Le elezioni del 1990, l’anno zero dell’etnocrazia bosniaca
Vi è un caso in cui la cooperazione inter-nazionalista si è manifestata in un processo elettorale: quello della Bosnia Erzegovina del 18 novembre 1990. Le prime elezioni multi-partitiche dopo l’era socialista videro proprio il trionfo dei tre partiti su base etnica
L’emergere di una potenziale “alleanza tra i nazionalismi” su scala europea è un tema costante della scena politica di questi anni. Nonostante il loro mancato boom alle elezioni europee e le difficoltà di fronte alla crisi Covid, la questione resta aperta. È noto cosa unisce i nazionalismi di destra di oggi: una comune visione del mondo fondata sui valori tradizionali e, soprattutto, un nemico comune – il cosiddetto super-stato europeo e l’ideologia che rappresenta. Tuttavia, qualunque riflessione conduce a un interrogativo di fondo: possono movimenti che guardano per definizione solo ai confini della propria comunità di riferimento condividere davvero un orizzonte strategico congiunto? Non sono destinati, inevitabilmente, allo scontro se il nemico comune dovesse davvero cadere o se quei confini, come spesso accade, si sovrappongono con quelli immaginati e rivendicati da altre comunità?
Mutatis mutandis, questa riflessione non può che richiamare diversi confronti, e forse qualche potenziale analogia, con episodi della storia europea contemporanea. Nella lunga fase di dissoluzione della Jugoslavia, le sinergie tra opposti nazionalismi sono state ben più numerose di quanto le narrazioni ufficiali, imbrigliate da millenarismi e manicheismi, possano raccontare. E vi è un caso in cui la cooperazione inter-nazionalista si è manifestata in un processo elettorale: quello della Bosnia Erzegovina del 18 novembre 1990. Le prime elezioni multi-partitiche nella repubblica dopo l’era socialista videro proprio il trionfo dei tre partiti su base etnica: SDA (nazionalisti musulmani), SDS (nazionalisti serbi) e HDZ (nazionalisti croati). Rispetto ai “carichi di memoria” che abbondano nel paese, quell’evento è poco ricordato nella pubblicistica e nel sentire collettivo.
Come si arrivò a quelle elezioni? Il percorso non fu rapido come avvenne in Slovenia e Croazia, dove si votò già nella primavera 1990, né lineare come nelle altre repubbliche, dove le elezioni si tennero in autunno con una sequenza di passaggi simile a quella dei paesi post-socialisti europei. La Lega dei comunisti bosniaca (SKBiH) inizialmente cercò di gestire la transizione in modo diverso, più graduale: fu vietata per legge la costituzione dei cosiddetti “partiti su base nazionale” anche se questi già esistevano nelle altre repubbliche e, in via informale, andavano costituendosi anche in territorio bosniaco-erzegovese.
Provenienti da una tradizione di dogmatismo, in cui si erano storicamente distinti anche rispetto agli omologhi delle altre repubbliche jugoslave, i vertici della SKBiH erano sinceramente convinti che l’unico modo di tutelare la multi-culturalità fosse normativo. Ma calcolarono male la legittimità e il potere reale di cui disponeva il partito, sezione della Lega dei comunisti jugoslava (SKJ) che ormai di fatto non esisteva più dopo il disastro del 14° Congresso . Inoltre la SKBiH era profondamente indebolita dalla crisi economica generale e dai tanti scandali di corruzione e malversazione che imperversarono nella Bosnia Erzegovina di fine anni Ottanta – altro argomento su cui, con eccezioni come l’accurato Bosnia-Herzegovina, the end of a Legacy di Neven Anđelić, si è scritto meno di quel che sarebbe opportuno, e su cui restano elementi da chiarire.
Prima ancora dei partiti nazionalisti, che avrebbero avuto buon gioco a presentarsi come vittime della repressione, furono gli ambienti progressisti e liberali di Sarajevo a protestare pubblicamente contro le restrizioni imposte dalla SKBiH. Tra questi vi erano le organizzazioni giovanili, i giornali Valter e Dani, gli intellettuali anti-nazionalisti dell’UJDI, diversi personaggi pubblici che coerentemente con la loro posizione anti-autoritaria radicale invocavano un pluralismo senza limiti. Presero posizione i già allora noti Goran Bregović e Miljenko Jergović, che con sprezzo equipararono i comunisti bosniaci a quelli nord-coreani. Vista la crescente indecisione nella Lega, la palla passò alla Corte costituzionale bosniaca. Il 12 giugno 1990, in una controversa decisione, la Corte sancì l’incostituzionalità di quella norma, permettendo quindi la formazione dei partiti etno-nazionalisti.
