Le privatizzazioni fallite che tormentano la Bosnia
Disagio sociale, disoccupazione, corruzione e assenza di futuro sono al cuore delle proteste di questi giorni in Bosnia Erzegovina. E i lavoratori licenziati tornano a denunciare le privatizzazioni, spesso torbide, di molte aziende pubbliche, ora miseramente fallite
(Pubblicato originariamente da “Balkan Insight " il 12 febbraio 2014, selezionato e tradotto da OBC)
Costringere alle dimissioni i governi cantonali è stata finora per i manifestanti bosniaci l’impresa più facile. Difficile, se non impossibile sarà fare in modo che vengano resi pubblici e denunciati i meccanismi e gli accordi delle privatizzazioni disastrose che hanno lasciato per strada migliaia di lavoratori.
Non è una sorpresa che le proteste di questi giorni in Bosnia siano iniziate a Tuzla, città a nord-est del paese, uno tra i maggiori poli industriali in Jugoslavia, oggi deserto industriale.
Perché Tuzla
A Tuzla le persone senza lavoro superano di gran lunga quelle che possono ritenersi fortunate ad averne uno. Questo è il risultato del fallimento di molte aziende privatizzate attraverso processi oscuri e ancora non del tutto chiari.
Nel cantone di Tuzla, che ha una popolazione di 477.278 abitanti, secondo i dati ufficiali, nel novembre 2013 si contavano 81.145 occupati e 98.766 disoccupati.
Tuzla è una città piuttosto diversa dalle altre città bosniache. Il tasso di disoccupazione nel paese è stimato tra il 27 ed il 44% (dipende dalla metodologia e dalle fonti). Ma probabilmente la situazione a Tuzla è un po’ peggiore rispetto al resto della Bosnia.
Le proteste a Tuzla sono cresciute quando la polizia ha iniziato ad usare la forza per disperdere centinaia di ex-lavoratori della Polihem e di altre aziende locali che si sono presentati davanti agli edifici dell’amministrazione cantonale per chiedere l’annullamento degli accordi di privatizzazione e l’avvio di procedimenti penali per manager e funzionari responsabili del collasso di tante aziende.
Privatizzazioni disastrose
La storia della Polihem è simile a quella di centinaia di altre aziende in tutto il paese. La Polihem un tempo impiegava circa 1.200 lavoratori, che prima degli anni 1992-95 riuscirono a comprare circa il 49% delle quote aziendali.
Dopo la guerra i tentativi di rilancio dell’azienda sono falliti e la privatizzazione è stata presentata come l’unica possibilità per assicurare la rivitalizzazione dell’azienda e i posti di lavoro.
Nel 2004 nuovo proprietario divenne l’azienda polacca Organic Trade che pagò 5,4 milioni di euro e promise nuovi investimenti del valore di 35,7 milioni, e nuove assunzioni.
Ma invece di ripartire, l’azienda ha iniziato a precipitare in fretta arrivando alla bancarotta in quanto il nuovo proprietario ha usato i beni dell’azienda come garanzia per prestiti bancari che non si sono mai trasformati in investimenti produttivi. Dal momento che quei prestiti non sono mai stati ripagati, le banche per rifarsi hanno iniziato a svendere pezzi delle aziende, terreni ed edifici. E i lavoratori sono stati lasciati a casa con salari, pensioni e contributi non pagati.
Lo stesso è accaduto ad altre aziende a Tuzla, come la fabbrica di detergenti DITA che impiegava circa 700 persone ma che si è trovata presto sull’orlo della bancarotta.
L’ultima speranza sembrava essere una nuova partnership aziendale con un’azienda di Sarajevo, la Lora, che a sua volta aveva promesso nuovi investimenti e la ripresa della produzione.
Anche in questo caso, però, i beni dell’azienda sono stati usati come garanzie per prestiti richiesti alle banche. Stesso copione: la DITA è andata in bancarotta, mentre le sue attività sono finite nella mani delle banche. Gli ultimi 119 lavoratori hanno ricevuto i loro salari per l’ultima volta circa un anno fa, all’inizio del 2013.
