui popoli che "arrivano" e "si installano" nell’area piuttosto che su quelli che si sono amalgamati con le popolazioni autoctone. Le dispute o gli scontri che ne derivano assumono maggiore intensità e anche maggiore ambiguità proprio nel momento in cui questi popoli nazione rivendicano l’attribuzione di entità statale (Stato nazionale), per recuperare i ritardi passati e fare parte del consesso mondiale.

Altre divergenze, meno evidenti, si mescolano a questi processi di lunga durata. Una delle fratture più profonde e ancora permanente rimane quella provocata dallo scisma cristiano del 1054, che divise Chiese e fedi religiose, imperi e poteri, stili e scritture.

Nel fossato che si è creato fra Bisanzio e la Latinità, all’interno del Cristianesimo cattolico e ortodosso, si è inserito l’Islam. L’Europa e il Mediterraneo si sono staccati e sono esplosi in seno ai Balcani. Nei conflitti, qui nati e ripetuti la fede risultava per lo più assente , ma non lo era la discordia religiosa.

Nel corso dei secoli, questa specie di differenziazione ha creato una divisione continua fra i credenti, la divisione si è trasformata in opposizione, e l’opposizione in intolleranza; generando ostilità e odio, che sono diventati spesso la causa di violenze e di conflitti. Così, da una fase all’altra, si può seguire l’evoluzione di questi dissensi originari. Essi implicano contenuti reali, disseminati nel tempo e nello spazio, separati dalla loro matrice religiosa. Inscritti nell’immaginario collettivo, si prestano a varie forme di manipolazione. I "signori della guerra" ne hanno fatto abbondante uso, in particolare nel corso degli ultimi conflitti in Bosnia, in Kosovo, in Croazia, conflitti in gran parte non assimilabili alle guerre di religione, nell’accezione generale del termine.

La stessa balcanizzazione è legata a questi fatti che non sono sempre visibili a occhio nudo. La maggior parte delle popolazioni di questa regione non ha conosciuto autentiche tradizioni laiche. Ma non si tratta unicamente di una mancanza di laicità rispetto alla fede; si osserva un analogo atteggiamento anche nei confronti di un’idea nazionale concepita in senso religioso e, al tempo stesso, di un’ideologia (non solo nazionale) praticata in quanto religione. Si può infine spesso osservare la trasformazione di alcuni aspetti della cultura nazionale in un’ideologia della nazione.

La letteratura, a sua volta, si riduce a una "letteratura nazionale" in senso stretto. Le energie, sia individuali che collettive, vengono così assimilate al mero nazionalismo. Questi fenomeni sono riscontrabili anche al di là dei Balcani, lungo tutte le coste mediterranee e altrove.

Non soltanto nei Balcani la storia viene scritta per lo più come storia nazionale e viene spesso osservata attraverso griglie di lettura troppo particolari, folcloristiche o epiche. Anche una sconfitta o una ferita possono essere promosse al rango di «avvenimenti fondanti» o assumere proporzioni smisurate a livello di coscienza o di immaginario, nel corso dei secoli.

UN CASO EMBLEMATICO: IL KOSOVO

Le vicende del Kosovo, al di là dell’attualità del problema, possono costituire un «condensato» della interazione dei differenti elementi cui abbiamo accennato. Le questioni riguardanti il suo passato, la sua appartenenza o il suo status attuale vengono poste in termini molto diversi dagli storici o dai politici che appartengono alle nazioni che vi coabitano e da coloro la cui origine non è né serba né albanese. Le loro argomentazioni, anche quando partono dagli stessi dati, conducono generalmente a conclusioni diverse. Questo esempio, e la lezione che se ne può trarre per la storia dei Balcani, meritano un approfondimento.

Il passato geologico e la preistoria non pongono problemi: anticamente il Kosovo era un grande lago di cui il paesaggio conserva ancora tracce; il fiume Ibar ha portato le sue acque verso il Mar Nero, l’affluente Lepenac verso il Mar Egeo, lasciando attorno ai loro letti rocce svettanti e, al centro, vallate verdeggianti.

