L”Eccezione’ che Belgrado non ha visto
Sono pochi gli scambi tra Belgrado e Pristina. A febbraio "Exception", una retrospettiva di giovani artisti kosovari ha rappresentato uno dei pochi tentativi di rompere l’isolamento, ma l’inaugurazione a Belgrado è stata bloccata da un gruppo di estremisti. Un nostro reportage
Sono davvero pochi gli scambi di esperienze tra Belgrado e Pristina. Uno dei rari tentativi fatti di recente di rompere l’isolamento è stato rappresentato da un progetto dal nome significativo "Exception", una retrospettiva della scena dell’arte contemporanea a Pristina. La mostra è stata tenuta a Novi Sad, ma non a Belgrado, dove un gruppo di estremisti ha bloccato la sua apertura manifestando violentemente durante i giorni "caldi" del febbraio 2008. Osservatorio ha incontrato alcuni dei principali organizzatori di "Exception". Le loro conclusioni: una forma di "razzismo culturale" ha impedito l’apertura della mostra, l’arte può essere l’unico forum davvero aperto per una comunicazione vera tra Pristina e Belgrado ma, nonostante la convinzione degli sforzi messi in campo, è ancora difficile superare i pregiudizi.
Volevano essere "un’eccezione contro i pregiudizi dominanti, e contro silenzi e tabù esistenti tra serbi ed albanesi. Un’eccezione rispetto a tutto quanto sta succedendo. Parliamo in continuazione di confini e territori, ma mai di storia e di persone", racconta ad Osservatorio Vida Knezevic, 28 anni, curatrice di eventi artistici, mentre parliamo all’interno della galleria "Kontekst", a Belgrado. Lo scorso febbraio, la galleria non ha potuto inaugurare una mostra intitolata "Exception" ( "Odstupanje", in serbo), una retrospettiva a lungo programmata sulla scena dell’arte contemporanea a Pristina. I pensieri di Vida somigliano a quelli di Dren Maliqi, 27 anni, uno degli undici artisti selezionati a prendere parte al progetto. In uno dei tanti nuovi bar di Pristina, Dren sostiene che "il problema dei politici serbi, quando parlano di Kosovo, è che si concentrano sempre sul territorio, e mai sulle persone". Quando chiedo a Dren: "Ma ascoltando i politici di Pristina, non si ha forse la sensazione di ascoltare lo stesso ritornello, solo in direzione opposta?", il giovane artista sintetizza così il suo pensiero: "Thaci è un prodotto dello stato serbo. Se non ci fosse stato Milosevic, allora non sarebbe comparso nemmeno Thaci".
Due anni fa, Vida e i suoi colleghi della piccola galleria "Kontekst" si sono chiesti: "Abbiamo mai incontrato qualcuno di Pristina? Conosciamo anche un solo artista in quella città? No!" Oggi, Vida ancora si chiede: "ma perché no? Eppure il Kosovo era ancora parte della Serbia?! Nel 2006 ci siamo resi conto che non sapevamo niente di quanto succedeva a Pristina, dal punto di vista artistico. Noi facciamo parte della generazione che negli anni ’80 e nei primi ’90 era ancora troppo giovane per essere davvero politicamente cosciente. Abbiamo dovuto scavare per andare a conoscere quanto prodotto allora". Dopo due viaggi di ricerca sul terreno a Pristina, e diciotto mesi di lavoro, il progetto "Exception" è stato mostrato al Museo di Arte Contemporanea di Novi Sad, e avrebbe dovuto poi trasferirsi a Belgrado, dove l’apertura era prevista per il 7 febbraio 2008. La mostra avrebbe dovuto essere poi accompagnata da una serie di altre iniziative, come tavole rotonde sia a Belgrado che a Novi Sad (insieme alla galleria "Kontekst", il progetto è stato promosso anche dall’Istituto per le Culture e Tecnologie Flessibili, con sede nel capoluogo della Vojvodina). Poi, come alcuni lettori sicuramente ricorderanno, l’ "eccezione", per così dire, è tornata nella norma, quando circa 300 manifestanti, che B92 ha identificato "quali membri del movimento nazionalista ‘Obraz’ (in serbo ‘faccia’, ‘onore’ ", hanno impedito l’apertura della mostra nella sede belgradese della galleria "Kontekst".
Due dei manifestanti hanno parzialmente distrutto l’opera "Face-to-Face", nella quale Maliqi ha messo di fronte alla famosa riproduzione di Andy Warhol di Elvis che stringe una pistola, con quella di Adem Jashari in uniforme militare. Jashari viene considerato un eroe di guerra dalla stragrande maggioranza degli albanesi del Kosovo, mentre per molti serbi non è altro che un t[]ista. Lo scopo dell’opera, secondo Maliqi, era quello di voler confrontare due icone provenienti da due mondi diversi, l’Occidente da una parte e il Kosovo dall’altra, una pop star e un eroe di guerra perché nel 2003, anno in cui l’artista ha pensato e realizzato l’opera "l’icona più forte in Kosovo era proprio Jashari". Maliqi riconosce che "a Belgrado quest’opera può essere percepita in modo diverso, e alcuni possono pensare che il mio scopo fosse quello di provocare. Io, però, in forma quasi giornalistica, volevo rappresentate cosa sta succedendo nella società in cui vivo, confrontandomi col significato che Elvis ha avuto in un’altra società in un diverso momento storico".