È possibile che, se anche il divieto fosse rimasto in vigore, sarebbe stato aggirato o semplicemente superato dai fatti compiuti. Ma negli anni a venire, in molti hanno continuato a guardare a quella decisione come un evento cruciale della dissoluzione jugoslava, un what-if moment su cui proiettare ipotesi scientifiche e, probabilmente, qualche rimpianto umano. Il politologo Nenad Stojanović ha suggerito che un referendum popolare sulla questione – ipotesi che alcuni esponenti comunisti avevano davvero contemplato all’epoca – avrebbe potuto essere una “soluzione elegante e democratica per evitare questo dilemma hobbesiano”. In un sondaggio realizzato nell’aprile 1990 a Mostar, Sarajevo e Banja Luka, circa il 70% degli intervistati si era detto favorevole a mantenere il divieto. Nel novembre successivo, una percentuale molto simile di elettori votò per i partiti nazionalisti. Il tempo trascorse molto veloce in quel 1990.
“Vi stavamo aspettando”
Poté quindi cominciare la campagna dei tre partiti nazionalisti, che con un’accortezza quasi scientifica combinarono radicalità e moderazione. Amplificarono narrazioni di pericolo che diventavano veri e propri atti performativi – dalla presunta repressione contro le differenze culturali alle sospette discriminazioni etniche sui luoghi di lavoro, dalla percezione di insicurezza ai conflitti di memorie riguardanti la Seconda guerra mondiale – per poi mostrarsi come le uniche forze in grado tanto di esprimere quanto di controllare la paura, mettendosi d’accordo con i propri omologhi e, dunque, legittimandosi a vicenda.
“Vi stavamo aspettando, questa Bosnia Erzegovina ha bisogno di voi. La gente ha smesso di credere alle parole altisonanti [dei comunisti], ma non smetterà mai di credere all’amore, al buon vicinato e alla comunità”, furono le parole che il leader dell’SDA Alija Izetbegović pronunciò il 12 luglio 1990 nell’assemblea fondativa dell’SDS. Aveva davanti a sé quello stesso Radovan Karadžić che, un anno e tre mesi più tardi, nel famoso discorso all’emiciclo del parlamento, gli avrebbe preannunciato l’inizio della guerra e l’annientamento dei musulmani bosniaci. Gesti e parole di buona volontà furono ricambiati da esponenti di tutti e tre i partiti, che arrivarono anche a svolgere eventi congiunti e a mostrare uniti i rispettivi simboli religiosi e bandiere nazionali, in attesa di spartirsi il potere.
Va detto che i tre partiti nazionalisti evitarono con prudenza machiavellica il termine di “alleanza”, impiegando sempre quello di “collaborazione”. Divenne infatti presto chiaro che gli obiettivi strategici erano chiaramente inconciliabili, tra un SDS che già nella campagna annunciava la creazione di istituzioni parallele su base etnica (un altro atto performativo, poi materializzatosi un anno dopo), un HDZ che preconizzava una Bosnia cantonizzata “modello Svizzera”, e un SDA che invocava una repubblica unitaria. Il fine tattico di tutti era, in fin dei conti, solo uno, che in un’intervista il leader dell’HDZ Stjepan Kljujić ammise seccamente: “Prima di tutto, dobbiamo liberarci dal comunismo”.
Ma i comunisti – nel frattempo “post”, avendo aggiunto l’etichetta di socialdemocratici come succedeva dappertutto -, con lo slogan di “Vivremo insieme” che riecheggiava la fratellanza e unità titoista, erano ancora il partito favorito secondo tutti i sondaggi. Tanti ancora si chiedono il perché di quegli errori così macroscopici. Oltre alla possibile inesperienza e metodologia errata degli operatori, diversi ritengono che ci fu un vero effetto sile nt voter : molte persone non avrebbero rivelato la loro reale preferenza per i partiti etnonazionalisti, o perché temevano ancora ripercussioni dalle autorità, o perché non osavano ammettere di sostenere ciò che sembrava socialmente non accettato, ma rispondeva al proprio desiderio di cambiamento a qualunque costo.
Subito dietro nei sondaggi c’era un altro partito non-nazionalista, che attirò molte aspettative in Bosnia Erzegovina: l’Alleanza dei Riformisti (SRSJ). Il movimento fondato dal premier federale Ante Markovic aveva l’ambizioso piano di transizione economica e di una Terza Jugoslavia democratica e plurale , pronta ad avvicinarsi alla Comunità Europea senza rinnegare del tutto le proprie origini.