Squilibrio tra pubblico e privato
Poiché la situazione è simile in tutta la Bosnia, è facile capire come la scintilla di Tuzla si sia propagata in fretta e sia arrivata in altre città, Sarajevo, Zenica, Bihać, dove lavoratori e disoccupati chiedono in coro l’annullamento delle privatizzazioni.
Anche nel cantone di Zenica-Doboj il numero delle persone senza lavoro (70.252) supera quello degli occupati (68.577). Solo nel cantone di Sarajevo la situazione è leggermente migliore, con 123.324 occupati a fronte di 75.521 disoccupati.
Ma su questi dati si innesta un altro problema. Il “segreto” della migliore condizione di Sarajevo è l’apparato burocratico che, con tre livelli amministrativi (stato, entità e cantone) impiega migliaia di lavoratori pagati dai bilanci pubblici. Il problema è che molta della rabbia dei manifestati è rivolta anche contro il grande squilibrio nel trattamento economico dei lavoratori del pubblico impiego rispetto ai lavoratori del settore privato e ai disoccupati.
Nel cantone di Tuzla, nel novembre 2013, la media dei salari degli operai dell’industria (i fortunati ad avere un lavoro) era di 267 euro al mese, mentre lo stipendio medio nella pubblica amministrazione è il doppio, 554 euro al mese.
La stessa situazione a Zenica, dove la media dei salari dell’industria è di 277 euro, mentre nella pubblica amministrazione si guadagna mediamente 541 euro al mese.
Nel cantone di Sarajevo, sebbene in termini assoluti gli stipendi siano più alti, lo squilibrio tra gli stipendi dei lavoratori dell’industria e quelli del pubblico impiego è lo stesso che nel resto della Bosnia: se in fabbrica si guadagnano 381 euro, nel pubblico la cifra è di 686.
Aprire il vaso di Pandora
Per i partiti politici al governo le richieste di dimissioni dei governi cantonali sono state facili da accogliere. I governi cantonali a Sarajevo, Tuzla, Zenica e Bihać si sono infatti già dimessi ed ora i manifestanti chiedono le dimissioni del governo federale.
Ma dichiarare nulle le privatizzazioni e perseguire penalmente politici e manager (nominati dalla politica) responsabili del collasso delle aziende, è questione ben più complicata.
Sebbene nessuno in Bosnia Erzegovina abbia dati precisi su quanti posti di lavoro siano stati persi a seguito di privatizzazioni fallimentari, il totale dei disoccupati in BiH alla fine del 2013 si aggirava attorno al mezzo milione, raggiungendo la punta di 553.481 (391.942 nella Federazione, 149.284 in Republika Srpska e 12.255 nel distretto di Brčko).
La distruzione delle aziende privatizzate ha pesantemente ridotto le possibilità che l’esercito dei disoccupati, soprattutto giovani, possa sperare di ottenere un lavoro nel prossimo futuro.
Davvero molto difficile che le richieste di annullamento delle privatizzazioni verranno accolte anche perché, in molti casi, è troppo tardi. Da quando le privatizzazioni sono state formalizzate, le quote delle aziende privatizzate sono state vendute e rivendute. Alla fine della catena ci sono spesso le banche, che hanno concesso prestiti che non sono mai stati ripagati.
Il punto è che molte delle aziende precedentemente pubbliche sono state comprate non per il loro potenziale produttivo e il know-how posseduto, ma semplicemente per il loro valore immobiliare. In altre parole i nuovi proprietari erano più interessati ai terreni e agli edifici che alle linee produttive.
Il danno fatto a queste aziende non può essere riparato. L’unica speranza per gli ormai ex-lavoratori è che i responsabili di tale disastro economico non restino impuniti.
E mentre i lavoratori di queste aziende privatizzate e poi fallite sono a casa senza protezioni sociali, molti dei maggiori protagonisti dei torbidi accordi sulle privatizzazioni e i loro protettori politici hanno intascato profitti da capogiro.
Scoperchiare il vaso di Pandora è l’ultima cosa che le élite al potere vogliono. È chiaro che questo non potrà mai accadere senza un sostegno politico forte, a tutti i livelli. Nessuno, tra le persone coinvolte, vuole ritrovarsi, a distanza di tanti anni, di fronte ad una corte per fare i conti con cose che per loro sono morte e sepolte.