L’Europa e i Balcani occidentali

Zlatko Dizdarević, scrittore e diplomatico, analizza le ragioni per le quali il processo di adesione dei paesi dei Balcani occidentali rischia di restare un punto morto, impantanato in un dialogo tra sordi, e lancia l’allarme sui rischi che possono derivare da ambiguità e apparenze

16/01/2020, Zlatko Dizdarević -

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© Polina_PM/Shutterstock

(Pubblicato originariamente da Green European Journal e VoxEurop , novembre 2019)

Sia per gli osservatori esterni che per un numero sempre maggiore di cittadini europei, l’Unione europea si sta trasformando in uno spettacolo grottesco. Questa scivolata sta avvenendo lentamente ma inesorabilmente, a prescindere da quanto i funzionari di Bruxelles cerchino di spiegare l’Ue e i suoi meccanismi di funzionamento.

I fatti dimostrano senza ambiguità che l’Ue di oggi è lontana dalle relazioni, dagli standard, dalla logica politica e persino dai principi sui quali si è fondata, quando 16 anni fa fu firmata con impegno incondizionato la cosiddetta promessa di Salonicco: il futuro dei Balcani occidentali è nell’Unione europea.

La scorsa estate Angela Merkel e Viktor Orbán hanno commemorato il 19 agosto 1989, giorno storico in cui l’Ungheria — allora dietro la cortina di ferro — ha aperto le frontiere a 700 rifugiati della Germania dell’Est in viaggio verso l’Austria e la libertà. Più tardi quell’anno cadrà il Muro di Berlino. Fino a questo trentesimo compleanno di libertà per i rifugiati, Orbán è stato un critico appassionato della "imperdonabile politica della Merkel delle porte aperte" per i richiedenti asilo. Tuttavia, in questa occasione, il primo ministro ungherese, che, ricordiamolo, ha fatto costruire dei muri nel suo paese per bloccare le persone in entrata, è stato felice di esprimere il suo apprezzamento per la cancelliera tedesca. In risposta alla smielata insistenza di Orbán sull’attaccamento dei due paesi ai "valori europei", Merkel ha sostenuto che l’Europa sarà veramente unita solo quando tutti i paesi dei Balcani occidentali entreranno a far parte dell’Ue.

Molte ambiguità sul progetto promesso 20 anni fa dall’Europa stanno cadendo e lo scetticismo sulle dichiarazioni fatte quel giorno, oggi diffuso, è espresso pubblicamente da tanti nei Balcani.

Tornando a Salonicco nel 2003, l’atteggiamento nei confronti dell’attesa dei Balcani occidentali era ottimistico. Un ottimismo che non si basava sulle convinzioni politiche, ma su quelli che erano criteri chiari e solidi per la candidatura e per l’adesione all’Unione europea. In questo contesto vale la pena ricordare l’amara dichiarazione di un deputato della sinistra tedesca citata dai giornali europei l’anno scorso: l’Ue si trova ora in una condizione tale che non soddisferebbe i criteri per la sua stessa adesione all’Unione europea.

L’analisi della nuova realtà della relazione tra l’Ue e i Balcani occidentali è chiara: il processo di avvicinamento sta subendo un profondo rallentamento, anche rispetto al 2018. E, in alcuni casi, la realtà è diventata ancora più problematica. Le ragioni sono due. In primo luogo, ci sono questioni interne che hanno alimentato questo meccanismo “controeuropeo”; c’è poi una certa riluttanza, mischiata a ignoranza e a []i di giudizio, da parte della stessa Ue rispetto alla realtà dei Balcani e alla natura dell’ostilità locale ad avviare le riforme e a progredire sulla via dell’adesione all’Ue.

La logica alla base dei nuovi leader nazionalisti e corrotti al governo e dei loro partiti è semplice: qualsiasi avvicinamento verso l’Ue rappresenta un passo verso la perdita del potere che hanno acquisito, basato sulla malapolitica, sullo sfruttamento, sulla corruzione e su uno stato paralizzato.

