Lettere da Creta: ritrovando Candia
L’ultima puntata di un lungo reportage di viaggio che da Venezia ci ha portati a Creta… e ritorno. Raccontando ai lettori attraverso mani, occhi, orecchie e naso. Perché, ricorda Fabio Fiori "la corporeità è necessaria affinché un viaggio possa dirsi tale"
(Vai a tutte le puntate del reportage "Lettere da Creta", in mappa, nel dossier)
Il mio viaggio a Creta s’è concluso mesi fa. Non è vero!
“Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione”, ha scritto José Saramago a conclusione del suo “Viaggio in Portogallo”. Un libro che per me, da quell’ormai lontanissimo giorno d’inverno del 1996 quando lo aprii per la prima volta, non è mai stato una guida (e di questo ci informa subito anche l’autore), ma un manuale (e di questo invece non ci dice niente). Manuale, parola bellissima che rende omaggio alla mano che un tempo teneva il bulino con cui incideva la pietra. Mano che poi teneva la penna con cui scriveva su pergamena e carta. Mano, la mia mano, che oggi digita sulla tastiera. Cambiano gli strumenti, manuale rimane la scrittura, almeno per ora. Mani per scrivere, piedi per camminare e poi ci sono gli occhi, le orecchie, il naso, insomma una corporeità necessaria perché il viaggio possa dirsi tale. Questo scrive Saramago, attraverso un manuale d’odeporica, cioè di letteratura di viaggio, che mi ha insegnato anche a raccontare un luogo descrivendo il vento che è invisibile, la scia che è fugace, la luce che è imprendibile, cioè anche tutto ciò che è effimero. Leggendo quel libro ho capito che nei viaggi, piccoli o grandi, quotidiani o straordinari, le pietre valgono come la polvere, le persone sono protagoniste come gli animali, gli alberi fioriti emozionano come le erbe selvatiche.
Ma questo viaggio a Creta non finisce mai anche perché continuo a leggere saggi o romanzi, ad ascoltare canzoni o storie, di chi è affetto da cretafilia. Poi, quando la nostalgia si fa più struggente prendo un treno per Venezia. Così se il mio racconto terrestre sull’isola è partito e si è concluso sulla tomba di Kazantzakis a Iraklio, quello ideale per l’isola era partito dall’immagine della Mesopaditissa nella Chiesa di Santa Maria della Salute di Venezia e lì doveva concludersi.
Sono passati nove mesi e le mie esperienze cretesi si sono intrecciate con mille altre preoccupazioni, gioie, inquietudini. Se penso invece alla grande storia, in Italia c’è stata una svolta politica attesa, ma comunque disorientante, mentre in Ucraina la guerra continua. Difficilmente immaginabile è stato l’inizio, inimmaginabile sembra essere la fine. Il pacifismo italiano ed europeo quasi inesistente, almeno sui muri, nelle piazze, sui giornali e nella mediasfera. Perciò, anche il laico, sembra potersi appellare solo alla Mesopaditissa, la Madonna di Candia che è letteralmente e secondo la leggenda “mediatrice di pace”, quella del 1264 quando i veneziani sconfissero i candioti, quella del 1671 quando i veneziani vennero sconfitti dai turchi. Mesopanditissa, mediatrice di pace quindi, nella vittoria e nella resa, entrambe tragiche per donne e uomini coinvolti nelle guerre. Mesopanditissa che si celebra da allora, tutti gli anni, il 21 novembre.
Io sono ritornato da Lei qualche giorno dopo, quando il ponte votivo sul Canal Grande era già stato smantellato e non c’erano più bancarelle, candele, palloncini, cerimonie. Rimanevano però i paramenti festivi della chiesa e la gigantesca immagine che da mesi, da quando sono partiti i lavori di ristrutturazione, troneggia sulla facciata della Basilica. Un’immagine ultra-pop, una Mesopanditissa, una mega-icona alla maniera di Andy Warhol. Dentro alla basilica, nei maestosi spazi barocchi disegnati da Baldassare Longhena nel Seicento, c’era ancora odore d’incenso e candele, qualche fedele in preghiera, un prete che riordinava i fiori sotto all’altare maggiore.
