Lavoratori albanesi in Italia, quale previdenza?

Tra Italia e Albania non vi è alcuna convenzione bilaterale in materia di previdenza. Eppure la comunità albanese in Italia è sempre più radicata e contribuisce notevolmente al sistema-paese. Un’analisi

20/10/2014, Shqiponja Dosti -

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Lavoratori (flickr/astrid westvang)

(Di previdenza dei lavoratori albanesi in Italia si è discusso a Roma l’8 ottobre scorso, in un incontro promosso dall’associazione “Besa”. Albania News ha pubblicato la relazione di Shqiponja Dosti, economista, esperta in migrazione e sviluppo. Ne presentiamo qui una sintesi)

La migrazione albanese in Italia ha dimensioni significative: nel 1980 gli albanesi residenti nel nostro paese erano 514, alla fine del 2013 502.546: la seconda tra le comunità proveniente da paesi non comunitari.

Una presenza che si sta strutturando sempre più e lo si deduce dall’aumento significativo della quota di lungo-soggiornanti; dai ricongiungimenti familiari; dall’incidenza delle seconde generazioni; dal crescente numero di acquisizioni della cittadinanza italiana.

In questa sede vogliamo discutere il nesso tra lavoratori albanesi e le Convenzioni internazionali in materia di sicurezza sociale. Queste ultime sono una forma di tutela del cittadino emigrato, volte ad assicurare ai lavoratori emigrati gli stessi benefici di sicurezza sociale previsti dalla legislazione del paese estero per i propri cittadini.

Attualmente i paesi con cui l’Italia ha convenzioni bilaterali di sicurezza sociale sono una ventina, tra cui ad esempio Argentina, Australia, gli stati nati dal dissolvimento della ex-Jugoslavia. Questi accordi prevedono: la parità di trattamento tra lavoratore straniero e locale, l’unicità della legislazione applicabile, la totalizzazione dei periodi assicurativi al fine del raggiungimento dei requisiti richiesti per il diritto a prestazione, l’esportabilità delle prestazioni.

Tra Italia e Albania non vi è ancora la firma di nessuna convenzione bilaterale.

Alla base della stipula delle convenzioni vi deve essere la consapevolezza che stiamo parlando di persone, di diritti, di dignità, di modelli di società ma – visto che i governi spesso ragionano in termini prettamente economicistici – utile anche avere a disposizione qualche elemento in più.

I contributi dell’immigrazione

Nel dibattito pubblico italiano vengono spesso evocati i “costi dell’immigrazione” soprattutto in termini di accesso ai servizi scolastici ed abitativi, ma del contributo degli immigrati alle finanze pubbliche, sia sul versante previdenziale che su quello delle imposte dirette ed indirette, esiste ancora scarsa consapevolezza.

Come risulta da dati Inps , come avviene anche negli altri paesi dell’Europa mediterranea, anche in Italia il tasso di attività degli stranieri risulta elevato: pari al 72,7% nel 2009, 11 punti percentuali in più rispetto a quello riferito alla popolazione italiana. Lo scarto è però minore per il tasso di attività femminile.

Una stima da cui partire è proprio quella del numero dei lavoratori stranieri occupati, che si può considerare attorno ai due milioni nel 2008, un dato intermedio tra quello rilevato tramite l’indagine campionaria dell’Istat (che probabilmente è sottostimato, perché considera solo gli stranieri residenti, mentre si può lavorare anche con il solo permesso di soggiorno e non tiene conto dei lavoratori stagionali), e i dati d’archivio di fonte Inps e Inail che comprendono tutti i nati all’estero per i quali risulta almeno un rapporto di lavoro, ma non necessariamente per cinquantadue settimane, cioè per l’intero arco dell’anno.

Considerando una distribuzione di questi lavoratori nelle principali categorie contributive di riferimento (autonomi, dipendenti, parasubordinati) analoga a quella espressa dalle risultanze degli archivi Inps e prendendo in considerazione i contributi versati a carico del lavoratore e quelli a carico dell’impresa e le tre diverse aliquote contributive, l’ammontare economico generato dagli immigrati risulta: di 6,5 miliardi di euro tra i lavoratori dipendenti (aliquota contributiva del 33% suddivisa tra il 9,19% a carico del lavoratore, pari a quasi 2 miliardi di euro e il resto a carico dei datori di lavoro, pari a 4,5 miliardi), circa 744 milioni di euro per gli autonomi (aliquota contributiva del 20%) e 201 milioni per i parasubordinati (nel 2008 l’aliquota contributiva era del 24,7% di cui un terzo a carico del lavoratore).