I limiti del processo di Berlino

Nell’ultimo decennio il tentativo più serio dei paesi dell’Ue di integrare i paesi dei Balcani occidentali è il Processo di Berlino: la prima conferenza, avviata da Angela Merkel, si è tenuta nella capitale tedesca il 24 agosto 2014.

In tutti questi anni, le strutture e l’amministrazione dell’Ue si sono formalmente e regolarmente impegnate nel Processo di Berlino come coalizione allargata di 10 paesi dell’Unione europea in nome dello sviluppo della regione. Inizialmente hanno aderito l’Austria, la Croazia, la Germania e la Slovenia, poi la Francia, l’Italia, il Regno Unito, la Polonia, la Grecia e la Bulgaria. Gli incontri annuali dei leader di questi Paesi si sono svolti a Vienna, Parigi, Trieste e Londra. L’ultimo si è tenuto a Poznań, in Polonia, nel luglio 2019.

Questi incontri avevano come obiettivo principale quello di sostenere i paesi dei Balcani occidentali — Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Serbia e Montenegro — nel loro processo di adesione all’Ue, nonché di incoraggiare una più stretta cooperazione regionale. L’entusiasmo iniziale, tuttavia, si è raffreddato poco dopo la prima conferenza di Berlino, quando l’allora neoeletto presidente della commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha chiarito che non ci saranno ulteriori allargamenti durante il suo mandato . Il processo di Berlino è stato quindi, fin dall’inizio, un piano B per i Balcani occidentali: l’allargamento dell’Ue sarebbe stato ritardato a tempo indeterminato. Per le élite politiche della regione, il processo è diventato una questione interna. In Europa, invece, l’attenzione si è rivolta alle questioni irrisolte, rispetto alle quali i Balcani non erano più una priorità.

Guardando con il senno di poi ai cinque anni di processo di Berlino, sembra chiaro che l’obiettivo non era un coinvolgimento più ampio dei paesi balcanici nelle strutture interne e nell’organizzazione dell’Unione. Al contrario, lo scopo era quello di valutare l’adesione formale e tecnica ai principi dell’Ue e di garantire che i requisiti per entrare a far parte della famiglia europea fossero soddisfatti sulla carta. Troppo spesso la distanza della realtà balcanica è stata volutamente trascurata, invece di considerare la velocità e il grado di avvicinamento alla realtà europea come il vero criterio di valutazione del percorso europeo dei Balcani.

Durante le varie riunioni che hanno segnato il processo di Berlino le dichiarazioni finali non hanno insistito abbastanza sull’instaurazione dello stato di diritto come condizione fondamentale per i futuri candidati e nuovi membri. L’atteggiamento nei confronti dello stato di diritto è tradizionalmente una pietra angolare dei processi democratici in paesi che hanno una lunga tradizione di governo democratico e di società civile. Purtroppo, questo dato di fatto sembra valere per l’Europa ma non per i Balcani. Le caste dirigenti si sono invece create uno spazio tutto loro, in particolare nei paesi nati dalla disintegrazione della Jugoslavia. Molti governi si sono formalmente impegnati ad accelerare le riforme, a risolvere le controversie bilaterali, a progredire nella riconciliazione e ad approfondire la cooperazione regionale. Ma sembra invece che gli europei abbiano trascurato per anni la mancanza di una comprensione elementare dello stato di diritto e del rispetto delle istituzioni nei Balcani.

Gli esempi a conferma di questo atteggiamento sono diversi in ciascuno dei paesi che aspirano ad aderire all’Unione europea. Sebbene si tratti di realtà diverse, condividono tutte un comune denominatore: uno stato di diritto – prerequisito per le riforme e l’adesione all’Unione europea – marcatamente destrutturato, sistematicamente disordinato e deliberatamente trascurato.