“Qualcuno parla di coesistenza, ma noi non vogliamo vivere in coesistenza. Non vogliamo convivere. Vogliamo vivere!“ disse in un comizio lo scrittore Abdulah Sidran, candidato per i riformisti, per rivendicare ciò che allora era la normalità di una cittadinanza e di una quotidianità comune. Qualcuno disse che i riformisti erano come un dream team, avendo riunito nomi di prestigio tra intellettuali, artisti, attivisti, imprenditori. Ma diversi fattori portarono alla loro sconfitta: il rapporto ambiguo verso i post-comunisti – con cui si danneggiarono a vicenda, correndo più da avversari che da alleati nonostante i programmi simili – e l’incepparsi su scala federale del progetto di Marković, impallinato dal fuoco incrociato delle leadership slovena e serba: un’altra delle tante sinergie tra nazionalismi della dissoluzione jugoslava. Alcuni tra i riformisti, accortisi di avere sbagliato carro, avrebbero presto cavalcato lo zeitgeist nazionalista. Uno di loro fu Emir Kusturica.
Dilemma del prigioniero
Nel complesso, l’impressione è che la campagna elettorale del 1990 avvenne in un clima più ordinario e pacato di quello che si potrebbe immaginare col senno di poi. “Ci aspettavamo più problemi di quelli che ci sono stati”, disse due giorni prima del voto lo stesso Alija Izetbegović. Ma ci furono alcuni episodi di tensione in alcune aree, principalmente in Bosnia orientale e in Erzegovina. A Foča, i disordini nati dal conflitto tra i dipendenti della ditta di autobus locale durarono per mesi e si fecero violenti, portando anche allo stato di emergenza e a una frattura tra le locali comunità serba e musulmana.
Si trattava di uno dei centinaia di casi di proteste legate a attività produttive, a conflitti tra lavoratori, dirigenti d’impresa e amministratori locali nel contesto di estrema incertezza della transizione economica. In pochi e circoscritti casi, come quello di Foča, sfociarono in tensioni identitarie. Non risultano casi in cui avvenne il contrario, almeno prima delle elezioni. Va comunque detto che, anche con la distanza temporale e le fonti oggi disponibili, non è semplice cogliere a pieno la reale portata di quegli eventi. I giornali dell’epoca potevano minimizzare o amplificare i resoconti dal terreno a seconda degli interessi editoriali. Né è semplice districarsi tra le testimonianze, che a volte tendono – come è inevitabile nelle memorie soggettive – a mescolare o collegare deterministicamente quel periodo con la discesa verso la guerra e le terribili sofferenze che ne seguirono; o ancora idealizzano, oppure rimuovono, quella strana finestra temporale su cui resta molto da ascoltare e capire.
L’esito di quelle elezioni viene talvolta equiparato a quello di un censimento, più che a una tornata elettorale. I tre partiti nazionalisti ottennero oltre il 70% dei voti per il parlamento bosniaco, che fruttarono l’83% dei seggi, garantendo loro una comoda spartizione del potere, relegando i riformisti all’irrilevanza e la Lega dei comunisti al risultato più basso di un partito post-comunista di tutta la Jugoslavia (e tra i peggiori dell’intera Europa centrale-orientale). Diversi autori, come Nenad Stojanović e Asim Mujkić , hanno però sostenuto con che quelle elezioni – e tutte quelle successive – non furono più di tanto l’espressione di un diffuso e cosciente sentimento nazionalista. Fu piuttosto una dinamica negativa di “dilemma del prigioniero” che motivò tanti elettori: nell’aspettativa che i membri degli “altri” avrebbero votato per il “proprio” partito nazionalista, fecero così a loro volta, temendo che i propri interessi – e, più avanti, la propria sicurezza biologica – sarebbero stati minacciati in caso di un esito diseguale tra i gruppi. La sinergia tra i nazionalisti si abbozzò dall’alto di riunioni e comizi, ma si cucì nell’intima solitudine dell’urna, attraverso un’attenta sequenza di calcoli e paure. Dopo trent’anni questo dilemma non è stato ancora risolto, lasciando danni incalcolabili dietro di sé.
Dossier
Nel novembre 1995, con l’Accordo di Dayton, veniva posto fine alla guerra in Bosnia Erzegovina. La soluzione adottata – con le sue contraddizioni tra cui il riconoscimento de facto della pulizia etnica – nasceva come frutto del compromesso per ottenere la pace. Ora, in un paese vittima di una continua emorragia di giovani che emigrano in cerca di futuro, appare evidente che senza una sua riforma la Bosnia Erzegovina rischia di restare uno stato disfunzionale che non riuscirà a procedere verso l’integrazione europea. Un nostro dossier