Le duplici rovine di Gaziantep
Il ricordo di un viaggio di alcuni anni fa tra Turchia e Siria, nella regione ora colpita dal terribile terremoto. "Le persone conosciute nei luoghi in cui viaggiamo sono inestricabilmente legate ad essi: così che le rovine di quelle splendide città sono anche, sempre, le rovine del nostro animo"
Due paia di pupille scure mi guardano: le individuo solo perché circondate dal bianco nei quattro occhi spalancati e curiosi. Mi fissano mentre cammino e volgo distratto lo sguardo all’interno di un locale che percepisco come tutto nero: il marciapiede è immerso in uno sfolgorante sole primaverile, l’aria intorno è insolitamente pura per una città di circa due milioni di abitanti, trafficata e industriosa, e la luce diurna mi impedisce di mettere subito a fuoco quel che vedo. Incuriosito anch’io, rallento un poco il passo, e quelle paia d’occhi si stringono in un sorriso, si fanno avanti verso l’uscio: da quel che mi sembra un piccolo antro emergono gradualmente le facce e le tute da lavoro di due giovani, tutte sporche di nero. ‘Merhaba!’ – ‘Merhaba!’. Il ricambio del saluto nella loro lingua li incoraggia, e così, un po’ per la curiosità reciproca, un po’ per la tradizionale misafirperverlik (ospitalità) dei turchi, particolarmente calorosa in questa regione sudorientale del paese, dopo pochi minuti vengo invitato ad entrare.
Man mano che i miei occhi si abituano, osservo qual è il loro lavoro. Sono carbonai. A terra piccole montagne d’antracite aspettano d’essere vagliate, riversate e racchiuse in sacchi pronti alla vendita. I due sono lì da mattina a sera, vi bevono nelle pause il loro tè, che immancabilmente mi porgono: assieme a tante domande su chi sono, di dove sono, che cosa faccio in quel quartiere di piccole officine o botteghe. Vado a visitare il kale, dico. Mi riferisco, ovviamente, al castello, il più celebre monumento di Gazi Antep. L’ingresso è proprio qui vicino – rispondono – se svolti in fondo alla strada e prosegui diritto lo vedrai.
Confesso che all’alba di lunedì sei febbraio, ancor prima che fossero chiare le proporzioni del sisma verificatosi in questa zona della Turchia, quando ho sentito che era crollato il kale di Gazi Antep – che io amo chiamare familiarmente Antep, il suo antichissimo nome, onorato poi per motivi patriottici dell’epiteto di gazi (eroica, gloriosa) – mi sono reso subito conto che si trattava di un’immane catastrofe. Quella possente fortezza, sorta su un colle già frequentato dagli uomini del Neolitico e in seguito dai bellicosi Hittiti, ma eretta dai Romani, rafforzata dall’imperatore bizantino Giustiniano, infine restaurata e resa ancor più possente da Solimano il Magnifico nel 1558 a.C., insomma, un bastione cui avevano posto mano nei secoli le massime potenze imperiali dell’Anatolia; quella fortezza, dalle 12 torri e dal perimetro di oltre un chilometro, usata fino all’assedio degli invasori francesi nel 1920-21 lungo ben 10 mesi, e che valse alla città l’illustre epiteto assegnatole poi dalla nuova Repubblica di Atatürk; insomma, se quella fortezza era crollata, pensavo, allora che cosa ne era delle povere case, dei grandi condomini e dei loro sventurati abitanti?
Così è riemerso dalle profondità della memoria l’incontro casuale avvenuto ai piedi del kale, accompagnato da ciò che più mi colpì di quella fugace amicizia: la benevola gentilezza degli sguardi e delle parole; la brillantezza dei loro occhi nel buio, che esprimevano solo letizia nel salutare uno sconosciuto che forse mai più avrebbero rivisto; una semplice, serena gioia di vivere che traspariva inequivocabile dalle loro movenze, pur immersi com’erano in quell’umile, oscuro lavoro.
Non ricordo neppure più come si chiamassero, i due carbonai: e però, man mano che le notizie di atroci devastazioni sono giunte dai numerosi centri colpiti dal sisma, ecco che mi sono trovato a chiedermi che fine abbiano fatto non solo loro, ma tutti gli altri compagni – di un’ora, di un giorno, di una settimana – in quel mio vagare ormai lontano per le provincie turche ai confini con la Siria.
Dove sarà Osman, il giovane curdo che mi aveva guidato, premuroso, nei dedali del coloratissimo bazar di Urfa e poi tra i desertici monumenti di Harran (dove ripenso con una stretta al cuore alla Porta chiamata d’Aleppo, in quanto conduceva alla vicina città siriana devastata ora dal sisma, dopo anni di guerra): mi chiedo se sia stato travolto tra le rovine di Urfa o se magari si è salvato andando a studiare, come diceva e sperava, nella lontana Izmir. E chissà che ne è stato dell’antiocheno Sinan, conosciuto per caso con altre due ragazze – noi, unici visitatori – su al monastero vertiginoso di San Simeone Stilita: mentre in basso, lontana sul Mediterraneo, mi indicava sorpreso protendersi in alto come un sogno una sinuosa ed inquietante tromba marina; sempre con lui, giorni dopo, abbiamo percorso assieme la piana della celebre battaglia di Alessandro ad Isso, nella stessa regione dell’Hatay. E sempre mi interrogo su dove siano ora Hakan ed Emrah, due giovani molto amici fra loro benché di aspetto fisico e di caratteri diversissimi, con cui abbiamo esplorato per ore i grandiosi resti delle mura ardite e scoscese di Antakia, la vecchia Antiochia capitale della Siria romana. Ammiravamo estendersi, bellissima ai nostri piedi, la città attraversata dall’Oronte, anch’essa ormai piegata dal sisma. E che dire infine di Serhat, il più giovane di tutti, che dormiva a quel tempo come custode sotto i cieli limpidi di stelle dell’alta Mesopotamia, tra i possenti resti megalitici di Göbekli Tepe, il più antico santuario dell’umanità precedente di seimila anni le piramidi egizie?
Pur avendo da tempo perso i contatti con ciascuno di loro, non cesso di interrogarmi con angoscia sul loro destino. Perché le persone conosciute nei luoghi in cui viaggiamo sono inestricabilmente legate ad essi: così che le rovine di quelle splendide città sono anche, sempre, le rovine del nostro animo.
Doni di Viaggio è il blog personale di Fabrizio Polacco