Il totale dei contributi dei lavoratori stranieri in Italia è quindi di circa 7,5 miliardi di euro, dei quali oltre 2,8 miliardi provenienti direttamente dai lavoratori. Questa cifra rappresenta quasi il 4% di tutti i contributi previdenziali versati in Italia nel 2008, ma nelle regioni settentrionali siamo attorno al 5%.

I redditi

Anche sui dati dei redditi si possono effettuare stime che ridimensionano leggermente i valori espressi dall’Inps e dall’Agenzia delle entrate, influenzati dalla componente dei nati all’estero. Appare realistico considerare un reddito annuo medio di circa 12.000 euro lordi per i lavoratori dipendenti stranieri, di circa 15.000 euro per i lavoratori autonomi e di circa 10.000 euro per i lavoratori parasubordinati. Sono redditi inferiori di oltre un terzo al reddito medio dei lavoratori italiani, soprattutto a causa della numerosità dei contratti temporanei e a tempo parziale in settori come quello agricolo e del lavoro di cura.

A livello nazionale si può stimare una aliquota media del 10% (ovviamente più alta nelle regioni del nord) con un gettito Irpef di circa 1 miliardo e 795 milioni di euro per i dipendenti, 327 milioni per gli autonomi e 201 per i parasubordinati, per un totale di 2 miliardi 323 milioni di euro.

A circa 100 milioni di euro ammontano invece le spese annuali per i rinnovi dei permessi di soggiorno e le domande di cittadinanza italiana.

I consumi

Per quanto riguarda i consumi si può individuare un’aliquota media del 6,15% relativa al decile più basso di reddito (pari all’82% dell’aliquota media del 7,5%) e si stima che il reddito guadagnato sia quasi per intero consumato, tranne che per il 10%, a favore di rimesse verso i paesi di origine; si ottiene così un valore di 1 miliardo di euro di Iva come imposte sui consumi (salvo la quota impegnata nei mutui), portando così il totale del gettito complessivo a quasi 3,5 miliardi di euro, che risulta tuttavia parziale in quanto non tiene conto di altre imposte come olii minerali e lotterie, per le quali mancano dati attendibili.

L’apporto contributivo e fiscale dei lavoratori immigrati comincia quindi ad assumere dimensioni rilevanti, proprio in ragione della loro presenza crescente tra gli occupati nel mercato del lavoro nazionale.

Il dato complessivo del gettito contributivo e fiscale degli immigrati nel 2008 si avvicina agli 11 miliardi di euro, dei quali oltre 6 miliardi di euro provenienti direttamente dalle buste paghe dei lavoratori (escludendo i contributi versati dalle imprese nelle quali sono occupati).

Per quanto si tratti di dati di stima, utili a valutare l’impatto di massima dei migranti sul piano contributivo e fiscale più che il dettaglio specifico di tale contributo, si tratta di valori di assoluto rilievo.

Entrate/uscite

In numerosi paesi europei, in particolare in quelli di cultura anglosassone, esistono stime ed analisi dei costi e dei benefici legati alla presenza immigrata dal punto di vista finanziario: quanto pagano questi lavoratori in termini di tasse e contributi e quanto ricevono in servizi.

Per la verità sono calcoli piuttosto complessi e condotti con metodologie diverse che raramente hanno portato a risultati convergenti. Mediamente, si può dire che la maggioranza delle analisi sembra testimoniare un apporto positivo dei migranti alla fiscalità generale o comunque un “effetto fiscale zero”

Si possono prendere in considerazione sei settori principali di spesa di welfare e di sicurezza che assorbono pressoché l’intero ammontare della spesa sostenuta per utenti stranieri. Il settore di gran lunga più importante del welfare italiano è quello della sanità che influisce con una percentuale assai modesta, circa il 2,2% del totale (cui si può aggiungere uno 0,3% per irregolari titolari di tesserino STP “stranieri temporaneamente presenti”), soprattutto a causa della giovane età degli stranieri presenti nel nostro paese. Tradotte in euro queste percentuali significherebbero 2,4 e 0,4 miliardi di euro.

