Lettere da Creta: verso i Monti Bianchi
Continuiamo nel nostro reportage "Lettere da Creta". In autobus da Chanià a Paleochora, nel selvaggio sud di Creta, accompagnati da margini stradali meravigliosamente fioriti: il giallo di margherite e crisantemi, i viola delle malve, i rossi e i bianchi dei papaveri
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Creta è un frammento di parallelo, in forma d’isola. Non solo è stretta e allungata da est a ovest, ma è anche leggermente incurvata. Un frammento balcanico disperso nel Mediterraneo orientale, adattato alla proiezione di Mercatore, al cui ingegno cartografico ancora ci affidiamo, almeno alle medie latitudini. Nel mito, aggiornato da Nikos Kazanzakis, “Creta è una Lamia ingorda, seduta sulle onde / intreccia i capelli verdi, affonda le navi e ride”.
Creta è per me oggi l’isola dei Monti Bianchi, Lefka Ori, quelli che vedevo questa mattina all’alba dal molo di Chanià, quelli che vedo apparire e scomparire al finestrino, tra una curva e l’altra, sulla strada che sto percorrendo sul bus KTEL n.17, in direzione Paleochora. Partenza 8:45, arrivo previsto 11:00, per circa 70 chilometri, dalla costa nord a sud. Lefká Mountains, sono per gli inglesi che li conoscono bene, non solo geograficamente, ma anche militarmente. Sul sito di Britannica si legge che queste montagne hanno una storica funzione difensiva nel sudovest dell’isola, contro gli invasori, “against invaders, from the Ottoman Turks to the Germans during World War II”. Montagne e montanari che, come ho già raccontato, sono stati alleati degli inglesi nella feroce guerra di liberazione contro i nazisti e nello specifico nella mitica vicenda del rapimento del generale Heinrich Kreipe, vissuta e raccontata da William Stanley Moss e Patrick Leigh Fermor.
Sul bus oggi c’è pochissima gente: vecchie signore vestite di nero che stringono al petto borse della spesa strapiene, un uomo grande e grosso che occupa due sedili e armeggia lentamente un komboloi, alcuni ragazzi cretesi immersi nel loro smartphone-world. Credo siano studenti che tornano nei paesi d’origine per le vacanze pasquali. C’è anche una giovane coppia di camminatori francesi, con cui ho fatto due chiacchiere alla stazione, prima di partire. Mi hanno detto che da un paio d’anni stanno facendo a tappe il sentiero E4, che va da Tarifa in Spagna a Larnaca a Cipro. 12.000 chilometri su antichi e nuovi percorsi; per un vero e proprio viaggio iniziatico che a loro dire dovrebbero fare tutti gli europei, per dirsi tali a prescindere dal luogo d’origine. Scambiamo poi rapidamente qualche considerazione sulla parte che andremo a percorrere, a partire dalla carta in scala 1:50.000 che ho io, la n.402 di Nakas Road. Loro hanno una più tecnologica cartografia digitale su un piccolo GPS, e mi fanno vedere con orgoglio il loro lungo cammino, un serpente rosso che nei prossimi giorni crescerà ancora, attraversando tutta Creta da Kastelli nell’estremo ovest a Kato Zakros a est. Perciò i due, belli e sorridenti come due dei, scendono alla fermata di Tvronitis sulla costa, prima che il bus svolti a destra per attraversare l’isola.
“Mascula!”, intima l’autista a un operaio che sale senza mascherina. C’è ancora Scirocco teso che fa garrire le bandiere greche e stormire le fronde d’ulivo. La strada incomincia a salire su colline completamente coltivate. Ulivi, ulivi e ulivi ancora, a destra. Mentre a sinistra le vette innevate dei Monti Bianchi sono sempre più vicine. I margini stradali sono invece meravigliosamente fioriti. Il giallo di margherite e crisantemi domina, punteggiato qua e là dai viola delle malve, i rossi e i bianchi dei papaveri. Perché qui è diffusa anche la varietà selvatica a fiore bianco. Papavero le cui proprietà farmacologiche erano conosciute fin dall’età minoica, come testimonia l’ipnotica terracotta della Poppy Goddess che ho visto nei giorni scorsi nel museo archeologico di Iraklio. Stava in una teca con decine di altre piccole terracotte chiare, raffiguranti donne con lunghe gonne a torso nudo. piccoli seni, braccia alte e mani aperte, alla maniera di chi si arrende. Ma guardando meglio, hanno occhi a palpebre chiuse che mi hanno fanno pensare a posture ascetiche. Di certo la nostra dea risale al XV secolo a.C. e ha sulla testa a mo’ di corona tre capsule di papavero incise, come era ed è d’uso per l’estrazione della preziosa sostanza da cui si ottiene l’oppio. Parola derivata dal greco, con significato di “succo”; un farmaco, pharmakos, cioè che insieme cura e avvelena.
Non c’è traffico, incrociamo e veniamo superati da qualche pick-up, superiamo invece qualche trattore. Auto e moto poche; bici nessuna. La strada attraversa piccoli villaggi e dopo una decina di chilometri incomincia a farsi più ripida, salendo e scendendo per tornanti. Al bivio per Palea Roumata il bus si ferma per far scendere una vecchia signora e ho il tempo di vedere un monumento ai caduti della Seconda Guerra Mondiale. Tre lastre di marmo bianco aperte a libro. Una croce al centro e una quarantina di nomi sulle due pagine laterali. Uomini, donne, vecchi e bambini, dai 3 agli 85 anni, morti per cause militari immagino, tra il 1941 e il 1944.
Arriviamo a Paleochora con 10 minuti di ritardo e scendiamo all’inizio della strada principale che è il cuore del paese. Cielo grigio, vento forte che solleva la polvere e fa cigolare le insegne. Pochissima gente in giro. Atmosfera da Farwest! e in effetti questo paese è la porta del selvaggio sud di Creta. Basta guardare una mappa per rendersene conto. Da Paleochora non partono strade costiere, né in direzione ovest, né in direzione est. Sono una sessantina di chilometri che si possono percorrere solo a piedi su sentieri antichi, perdendo lo sguardo a sud nel blu del Liviko Pelagos o a nord verso le bianche vette dei Lefka Ori. Sono i seni di Creta, della dea che sta “assisa sull’altro trono / regge sul mare la bilancia e pesa tutti i baci”. Quelli dei venti e delle nuvole cantati da Kazantzakis, quelli che gli rivolgiamo noi viandanti affetti da cretafilia.