Purtroppo, le risposte dell’Ue non sono state all’altezza. Gli obiettivi principali dell’Ue in generale, e nei Balcani occidentali, sono l’economia, i profitti e il mercato, e questa regione non è prioritaria in questo senso. In molti ambienti europei e nell’amministrazione dell’Unione in particolare l’essenza dei problemi ricorrenti nei Balcani, legati principalmente a questioni storiche, nazionali e religiose, è fraintesa. Ma è su queste basi che si devono cercare soluzioni, non nel rispetto delle regole della "vecchia Europa".

Bloccare i progressi, su tutta la linea

Il cuore della crisi in Bosnia Erzegovina nasce dai problemi derivanti da una società disintegrata di proposito. Le relazioni in questo stato plurinazionale e multireligioso sono dominate da animosità, conflitti e disaccordi deliberatamente risvegliati. È passato oltre un anno dalle ultime elezioni, nell’ottobre 2018, e non sono stati formati gli organi di governo centrale – dai parlamenti al Consiglio dei ministri – bloccando così in tutto o in parte i processi di riforma legati all’adesione all’Ue.

Non è una coincidenza. Gli ostacoli sono causati e mantenuti dai leader di tutte e tre le comunità nazionali, o meglio dai loro principali partiti nazionalisti che Bruxelles considera i partner principali. La magistratura ne è l’anello più debole: è sotto il controllo assoluto della politica che ha assunto il potere costituzionale-istituzionale bloccando tutti gli altri meccanismi. L’Ue, invece, ritiene che le riforme realizzate siano impressionanti. Un cinismo del quale l’opinione pubblica è ben conscia. Perciò la candidatura della Bosnia Erzegovina è ancora più lontana e la data di inizio dei negoziati incerta. I leader del paese, che rilasciano dichiarazioni menzognere con cadenza quotidiana, sono interessati a mantenere lo statu quo, in quanto è l’unico modo per conservare il potere. Ogni passo che li avvicina all’Ue è per loro fatale: significa un funzionamento migliore delle istituzioni statali, del sistema giudiziario, della libertà di stampa e una riduzione delle tensioni etno-nazionali.

In Montenegro siamo al settimo anno di negoziati, ma con solo tre dei 35 capitoli di negoziato chiusi, e si parla già di una sospensione dei negoziati da parte dell’Ue. La causa risiede in parte nella situazione pessima e inaccettabile relativa ai capitoli 23 e 24 (sistema giudiziario, stato di diritto, libertà di stampa, sicurezza). La corruzione ai massimi livelli è diffusa, un fatto esplicitamente criticato dalla Commissione europea nel suo rapporto del maggio scorso. Ciononostante, il Montenegro ha ottenuto più di mezzo miliardo di euro dai fondi Ue tra il 2007 e il 2020.

La Serbia è entrata nel processo di adesione all’Ue in modo abbastanza efficace. Ha ottenuto lo status di candidato nel 2012, ha aperto i negoziati, ha aperto 13 dei 34 capitoli e ne ha chiusi 2. Tuttavia il riconoscimento del Kosovo rappresenta un problema insormontabile. Per quanto riguarda la soluzione, Belgrado è oggi più lontana di qualche anno fa, anche se non solo per colpa sua. Il sostegno europeo alla risoluzione della questione Kosovo attraverso l’ottimistico processo di Bruxelles, un’iniziativa di mediazione iniziata nel 2011, è completamente fallito. A questo si aggiunge il fatto che, proprio come la Croazia, la Serbia è in preda a visioni ideologiche estremamente retrograde del passato, che restringono ulteriormente il suo cammino verso un futuro europeo.