Il secondo settore per importanza è quello della scuola che costa (2008) 44 miliardi di euro; disponiamo del dato degli studenti stranieri (6,5% del totale) e quindi otteniamo un valore di 2,8 miliardi di euro.

Per quanto riguarda i servizi sociali comunali, i dati di alcuni comuni settentrionali sembrano attestare una percentuale di utenti stranieri simile a quella degli stranieri residenti: sui 6,5 miliardi di spesa sociale dei comuni, si possono addebitare agli utenti stranieri (essenzialmente minori e adulti) circa 450 milioni di euro.

Il quarto settore è quello della casa, relativo alla presenza negli alloggi di edilizia residenziale pubblica e ai contributi del fondo sociale per l’affitto; considerando una presenza straniera leggermente superiore al dato dei residenti nei circa 630.000 alloggi di edilizia residenziale pubblica (e calcolando la differenza con i prezzi degli affitti di mercato) ed una quota più consistente del fondo sociale per l’affitto, si ottiene un valore di circa 200 milioni per entrambi, per un totale di 400 milioni di euro.

Il quinto settore è quello della giustizia (tribunali e carceri) che nel 2008 è costato allo Stato circa 7,5 miliardi di euro; qui l’incidenza degli stranieri è desumibile dal numero dei condannati e dei carcerati – attorno al 25% del totale. Otteniamo così un valore di poco inferiore ai 2 miliardi.

Il sesto settore è quello degli interni (spesa totale 2008: 10,8 miliardi) dove le spese per gli immigrati sono concentrate nei centri di identificazione ed espulsione, nei centri per i richiedenti asilo e nelle politiche relative all’ordine pubblico, con un totale di spesa poco superiore ai 500 milioni l’anno. Le spese sostenute dai ministeri della Giustizia e dell’Interno, peraltro, riguardano non solo i cittadini stranieri residenti, ma, in larga misura, anche gli irregolari.

Infine, come settori di trasferimento monetario, occorre considerare circa 400 milioni per assegni famigliari e circa 600 milioni per trattamenti pensionistici (con l’esclusione degli italiani nati all’estero, che rappresentano la maggioranza nei dati rilevati dall’INPS).

Il complesso delle spese relative agli utenti stranieri dei servizi di welfare, a costo standard, ammonta così a circa 10 miliardi di euro, che vanno confrontati con i circa 11 miliardi ottenuti nello stesso anno dallo stato (7,5 miliardi di contributi previdenziali e 3,5 miliardi di gettito fiscale).

La percezione che gli immigrati rappresentino un onere per i conti pubblici non è perciò suffragata dai dati.

Che fare?

Sino ad ora l’impatto fiscale complessivo degli stranieri in Italia appare piuttosto modesto e si potrebbe sintetizzare in questo modo: gli stranieri nel 2008 rappresentano il 7,5% degli occupati del Paese, con stipendi netti mediamente attorno ai 900/1000 euro mensili ed un’età media di circa 15 anni più bassa di quella degli italiani, costituiscono circa l’1% del gettito fiscale complessivo, hanno fatto lievitare di circa l’1% la spesa pubblica nei settori di welfare, forniscono quasi il 4% dei contributi previdenziali, ricevendo per ora una quota minima dei trattamenti pensionistici.

L’obiettivo comune che ci dovremmo prefissare nelle discussioni di merito rispetto alle nuove convenzioni di sicurezza sociale, a mio parere, è quello dell’ampliamento delle variabili da considerare nelle analisi di fattibilità (costi/benefici per gli stati) di cui poi le amministrazioni pubbliche e la politica potranno fare uso.

Per l’Italia, come ha dichiarato il nostro ministro del Lavoro e della Gioventù, vi è l’occasione di fare una scelta ed arrivare ad una convenzione di cui si sta da tanto tempo discutendo, prima che l’Albania faccia il suo ingresso nell’Unione europea, nella quale poi per forza si rispetteranno i diritti di tutti i cittadini degli stati membri.

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