Nel Medio Evo incontriamo il nome di Kosovo polje che significa «campo dei merli» (campus turdorum). Gli antenati degli Albanesi, Illiri o Traci, l’anno abitato dalla fine del terzo millennio a.C. Nel II secolo della nostra era Tolomeo segnala, fra le montagne dell’antica Dardania e della Macedonia, la presenza degli Albanoi. Nel VI-VII secolo d.C. gli Slavi (serbi) sono arrivati in questa regione, allora percorsa anche dai Valacchi (in parte discendenti dei coloni romani) e da altre popolazioni nomadi che attraversavano i Balcani. Tra il XII e il XVI secolo questo spazio è diventato il "cuore" del regno mediovevale serbo: lo Stato di Rascia (Raška – antico nome della Serbia) e, dopo aver conquistato alcune terre bizantine, vi si insedia nel 1180 lo zar Dušan, detto "Il Potente" (Silni), che stabilisce la sua residenza a Prizren; l’arcivescovo e, in seguito, il patriarca si insediano a Peć e vi costruiscono il monastero di Gračanica. Il re Stefano Uros II (1282-1321) si proclama "Re della Serbia, di Dioclea (l’odierno Montenegro), d’Albania e della costa" – il che prova anche che gli Albanesi vivevano nella stessa regione, mescolati agli altri sudditi del regno.

Questa é la situazione che precede la battaglia di Kosovo del 1389, nella quale i Serbi, nonostante l’aiuto offerto loro da alcuni vicini balcanici (fra i quali figurava anche un certo numero di Albanesi), subirono una grandiosa disfatta contro la potente armata ottomana. "Non avendo davanti agli occhi il ricordo di un passato glorioso" (utilizzo, all’occorrenza, le ricerche dello storico francese Georges Castellan, esperto di questioni balcaniche – e, fortunatamente, nato lontano da questa zona ), gli albanesi abbracciarono più facilmente la fede dei vincitori e "fornirono al Sultano un numero imponente di servitori devoti". Quanto ai Serbi, furono costretti a effettuare una "Grande migrazione" (Velika seoba) senza abbandonare affatto la regione.

Nel 1690 l’esercito austriaco penetrò fino a Peć, distribuendo un proclama a "Serbi, Albanesi, Mesi, Bulgari, Illiri, Macedoni e Rasci" per invitarli a sollevarsi contro gli Ottomani. In questa vicenda i Serbi ricoprirono un ruolo importante, trascinati dal patriarca Arsenio III Črnojević. Gli insorti dovettero però ripiegare ed emigrare (le fonti, che si possono ritenere obiettive, parlano all’incirca di 70-80 mila persone), beneficiando dell’asilo concesso loro da Leopoldo I nei suoi Stati. Così il loro numero nel Kosovo diminuì una volta di più, e in maniera abbastanza consistente. Nel 1903, il Consolato austro-ungarico di Prizren effettuò – non si sa come – il censimento della popolazione dal quale emergeva che essa risulta composta per il 45% da Serbi e per il 55% da Albanesi. Si trattava probabilmente di una cifra approssimativa.

Alla fine delle guerre balcaniche, lo Stato serbo occupò la regione nel 1912 e, dopo la Prima guerra mondiale, attuò una riforma agraria togliendo agli antichi proprietari turchi le loro terre, distribuendole ai nuovi colonizzatori serbi e montenegrini a scapito degli abitanti albanesi che vivevano lì poveri e indifesi.

Dopo la Seconda guerra mondiale la popolazione albanese registrò il tasso di crescita più elevato in Europa e , arricchita dal lavoro all’estero dopo l’apertura delle frontiere da parte della ex Jugoslavia, spinse i Serbi del Kosovo a un lento e inesorabile esodo cosicchè, prima dell’inizio dell’ultimo conflitto in Kosovo e della mostruosa "pulizia etnica" messa in atto dalle milizie di Milošević, la regione annoverava il 90% di Albanesi contro il 10% di Serbi.
Per l’oggi non si dispone di dati affidabili riguardanti la composizione etnica della regione.