La Macedonia del Nord non ha aperto i negoziati di adesione, anche se ha fatto grandi – e dolorose – concessioni all’inizio del 2019 e ha cambiato nome su richiesta della Grecia. Il miglioramento delle relazioni di vicinato è stata una priorità del processo di Berlino; il nuovo governo di Skopje ha raggiunto questo obiettivo, anche firmando il trattato di amicizia, buon vicinato e cooperazione con la Bulgaria nel 2017. Tuttavia l’avvio dei negoziati di adesione all’Ue della Macedonia settentrionale, come raccomandato dalla Commissione europea, è stato bloccato dalla Francia nel giugno 2019. La Bulgaria sta ora imponendo una condizione: chiede che l’appartenenza nazionale del rivoluzionario del XIX secolo Goce Delčev sia definita come “bulgara” nei libri di storia macedoni. Si tratta di un esempio che mostra quanto le condizioni poste dagli stati membri dell’Ue ai paesi terzi siano tutt’altro che irrilevanti.

Il processo di avvicinamento all’Ue del Kosovo è fermo come quello della Serbia. Come la Bosnia Erzegovina, non ha ancora uno status rispetto all’adesione. Entrambi i paesi, ognuno a suo modo, sembrano fare del loro meglio per ritardarlo il più a lungo possibile. L’Europa ha fallito in questo senso e il Kosovo è sull’orlo di un blocco totale a causa delle relazioni interne irrisolte tra albanesi e serbi, della corruzione che domina in tutti i settori, della criminalità e di radicalismi di ogni tipo.

L’Albania è ufficialmente candidata all’adesione dal giugno 2014, ma le relazioni interne, la corruzione e la forte influenza negativa della mafia – a livello locale e nella diaspora – sono evidenti ostacoli sul cammino intrapreso. Un’elezione a sorpresa difficilmente risolverà la situazione. Nemmeno il parere favorevole della Commissione europea ha aiutato all’apertura dei negoziati, poiché altre condizioni sono diventate più complesse.

Molti nei Balcani occidentali speravano che i candidati più avanzati nei negoziati avrebbero avuto l’opportunità di aderire nel 2025. Si presumeva naturalmente che il rispetto dei criteri di adesione fosse indiscutibile e che l’Ue avrebbe continuato a mostrare interesse per l’allargamento.

In questo contesto la dichiarazione della Cancelliera Merkel è incoraggiante. Tuttavia alla luce dei recenti sviluppi, una dichiarazione così esplicita è in qualche modo sorprendente semplicemente perché, negli ultimi anni, l’intera realtà globale è cambiata: le nuove relazioni tra Stati Uniti ed Europa, il fattore russo, la posizione della Turchia e gli sviluppi in Medio Oriente, fino ad arrivare alla devastante situazione con i rifugiati e alla "riorganizzazione" delle relazioni all’interno dell’Ue e ai suoi confini.

Una nuova geopolitica

Le relazioni geopolitiche globali che coinvolgono i Balcani occidentali stanno diventando più nette. Gli Stati Uniti stanno aumentando la loro influenza per accrescere la presenza strategica nella regione. Serbia e Bosnia Erzegovina sono ufficialmente gli ultimi due paesi dei Balcani dei quali l’adesione alla NATO, tema centrale per gli Usa, non è prevista (la Macedonia del Nord è in procinto di aderire). A Belgrado esiste un’influenza russa diretta ed esplicita. In Bosnia  Erzegovina, la Republika Srpska si identifica pienamente con gli obiettivi politici di Belgrado e ostacola i passi in direzione dell’Ue.

La Turchia sta cercando apertamente di riconquistare la sua influenza imperiale nei Balcani in Albania, Kosovo, Macedonia del Nord, Serbia (soprattutto la provincia del Sangiaccato), e Bosnia Erzegovina in particolare. Mentre l’influenza sulla Bosnia Erzegovina è prevalentemente religiosa e culturale, su Belgrado è economica.

Altrettanto scarse sono le prospettive degli Usa di superare la resistenza in Serbia e della Republika Srpska in Bosnia Erzegovina per entrare nella NATO.

Il vuoto economico lasciato dall’Ue nei Balcani occidentali viene rapidamente colmato dalla Cina senza alcuna resistenza da parte dei cittadini di questa regione.