In ogni caso, "Face-to-Face" era soltanto una delle molte opere riunite all’interno di "Exception". Lo stesso Dren poteva vantare un’altra opera all’interno del progetto: la proiezione della parola "speranza", in lettere bianche, su un muro completamente bianco…Vida non sembra volere che la sua speranza svanisca lentamente, ma le sue parole sono venate di pessimismo quando ci dice che "dopo questo incidente, una certa ideologia clerico-fascista è venuta alla luce in modo molto evidente".
"Siamo stati molto ingenui a credere che la polizia avrebbe garantito l’apertura della mostra e difeso la nostra incolumità personale", aggiunge la giovane curatrice, per poi domandare: "Perché la polizia non ci ha suggerito di aprire in un giorno diverso? Come è possibile che la stessa polizia non sia stata in grado di proteggere una galleria tanto piccola come la nostra? Perché hanno mostrato tanto interesse a sapere quando avremmo spostato le opere altrove, se queste, per il 70%, sono rappresentate da DVD? Perché nessuno ha risposto alla nostra lettera, nella quale chiedevamo chi ha distrutto l’opera di Maliqi?". Vida sottolinea quanto la polizia sia stata ugualmente inefficiente durante gli scontri del 21 febbraio a Belgrado, che hanno coinvolto alcune ambasciate, mentre "durante il festival ‘Eurovision’ la polizia se l’è cavata alla grande! E’ un semplice esempio del fatto che questa è in grado di mantenere l’ordine. Correva voce che durante l’evento musicale, a Belgrado, avrebbero potuto esserci aggressioni a gay o lesbiche. Fortunatamente, però, non è successo niente. Se la polizia avesse voluto, avrebbe potuto tranquillamente proteggere la nostra galleria". E adesso? "Forse non esistono le condizioni per aprire la mostra a Belgrado quest’anno. Forse… Nel frattempo, alcune gallerie fuori dalla Serbia ci hanno invitato a mostrare lì le opere di ‘Exception’. Noi, però, abbiamo deciso di declinare l’invito. Il progetto è stato pensato proprio per il nostro contesto", racconta Vida.
Borka Pavicevic, 61 anni, autrice e drammaturga, era uno degli ospiti più importanti invitati all’apertura di "Exception". Nel 1997, nel Centro di Decontaminazione Culturale, Borka ha ospitato una mostra intitolata "Pertej" (in albanese "oltre", "più in là"), l’ultima retrospettiva di arte contemporanea del Kosovo presentata a Belgrado. Undici anni dopo, l’autrice racconta all’Osservatorio che quanto successo all’inaugurazione di "Exception" lo scorso febbraio è "razzismo culturale. Il riciclaggio di un nazionalismo schizofrenico. Alcuni stereotipi tornano ad emergere", sostiene Borka, "e i media, in generale, si comportano in modo irresponsabile, visto che contribuiscono alla polarizzazione del discorso pubblico tra ‘noi’ e ‘gli altri’, creando odio, paura e tensione".
Dren Maliqi concorda che "anche i cosiddetti ‘media indipendenti’, sia a Pristina che a Belgrado, presentano la società come totalmente schiacciate sulla propria identità nazionale e sulle posizioni della propria gerarchia politica". Vida Knezevic porta ad esempio quanto successo sul caso di "Exception". "La manipolazione mediatica è iniziata già quando la mostra ha aperto i battenti a Novi Sad. Questa, probabilmente, è una delle ragioni degli incidenti avvenuti a Belgrado. Molti organi d’informazione, ma anche il Partito Radicale, hanno utilizzato la retrospettiva a scopo politico, sia durante la campagna elettorale per le presidenziali che alla vigilia della dichiarazione di indipendenza di Pristina. Hanno isolato l’opera di Dren su Jashari dal contesto della mostra". Vida poi aggiunge: "Non abbiamo voluto imporci alcun tipo di autocensura. Abbiamo lavorato a questo progetto per diciotto mesi, e la decisione di inaugurarla tra il gennaio e il febbraio 2008 è stata presa molto prima che venissero indette le presidenziali, o che si avesse sentore di altri avvenimenti importanti".
Dopo aver finito il nostro thè, a Pristina, Dren osserva che lui, Vida e Borka (tra gli altri) fanno parte "di una minoranza davvero piccola, che prova a rompere il confine immaginario venutosi a creare tra le due comunità. Lo facciamo nel campo artistico, perché a livello governativo o dei media non c’è quasi alcun tipo di comunicazione, che esiste solo nel mondo degli affari, soprattutto quelli di natura criminale".
Dopo aver acceso l’ennesima sigaretta nel suo ufficio al Centro di Decontaminazione Culturale, dove una mappa che rappresenta le guerre nell’ex Jugoslavia campeggia su una delle pareti, Borka ricorda che "le élites culturali devono comunicare per far diminuire il livello di isteria presente nelle proprie società, oggi come negli anni ’90. Gli artisti devono saper criticare anche i propri stati, per poter fare dei passi avanti". Borka parteciperebbe volentieri ad un progetto artistico a Pristina, come ha già fatto a Sarajevo, perché "gli assedi continuano ancora". Vida Knezevic, da parte sua, ci dice di non essere interessata all’idea di "presentare artisti serbi, a Pristina così come altrove. Non mi piace l’associazione per cui un artista debba rappresentare una nazione".
Sul "telefono rosso" tra Belgrado e Pristina non sono in molti a parlare, come fanno Vida, Dren o Borka. Loro, intanto, vogliono essere delle "eccezioni", in grado di guardare oltre il presente, superando assedi che pesano ancora sulle città in cui vivono.