La situazione si presta, come si vede, a interpretazioni molto diverse, a seconda del punto di vista di chi la osserva e ne trae le conclusioni. In questo contesto, un tema risulta particolarmente penoso e difficile da affrontare: quello della crudeltà, di cui ci hanno dato di recente una testimonianza le immagini riprese dal vivo. Alcuni si rifiutano di parlarne per non offendere una popolazione la cui maggioranza non ne è affatto responsabile; altri, originari di questi Paesi, preferiscono tacere perché se ne vergognano. Vorrei affrontare questo triste discorso partendo da una delle scene più atroci della letteratura del nostro secolo.

Uno dei primi capitoli de "Il ponte sulla Drina" (1945), l’opera di Ivo Andrić (scrittore di origine croata e bosniaca, serbo di adozione e iugoslavo di vocazione, premio Nobel per la Letteratura nel 1961), descrive spietatamente l’impalamento di un serbo ribelle sotto l’impero ottomano: «Un palo di quercia lungo circa tre metri, ricoperto di ferro battuto, con una punta sottile e aguzza»; un uomo vivo, «infilzato a questo palo come un agnello allo spiedo, solo che la punta non gli usciva dalla bocca, ma dalla schiena, – e non erano stati lesi in modo grave né l’intestino, né il cuore, né i polmoni». Occorre un’operazione grandemente professionale e sofisticata per evitare le lesioni degli organi vitali; occorrono diversi strumenti – una decina di martelli e martelletti con cui spingere a poco a poco il palo nel corpo. La vittima deve sopravvivere così alcuni giorni: «gonfia, impettita e nuda fino alla cintola», «fissata tra due travi» sputando «una schiuma bianca», gridando e ringhiando. È la sorte che aspetta al ribelle.

Possiamo immaginare nel corso dei secoli migliaia di queste vittime lungo le strade fangose dei Balcani. La sofferenza incarnata dalla sorte, il male interiorizzato in questo modo e la rivolta o la vendetta che suscitano, tutto ciò non è "conservato" o "decantato" solo all’interno del corpo o nel fondo della memoria, ma anche da qualche altra parte: non sappiamo esattamente né dove né come! Un giorno le circostanze risvegliano questi stati torbidi e traumatizzanti, li attivano sotto forma di resistenza o di aggressione, di sacrificio o di crudeltà.

A scuola ci hanno insegnato che, proprio grazie ai supplizi subiti dai nostri avi, Vienna non è mai stata conquistata dalle «orde asiatiche», così come Venezia o Trieste e che senza questi sacrifici non ci sarebbero stati il Rinascimento in Italia e nemmeno la prosperità della Mitteleuropa. «L’abbiamo pagata con il nostro sangue». Abbiamo contribuito così a «salvare l’Europa e la sua civiltà».

Più a nord, sarebbero stati "i nostri fratelli russi" a frapporre uno scudo analogo, ancora più resistente, alle crudeli invasioni dei popoli delle steppe al di là degli Urali, proteggendo così i Paesi che sarebbero diventati la parte più progredita del Continente. Mi ricordo che quando ero adolescente seguivo questo insegnamento e accettavo – ahimè! – con un certo orgoglio alcune delle sue argomentazioni.

NUOVA EUROPA E BALCANI: QUALE FUTURO?

In questo quadro storico e politico vanno inserite le nuove contraddizioni dei Balcani, area in cui un passato lontano e molti avvenimenti recenti hanno inferto ferite che continuano a sanguinare. Le esperienze acquisite sotto i regimi imposti dal "comunismo staliniano" occultano un’altra eredità dolorosa. Accanto ad alcuni tentativi positivi di "edificazione socialista": industrializzazione, aumento della produzione, sicurezza sociale diffusa, occupazione e scolarità più accessibili, alfabetizzazione, eccetera, un alto numero di fallimenti aggrava irrimediabilmente il bilancio: l’Albania di Enver Hoxha, la Romania di Nicolae Ceausescu, la Bulgaria di Todor Živkov, persino la Iugoslavia di Tito, ieri senz’altro più prospera degli altri «Paesi dell’Est», che non ha resistito ai regolamenti di conti nazionalisti…. E il fenomeno va ben oltre, da un paese all’altro: equivoci tra Serbia e Montenegro, conflitti tra kosovari albanesi tesi tra Grecia e Turchia, rapporti ambigui tra Bulgaria e Macedonia, questione ungherese in Transilvania, rumena in Moldavia, greca e turca in Cipro, macedone in Grecia, serba in Croazia, turca in Bulgaria, più di due milioni di esiliati o «sfollati». Mille maniere diverse di assumere e vivere un’»identità post-comunista», di porre e di risolvere l’eterna «questione nazionale» e quella delle minoranze, oppure di rivedere frontiere considerate «ingiuste» e «mal tracciate», di subire o rifiutare la famosa «balcanizzazione» che, come il Destino nelle tragedie nate sotto i cieli di questa penisola, continua a separare anche ciò che sembrava indiviso e indivisibile.