Il moderato ottimismo si nutre di nuovi concetti, come l’iniziativa di scambio dell’Organizzazione regionale per la cooperazione giovanile, mentre i vertici di Londra e Poznań nell’ambito del processo di Berlino hanno rafforzato la cooperazione in materia di sicurezza e di economia. Progetti di questo tipo contribuiscono senza dubbio a creare un’atmosfera positiva attraverso incontri dei cittadini della regione, soprattutto dei giovani e delle persone più istruite, avvicinandoli e contribuendo alla comprensione reciproca. Tuttavia, l’energia negativa che proviene dalla politica, interessata esclusivamente alla sopravvivenza di governi corrotti sostenuti da tensioni e istituzioni vuote, è molto più forte dell’ottimismo dei giovani che, di conseguenza, emigrano in massa.

Ci sono molti esempi nella vita politica quotidiana dei Balcani della mancanza di volontà politica di risolvere problemi che, se fossero risolti, potrebbero avere un effetto positivo sul rafforzamento della stabilità regionale.

A un certo punto è stato annunciato che le organizzazioni della società civile dei Balcani occidentali vogliono istituire una commissione regionale per determinare gli avvenimenti che hanno causato vittime, crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani commesse nell’ex Jugoslavia. Nonostante più di mezzo milione di firme a sostegno della commissione, in una regione di circa 18 milioni di persone, non tutti i governi dei Balcani si sono detti disposti a sostenere l’iniziativa.

La motivazione per un maggiore coinvolgimento dei governi della regione nelle attività del Processo di Berlino è in calo. La mancanza di prospettive di adesione rende difficile l’attuazione delle disposizioni dei precedenti vertici. Si avverte sempre più spesso, soprattutto in Bosnia Erzegovina, nonostante i diversi progetti lanciati e spesso non realizzati, che l’Ue non ha ancora la volontà politica sufficiente per affrontare seriamente questo paese e le deprimenti conseguenze del suo assurdo sistema costituzionale.

Cresce la convinzione che l’interesse fondamentale della comunità internazionale sia quello di mantenere lo statu quo che conviene alle oligarchie al potere, interessate a divisioni basate su un concetto etno-religioso dell’organizzazione dello Stato e della società.

La Croazia assume la presidenza dell’Ue

Tracce di quanto detto si possono vedere nel processo di integrazione europea dei Balcani occidentali, nei diversi atteggiamenti dei paesi dell’Ue nei confronti dell’allargamento, e anche nei rapporti tra i paesi che si stanno avvicinando all’Unione. Questi rapporti sono al punto più basso dall’ultima guerra nell’ex Jugoslavia. Questo vale soprattutto per le pessime relazioni tra Croazia e Serbia, tra Croazia e Bosnia Erzegovina (circola l’idea di una "entità croata in Bosnia Erzegovina") e tra Serbia e Bosnia Erzegovina (c’è un separatismo all’interno della Bosnia Erzegovina). Le relazioni tra Serbia e Montenegro sono altrettanto pessime e né la Serbia né la Bosnia Erzegovina riconoscono il Kosovo.

In questo contesto, ci si chiede come la Croazia presiederà l’Unione europea dal gennaio 2020: il paese attraversa una fase evidente di radicalizzazione interna dell’estrema destra nazionalista e di sostegno a tendenze fasciste prima sconfitte. La Croazia ha problemi con praticamente tutti i paesi della regione. Questo è particolarmente vero nel caso dei suoi vicini: Bosnia Erzegovina, Serbia e Slovenia. Confini controversi, espropriazioni che risalgono all’epoca della Jugoslavia e questioni relative ai morti e ai dispersi durante la guerra rimangono irrisolti. Oltre a questo in Bosnia Erzegovina c’è un forte sentimento riguardo all’interferenza diretta – e insopportabile – di Zagabria negli affari interni.