“Buonasera. Posso chiederle?”
“Buonasera a lei. Mi dica”, mi ha risposto continuando il suo lavoro.
“Com’è andata la festa quest’anno?”
“Bene! Tanta xente. Sa, c’era curiosità anche per le nuove corone”
“Cioè?”, chiedo io.
“Ah! Non sa che Nardi, il gioielliere di San Marco, ha realizzato due nuovi, preziosi diademi con alcuni ex-voto, per la Madonna e il Bambino? Chiediamo la fine della pandemia e della guerra. Speremo … e preghemo”
Interrompe il suo lavoro e m’invita a sedermi, per raccontarmi la venerazione di oggi e la processione con le barche di ieri, i restauri, le grazie e le preghiere.
Esco dalla Basilica che è quasi buio ed è ormai tardi per andare alla Marciana. Perché il pellegrino laico affetto da cretafilia venera anche i libri candioti, custoditi nel Palazzo della Libreria Sansoviniana. Lì nelle sale antiche di consultazione sfogliando e ammirando manoscritti quattrocenteschi e libri a stampa successivi, Candia torna ad essere veneziana, parte dello Stato da Mar. Una meravigliosa costellazione mediterranea di venezianità, di cui comunque non dimentico anche il portato tragico di battaglie, violenze e lutti.
Libri a cui tornare, cercati volontariamente. Ma anche incontrati casualmente nella vetrina di una libreria antiquaria in Calle Lunga di Santa Barnaba. Perché girovagando per Venezia può accadere anche questo. Perché, malgrado la gentrificazione e/o banalizzazione della città, non mancano librerie pregiate, laboratori artigianali, bacari veraci, circoli politici, associazioni sportive e culturali, insomma tutto ciò che differenzia una città viva da una morta, un luogo civile da uno spazio barbaro, che oggi spesso significa turistico. Davanti a quella vetrina mi sono fermato in religiosa ammirazione per ammirare una copia della Historia della guerra di Candia di Andrea Valiero, stampata nel 1679. Librerie dove ritrovare l’antica aura cretese. Oppure forni, sempre a Dorsoduro, dove ritrovare gli antichi sapori: fritole, carameli, busolai, baicoli, zaleti e pevarini. Dolci speziati che celebrano la Mesopanditissa, che profumano d’oriente mediterraneo. Dolci per una Festa della Salute che è per me anche Festa Candiota, non come rimpianto di un possedimento d’oltremare, ma di un sentimento d’appartenenza a una comunità veneta, cretese, turca o più in generale mediterranea. Mesopanditissa come madre che appacifica e rappresenta tante culture, riflesse in un unico mare.
Creta isola degli dei. Creta isola dei sogni, dell’eterno ritorno alla primigenia fanciullezza.
Ps
I nomi dei dolci veneti sono trascritti dai cartellini di un forno a Dorsoduro, ma confesso che, con un misto di curiosità e inquietudine, le altre parole venete le ho verificate con il traduttore online disponibile sul sito http://www.linguaveneta.net , legato al Consiglio Regionale del Veneto. Ma va ordinata in un vocabolario la lingua veneta? o per riagganciarsi a cronache recenti, può o deve essere insegnata? Mah?! Mi limito a riprendere le parole del poeta Andrea Zanzotto, nato e cresciuto in Veneto, amato e letto ovunque, che tanto ha scritto anche nella lingua madre. Il dialetto è “parola che viene”, veniente – ha aggiunto – «di là dove non è scrittura né grammatica», parola che rimane per questo «quasi infante nel suo dirsi» (tratto da: Andrea Zanzotto. In nessuna lingua. In nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009; Quodlibet, 2019)