Si fanno divisioni senza che resti molto da dividere. Abbiamo creduto di conquistare il presente e non riusciamo a gestire il passato. In molti di questi paesi, è stato necessario difendere un patrimonio nazionale. Oggi, in parecchi casi, occorre difendersi da questo stesso patrimonio. Cosa che vale anche per la memoria: dovevamo salvaguardarla, e adesso sembra punire gli stessi che l’hanno salvata. Tanti eredi restano così senza eredità.

Al di fuori e al di là di questa panoplia è necessario però anche rovesciare la medaglia e citare una ricchissima produzione letteraria e artistica, autentici tesori che queste terre hanno dato all’Europa nonostante le condizioni di cui si è parlato. Si possono fare i nomi di Andrić e di Krleža (quest’ultimo, pur nato a Zagabria, non ha mai perso di vista la realtà balcanica). Il romanziere serbo Miloš Crnjanski merita un posto accanto a loro, come pure lo scomparso Danilo Kiš, mio amico, "ibrido" ebreo e montenegrino, iugoslavo ed europeo a tutti gli effetti. I greci Nikos Kazantzakis con la sua prosa, Seféris o Rítsos con la loro poesia si rivelano degni della grande eredità ellenica. L’Albania ci ha dato un romanziere geniale, Ismail Kadare, che figura fra i più importanti autori contemporanei europei. Ivan Vazov e Georgi Karaslavov hanno aperto la strada maestra al romanzo bulgaro che altri, prosatori e poeti, hanno saputo percorrere dopo di loro. I poeti macedoni Aco Šopov e Blaže Koneski hanno contribuito con le loro opere a codificare la lingua della loro nazione. Grazie alla sua opera e al suo esempio, il "gigante turco" Jachar Kemal è letto e apprezzato in egual misura sulle due coste del Bosforo. La letteratura rumena ha varcato le proprie frontiere, consacrando, fra gli altri, alcuni grandi autori di lingua francese: Panaït Istrati, "meteco" greco-rumeno, Tzara, Ionesco, Cioran… Interrompo qui questo elenco che, nei limiti di questo scritto, non può evitare di restare incompleto, di parte, se non addirittura parziale.

Anche questo sono i Balcani, "questo spazio che produce più storia di quanta possa consumarne" ( W. Churchill), per gli uni la "vetrina" del nostro Continente, per gli altri il suo "termometro": la "culla d’Europa" o la sua "polveriera".

L’allargamento dell’Unione Europea avviene in una situazione in cui numerosi problemi della stessa Unione non riescono a risolversi. Quest’ultima stenta a formulare la sua propria Costituzione e a renderla accettabile a tutti i suoi membri, attuali e futuri. I Balcani rimangono ancora lontano dalle scelte europee, dai processi di integrazione stabiliti sulla base di accordi in vigore.

Le nuove frontiere, talvolta implicite, continuano a crearsi: un fossato fra l’Europa continentale e il Sud euro-mediterraneo, un abisso fra il Nord e il Sud del Mediterraneo, una posizione indefinita dei Balcani – e nei confronti dei Balcani stessi. A tale proposito ogni conclusione dovrebbe guardarsi delle ipotesi congetturali o contingenti.

Si tratta di un lavoro che spetta alla storia.

Vedi anche:

Notizie Est

Vedi anche di P. Matvejevic:

– Ma che succede in Serbia?

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