La Croazia continua a sostenere la volontà del partito dell’Unione democratica croata della Bosnia Erzegovina (Hdz Bih, nazionalista) di modificare la legge elettorale in modo da favorire i propri candidati ai seggi riservati ai croati. In sostanza, la linea d’azione principale dell’Hdz Bih in Bosnia Erzegovina è diventata la negazione totale, aperta e aggressiva, di qualsiasi progetto civile nell’organizzazione dello stato. In questo modo dimostrano di sostenere ogni sorta di forze nazionaliste condannate dal Tribunale penale internazionale dell’Aja (Tpi), retrograde ed estreme in Croazia e in Bosnia Erzegovina.

Il rifiuto dei verdetti del Tpi è pubblicamente incoraggiato e i leader separatisti e i loro associati criminali sono ora diventati eroi della lotta per gli interessi nazionali. Queste posizioni non sono più casi isolati, ma fanno parte della politica del governo croato. Va inoltre notato che gli avvertimenti ripetutamente inviati alla Croazia dall’Ue sono stati completamente ignorati, comprese le raccomandazioni e le opinioni della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo su casi specifici. È difficile credere che una politica di questo tipo possa godere della necessaria credibilità durante la presidenza dell’Ue e, in particolare, nel processo di avvicinamento all’Unione europea di altri paesi dei Balcani occidentali.

Ambiguità insostenibile

Considerando la situazione dopo le recenti elezioni europee, è difficile prevedere se o in che misura la politica dell’Unione cambierà atteggiamento rispetto all’integrazione dei paesi dei Balcani occidentali. Finora non ci sono state indicazioni che facciano pensare che la logica, la strategia o la politica dell’Ue saranno diverse. Il funzionamento dell’Unione stessa sta diventando sempre più complesso da gestire e importanti cambiamenti strutturali sembrano improbabili.

Nel complesso, le relazioni politiche nei Balcani assomigliano alla situazione che oggi si è creata in Europa e nel mondo: mancanza di fiducia, scarsità di soluzioni costruttive e incapacità di guardare al futuro. Purtroppo i Balcani hanno sempre più a che fare con il passato e continuano ad applicare “vecchi schemi” in modo distruttivo, al limite dell’aggressività.

Difficile dire se, in questo contesto, sarebbe più auspicabile accelerare i processi di adesione dei paesi balcanici all’Ue con tutti i problemi derivanti da questo potenziale "salto" o, al contrario, allontanare coloro che non mostrano sufficiente volontà di integrazione per rimanere al potere. Non perché la risposta non sia chiara, ma perché l’Ue deve avere chiaro qual è il risultato migliore per l’Europa nel suo complesso.

Il margine di manovra della Commissione europea è limitato e influenzato da almeno tre fattori aggravanti. Anzitutto, l’Unione europea è tornata ad essere un progetto aperto a causa di molte questioni interne ed esterne. Resta il fatto che non la si possa definire come un progetto globale di pace prosperità e sicurezza, se i Balcani occidentali non ne fanno parte. In secondo luogo, le influenze esterne nella regione, soprattutto quelle di Stati Uniti, Russia e Turchia, si stanno rafforzando e spesso si oppongono agli interessi dell’Ue; è problematico che queste influenze siano sempre più viste come accettabili per alcuni paesi europei e in quelli candidati all’adesione. In terzo luogo, la cooperazione regionale si sta indebolendo. Si incoraggiano invece tensioni e animosità.

L’unica cosa che la nuova Commissione non dovrebbe permettere è che questa situazione si protragga senza offrire risposte chiare e inequivocabili e, cosa ancora più importante, senza mettere in atto politiche più vigorose contro tendenze di questo tipo, sia all’interno che all’esterno dell’Ue.

Insomma, la situazione nei paesi dei Balcani occidentali, in generale e per quanto riguarda l’integrazione europea, è peggiore rispetto a qualche anno fa. Ci sono meno motivi di ottimismo di quelli che in molti, a Bruxelles vorrebbero vedere o ammettere.

 

Traduzione di Francesca Barca | VoxEurop

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