Le lingue segrete dei bazar

Era il luogo del plurilinguismo. E qualcosa di più, vi si parlavano alcune vere e proprie lingue segrete: cosa è rimasto nei bazar dei Balcani di questi codici inventati per capirsi e non farsi capire? Un nostro approfondimento

27/05/2011, Marjola Rukaj - Tirana

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Đezve nella čaršija (Marjola Rukaj)

Quando le čaršije* erano il cuore pulsante delle città balcaniche vi si mescolavano e si incrociavano numerose lingue. Lingue simili, appartenenti alla famiglia slava meridionale ma cugine del greco, dell’albanese e del romeno, parte di una confraternita balcanica formata nei secoli dalla mescolanza di popoli e dall’influenza esterna del tedesco, italiano, veneziano e ungherese. Nelle çarshije tutti erano plurilingui, ciascuno poteva parlare al prossimo nella lingua di quest’ultimo.

A fianco delle lingue naturali, sfidando i principi della linguistica storica, per secoli sono sopravvissute e si sono addirittura sviluppate delle lingue inventate. Veri e propri codici che la gente della čaršija utilizzava per comunicare. Delle lingue segrete con regole grammaticali precise e un lessico combinato in modo da far confondere qualunque estraneo volesse intuirne il significato.

Le lingue segrete sono esistite per molti secoli, probabilmente dalla nascita delle çarshije. Non si può datare con precisione l’inizio di tale fenomeno, in molti testi risulta presente sin dal ‘500. Sono sopravvissute alcune parole e modi di dire che fanno ancora oggi parte del gergo urbano in diverse città. Sono pochi ad averle studiate e con lo svuotamento delle čaršije si sono estinte. Nonostante questo, tanti sono gli studiosi rimasti affascinati da tale fenomeno, tra loro diversi nomi illustri di fine ‘800, tra cui Vuk Karadžić, Konstantin Jireček, Johann Georg von Hahn e Milenko Filipović.

Tante lingue segrete

Gli studiosi concordano sul fatto che le lingue segrete siano state create nelle çarshije dalle singole categorie di artigiani. Sono state registrate una lingua utilizzata dai fabbri, una dai sarti e una dai tabaccai. Le lingue si differenziavano poi di città in città.

Secondo la teoria di Milenko Filipović, rafforzata dal kosovaro Kadri Halimi, le lingue segrete rispettavano le regole grammaticali della lingua locale maggioritaria, ad esempio il serbo-croato a Sarajevo, inserendo lessico inventato, anche dal punto di vista morfologico. “Spesso le parole erano delle interpretazioni metaforiche, che assumevano un altro significato” afferma Filipović in un documento del 1930. Ad esempio gledač significava finestra, derivava dal verbo gledati – guardare; pevac – pope, dal verbo pevati – cantare; ušačka – porta, dal verbo ući – entrare.

Un altro sistema era il cosiddetto ters. Consisteva nell’utilizzare la radice della parola al contrario. Simile è il sistema šatrovački, in cui si cambia l’ordine delle sillabe di una parola. Un esempio di quest’ultimo lo troviamo nel modo di dire albanese shatra-patra, che deriva probabilmente dalla parola romanì shatra, che indica le parole rom inserite nelle altre lingue.

Italiano, tedesco… albanese

 Con lo stesso procedimento metaforico venivano formati diversi termini, attingendo al lessico di lingue di minoranza nelle çarshije. La scelta era ampia, dall’italiano al tedesco, dall’ungherese al greco, poi il turco, l’albanese e il valacco.

Nelle čaršije macedoni e in alcune bosniache era frequente il termine pjove, preso dal verbo italiano piovere. Per descrivere una persona che aveva bevuto troppo, si utilizzava il verbo porkati, dal termine porco. Il pane invece si diceva panja. Dal tedesco veniva il termine manuka, che vuol dire donna, derivato dal femminile inventato del sostantivo Mann – uomo. Alla stessa maniera per dire parlare si diceva redati, dal tedesco reden. Dal romeno si erano ottenuti termini come karnja (da carne) e kalac (da kal, cavallo). Numerosi anche i termini provenienti dal turco e dall’ungherese.

Secondo gli studiosi, una buona parte, circa il 30%, del lessico derivato da altre lingue, nelle čaršije serbo-croate e macedoni, proviene dall’albanese e dai suoi dialetti. Molti dei termini derivati sono stati registrati dallo stesso Vuk Karadžić che padroneggiava l’albanese ed era in continuo contatto con varie personalità della cultura albanese dell’epoca. La parola trimka, per dire donna, è il femminile inventato di trim – guerriero; foljati – parlare, dall’albanese fol; djalac – ragazzo, dall’albanese djal; plaka – moglie, che in albanese vuol dire donna anziana, ma anche moglie anziana. Sono numerose le costruzioni metaforiche come bukurija – chiesa, dall’albanese bukurì – bellezza; rusha – vino, dall’albanese rrush – uva; keva – avere, da una voce del verbo irregolare avere – ke, ma che vuol dire anche madre.

Dopo le čaršije/çarshije

Con la trasformazione e la scomparsa delle çarshije, anche le lingue segrete si sono estinte o nella migliore delle ipotesi si sono ridimensionate, assumendo una sfumatura scherzosa o la forma di un codice segreto in caso di pericolo durante i conflitti. Il fenomeno è stato studiato poco ed è spesso stato sottovalutato da parte di etnologi ed antropologi. 

Clamoroso il caso delle çarshije albanesi, dove nonostante vi siano delle tracce tuttora presenti nel gergo urbano, non vi è nulla di strutturato che possa registrarne i particolari. Gli antropologi più anziani dell’istituto etnologico di Tirana ammettono di aver sentito tali lingue segrete durante le loro spedizioni etnografiche nelle ultime çarshije albanesi durante il regime di Enver Hoxha, ma di aver trascurato il fenomeno definendolo “roba da linguisti”. D’altro canto essendo i linguisti in Albania i protettori più accaniti dell’albanesità e della purezza monoetnica “illirico-albanese” della lingua (in quanto unico elemento oggettivo che unifichi la nazione albanese) molto probabilmente non si è avuto interesse a sottolineare l’aspetto multietnico della società albanese prima dell’approdo del Nazionalcomunismo.

Le lingue segrete non le parla più nessuno neanche nelle čaršije meglio conservate dei Balcani. Ma ne rimane il ricordo e spesso sistemi come lo šatrovački vengono utilizzati in maniera scherzosa. Molte parole delle lingue segrete sono ormai parte del gergo urbano, come keva – madre, klopa – cibo, lova – soldi. Nella stessa maniera negli anni ’90 a Belgrado è diventato molto popolare tra i giovani il linguaggio utrovački, (si ottiene sostituendo la prima sillaba della parola con u e aggiungendo un complemento con una preposizione e una parola inventata costituita dalle sillabe restanti e il suffisso – nje, per esempio: duvajuvaj za dunje, oppure uvajdunje). A dimostrare che nonostante la morte o la denaturazione delle čaršije, persino le più giovani generazioni sono ancora influenzate dalla cultura della piazza e da quel tipo di comunicazione non tipico delle città contemporanee, facendo delle çarshije un luogo – “non luogo” di riferimento nella cultura urbana delle città storiche balcaniche.

* Per facilitare la lettura si è scelto di usare il termine in versione ‘bchs’ (čaršija) nei testi riguardanti la Bosnia Erzegovina e la Serbia; in quelli sull’Albania, l’ortografia albanese (çarshija); invece per i bazar in Kosovo e Macedonia vengono usate indifferentemente entrambe le diciture.

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