Le bombe della Turchia
Escalation di violenze in Anatolia orientale negli scontri tra Pkk e esercito turco, mentre è ancora incerta la matrice dell’attentato t[]istico nella località turistica di Kusadasi. Civili e attivisti curdi dissidenti nel mirino. Voci e smentite su di un possibile intervento turco nel nord Iraq
A dieci giorni dall’esplosione che ha dilaniato un minibus a Kusadasi, uccidendo cinque persone e ferendone una ventina, continuano le indagini per identificare i responsabili dell’attentato. La pista della kamikaze solitaria – il prefetto di Adyn aveva inizialmente parlato di una ragazza di 16-17 anni – è stata presto abbandonata. L’ipotesi ora è quella di un ordigno abbandonato sotto un sedile e fatto esplodere con un congegno ad orologeria oppure un comando a distanza. Per quanto riguarda gli autori, l’unica rivendicazione arrivata è quella dei Falchi per la Libertà del Kurdistan (TAK), una sigla misteriosa, della quale non si conosce praticamente nulla. Comparsa per la prima volta nel giugno scorso sulle pagine di un sito internet, minacciando "attentati nelle città turche senza distinzione tra obbiettivi civili e militari", aveva poi rivendicato nelle scorse settimane la bomba esplosa a Cesme, un’altra località della costa egea.
Sebbene le autorità abbiano fatto sapere di non escludere alcuna pista, in cima alla lista degli indiziati c’è ancora il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), che secondo il portavoce della polizia "non avrebbe rivendicato l’impresa solamente per evitare reazioni a livello internazionale". Il PKK dal canto suo, attraverso uno dei suoi dirigenti, Murat Karayilan, ha però condannato l’azione come "atto t[]istico".
Resta il fatto che, dopo la rottura del cessate il fuoco del giugno 2004, la ripresa delle azioni armate ha conosciuto negli ultimi tempi una brusca impennata, assumendo i tratti di uno stillicidio quasi quotidiano di vittime e feriti. L’ultimo grave episodio di cui si ha avuto notizia è quello dell’ennesima esplosione di una mina al passaggio di un convoglio militare ad Hakkari, al confine con l’Iraq. Bilancio: quattro militari morti e numerosi feriti.
Le mine telecomandate non mietono vittime solo tra i militari: in precedenza un’esplosione al passaggio di un treno passeggeri, nell’Anatolia Centro-Orientale, aveva ucciso sei dipendenti delle ferrovie. Infine, il rapimento di un gendarme in borghese – sempre nell’Anatolia centro-orientale. Questo episodio ha spinto un gruppo di intellettuali, che già il 15 giugno scorso aveva lanciato un appello per la cessazione della violenza, a riprendere la parola per chiedere al PKK il rilascio senza condizioni dell’ostaggio. Un invito ripreso anche in un comunicato del partito DEHAP (Partito Democratico del Popolo).
La violenza non ha però risparmiato lo stesso fronte curdo.
Nei giorni scorsi è stato ritrovato a Diyarbakir il cadavere di Hikmet Fidan, ex vice-presidente del partito HADEP (Partito Popolare Democratico, una delle precedenti denominazioni di DEHAP), giustiziato con un colpo alla testa. Fidan era noto per la sua opposizione alla politica delle armi. In un’intervista al quotidiano Milliyet, la vedova ha rivelato come da tempo il marito avesse posizioni molto critiche verso la ripresa delle azioni armate e la politica dell’"uomo di Imrali" – Abdullah Ocalan – ed era per questo da mesi oggetto di pesanti minacce. I familiari di Fidan hanno poi denunciato la latitanza degli ex compagni di partito e del mondo politico curdo nel giorno del funerale.
Nei giorni successivi, in un appello firmato da 271 persone, per lo più ex esponenti del mondo politico curdo, si è condannato l’omicidio "come un attacco alla concezione pluralista e democratica" e si è chiesto "il massimo impegno dello Stato perchè si faccia luce al più presto sull’episodio".
Il secondo episodio, avvenuto a qualche migliaio di chilometri di distanza, ha riguardato l’uccisione, nei boschi vicino a Vienna, del rappresentante del PKK in Austria.
Dietro a questo riaccendersi della violenza sembra intravedersi la decisione dell’organizzazione PKK di riaffermare il proprio monopolio sul mondo politico curdo, e la volontà di accreditarsi come unico interlocutore di fronte allo Stato.
Questa scelta, insieme con la inevitabile ripresa delle operazioni militari condotte dalle forze di sicurezza, produce inevitabilmente l’avvelenamento del processo democratico che si sta consolidando nel paese e porta con sè il rischio concreto di aprire la strada ad una (ri)militarizzazione della società e della politica turca.
La radicalizzazione del discorso nazionalista curdo, e del suo inevitabile contraltare turco, sta spingendo poi la società verso una polarizzazione lungo linee etniche, eventualità nefasta, della quale non mancano prove concrete, che non si era verificata nemmeno negli anni più bui della storia recente.
Per quanto riguarda le reazioni ufficiali, si sono concentrate soprattutto sulle denuncia della libertà della quale godrebbe il PKK nel Nord Irak, dal quale filtrano in Turchia uomini ed armi. Esponenti del governo hanno fatto intravedere la possibilità di un’azione militare di Ankara in territorio iracheno. Il vice capo di Stato Maggiore Basbug, in un incontro con i giornalisti, ha confermato che Ankara non esclude questa carta, seppure come extrema ratio. L’accenno ad un intervento militare oltre confine non solo ha suscitato molte critiche e perplessità nel paese, ma anche la decisa opposizione degli ambienti militari e politici americani. Nella stessa occasione, il generale Basbug aveva rivelato che gli Stati Uniti avrebbero deciso di dare il via ad operazioni mirate alla cattura dei leader rifugiati nel Nord Irak. Una notizia che però è stata quasi immediatamente smentita da Washington.
La questione delle attività del PKK nel Nord Irak è stata poi sollevata dal governo turco anche nel vertice che, nei giorni scorsi ad Istanbul, ha riunito i ministri degli Interni dei paesi confinanti con l’Irak. Nell’occasione, il Ministro degli Esteri iracheno Sulag ha fatto sapere che nei prossimi giorni ci sarà un incontro a Washington tra rappresentanti americani, turchi ed iracheni, nel quale si affronterà anche il dossier PKK.
Infine, nei giorni scorsi, il Primo Ministro Erdogan ha a sorpresa denunciato gli aiuti finanziari che arriverebbero al PKK da un paese scandinavo, che molti hanno identificato nella Norvegia.
I recenti sviluppi politico-militari nella regione, l’occupazione dell’Irak, la presenza degli Stati Uniti ma anche la recentissima notizia di scontri tra le truppe di Teheran e guerriglieri curdi, sono indubbiamente elementi che non si possono trascurare quando si cerca di comprendere quando accade in Turchia. Resta però il fatto che insistere nel cercare altrove, al di là dei confini nazionali, l’origine delle tensioni che si sono riattivate nel paese impedisce di vedere come la questione curda, con la sua complessità politica, sociale ed economica -che non si può ridurre ad un problema di ordine pubblico o militare – sia un prodotto della società e della politica turca. La soluzione passa necessariamente per la Turchia. Gli appelli che da più parti si stanno moltiplicando nel paese chiedono che sia la politica a riprendere la parola, deve essere il discorso politico ad impegnarsi "nel produrre soluzioni concrete e durature" per la questione curda. Per farlo, come ha ricordato in un dibattito televisivo anche un autorevole giornalista dell’area conservatrice come Fehmi Koru, "sarà necessario il coraggio di orizzonti più ampi in grado di prendere in considerazione percorsi e soluzioni in passato strenuamente negati".
Preso atto di questa urgente necessità rimane però la domanda cruciale su chi sia in possesso di questo coraggio, su quale attore politico abbia la forza per assumersi questo compito. Uno sguardo ai tre principali candidati a questo ruolo permette di cogliere alcune debolezze di fondo.
Il primo indiziato è indubbiamente il partito al governo, AKP. Gode di una forte maggioranza parlamentare. Inoltre, nelle ultime elezioni amministrative, ha consolidato il suo potere a livello locale anche nelle regioni sud-orientali dove in molte realtà ha attirato anche personale politico vicino a DEHAP. Sono molti poi, a cominciare dal ministro degli Interni Aksu, gli esponenti di spicco di origine curda. Nonostante questi elementi, però, il partito vive paradossalmente una situazione di continua precarietà: la sua matrice "islamica" infatti lo mantiene costantemente nella posizione di sorvegliato speciale da parte degli apparati statali e delle élites "laico-repubblicane". Impegnato a difendersi dall’accusa di voler indebolire la laicità dello stato, accuse che non sempre appaiono infondate, sembra non voler correre il rischio di aprire un secondo fronte.
Il secondo indiziato è il partito di opposizione CHP. Il carattere social-democratico che lo ha caratterizzato nei decenni scorsi è decisamente appannato. Attualmente oltre a continuare a rappresentarsi, nel solco della tradizione, come il baluardo della laicità di fronte al pericolo islamico, l’attuale dirigenza sembra aver imboccato la strada del nazional-sciovinismo, in vista di elezioni anticipate che da tempo reclama.
Infine il partito DEHAP. Passato attraverso numerose traversie, chiuso e riaperto più volte con un nome diverso, emarginato dalla vita parlamentare in virtù dello sbarramento del 10%, nonostante la sostanziale sconfitta nelle elezioni amministrative del 2004, continua ad essere una forza che può contare su di un discreto pacchetto di voti.
Esso però ha un grave deficit di legittimità ed è oggetto di una profonda diffidenza perchè percepito nella gran parte della società turca come organicamente legato al PKK. Nei giorni scorsi anche l’Unione Europea, che si può considerare a pieno titolo un altro attore della scena politica turca, per bocca di Hans Georg Kretschmer, aveva chiesto agli esponenti politici curdi di "prendere le distanze da Ocalan"
La definitiva normalizzazione del paese sembra legata anche alle capacità di trasformazione che questi attori sapranno o meno dimostrare. Senza escludere la possibilità che ne compaiono di nuovi.