L’altro lato dell’acropoli

Atene. Il luogo di nascita della democrazia, cela un lato oscuro e doloroso. Sono le strade e le piazze in cui i muhajirin vivono nell’illegalità, in attesa di un futuro che non arriva. Un buco nero che inghiotte vite e destini e in cui Mussa Khan sembra essersi perduto

05/10/2010, Paolo Martino - Atene

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Omonia, stazione della metro - Kriisliao/flickr

Atene. La stazione della metro di Katehaki riversa ondate di persone frettolose nel quartiere ancora assonnato. Tra i passeggeri che affollano i vagoni riconosco pochissimi volti greci: Africa, Asia e Medio Oriente sembrano essersi dati appuntamento su questo treno.

“Gli afghani conoscono bene le difficoltà che li attendono in Europa. I muhajirin che si sono stanziati qui informano costantemente amici e parenti sulle pessime condizioni di vita che offre la Grecia”. Ibrahimi spegne lo schermo su cui scorrono le foto dei miseri accampamenti dei migranti disseminati nel centro di Atene.

“Negli anni passati molti muhajirin, esasperati dalla povertà estrema, hanno accettato i rimpatri volontari finanziati dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni. Ma al massimo” continua Ibrahimi, “sono rimasti in Afghanistan per qualche settimana, per poi affrontare nuovamente il terribile viaggio verso l’Europa.” Dopo un attimo di pausa, il ragionamento giunge alla scontata conclusione: “Il punto è che per noi afghani non c’è alternativa alla fuga. Vivere nella paura è un prezzo troppo alto da pagare.”

Giovane medico di Ghazni, Ibrahimi fa parte di quel misero 0,003% di richiedenti asilo che ha ottenuto lo status di rifugiato in Grecia. Arrivato nel 2004, ha fondato insieme ad un gruppo di muhajirin l’”Afghan Association in Greece”, un centro polifunzionale dove si dà assistenza sanitaria, istruzione, aiuto materiale e consigli pratici ai migranti.

“Il problema più serio è l’illegalità forzata. Questo paese non consente ai rifugiati di regolarizzare la propria posizione.”Seduto su uno dei banchi in cui quotidianamente tiene lezioni di lingua greca ed inglese per i muhajirin, Ibrahimi racconta l’agghiacciante storia di Petro Rali. “E’ l’unica stazione di polizia in cui si può richiedere asilo. Le domande vengono accettate solo il sabato, una ventina al massimo. Ogni venerdì notte, migranti da tutto il mondo si accalcano davanti all’ufficio per partecipare all’assurda lotteria. Uomini, donne, bambini, vecchi. Un’umanità esausta. In tre anni la fila di Petro Rali ha già fatto tre morti.”

“Ma la vera emergenza”, conclude Ibrahimi, “è sociale. La crisi sta tirando fuori il peggio da questo paese. Ogni notte è una guerra per i muhajirin: i giovani di estrema destra, organizzati in piccoli gruppi, attaccano gli accampamenti armati di spranghe, bottiglie incendiarie, coltelli. E quando vengono feriti, i muhajirin non vanno certo a curarsi in ospedale.”

Il taxi si infila in una ragnatela silenziosa di viali alberati, un’oasi di verde dopo il caldo opprimente del centro. L’Unhcr ha la sua sede in uno dei villini che costellano il quartiere. Sul marciapiede antistante, però, qualcosa turba la quiete immobile del luogo.

“E’ in queste condizioni da sei giorni, ma nessun giornalista è ancora venuto a vederlo. Morirà qui inutilmente”. Hamid, rifugiato iraniano, giace a terra con le labbra cucite da un robusto filo da sutura. Faccio fatica a guardare quel volto sfigurato, prosciugato da una settimana di digiuno totale.

Vahid, suo connazionale, si è risparmiato lo strazio della sutura solo per poter continuare a comunicare, ma è a sua volta in sciopero della fame. “Siamo arrivati  in Grecia sette anni fa, scappando dall’Iran per motivi religiosi. Da allora viviamo come banditi, ogni notte in cerca di un posto dove dormire. Non possiamo tornare indietro, ma neanche proseguire verso l’Europa. Siamo stanchi di questa vita senza speranza, morire non ci spaventa”. Dalla tenda che Hamid e Vahid hanno montato sul marciapiede spunta una vecchia copia della Bibbia in farsi.

“Capiamo le ragioni della loro protesta, ma non abbiamo il potere di intervenire”. Ricevendomi nel suo ufficio sul lato opposto della strada, Ketty Kehayioylou, addetta stampa dell’Unhcr, mi spiega la situazione: “Nel 2009 il governo greco ha eliminato il ricorso contro le decisioni della commissione che esamina le domande d’asilo. Perciò”, continua la Kehayioylou, “per protestare contro una tale violazione di una fondamentale tutela giurisdizionale, abbiamo deciso di ritirare i nostri rappresentanti dalle commissioni. Ora attendiamo che il governo appena insediato promulghi una nuova legge, ripristinando l’appello. Ma in questa fase transitoria continuiamo a rimanere esterni”.

Torno fuori. Hamid mi segue con lo sguardo. Avrei molto da chiedergli, ma preferisco restare in silenzio. La forza espressiva della sua bocca malamente cucita è superiore a qualsiasi spiegazione. Davanti al cancello serrato delle Nazioni Unite, sotto lo sguardo costate della polizia privata, il tempo scorre lentissimo.

Quando sto per alzarmi Hamid mi chiede con un chiaro gesto della mano di fotografarlo. “Non posso, sei un rifugiato. Mostrando il tuo volto ti metterei in pericolo. Chiunque fosse sulle tue tracce, avrebbe elementi per trovarti”. Le mani si uniscono in segno di preghiera. Un gesto che non vedevo da tempo. Le lacrime vengono bloccate solo dalla disidratazione avanzata. “Tamam. Come vuoi tu”. Scatto una foto e vado via.

Perdendomi tra i viali assopiti nella calura del primo pomeriggio, penso che il vero motivo per cui non volevo fotografare il viso mostruoso di Hamid è che avrei preferito dimenticarlo in fretta.

Vago nella notte, preparandomi all’incontro più difficile, quello con Omonia. L’acropoli di Atene, visibile a tratti fra i profili scuri dei palazzi, irradia una strana luce gialla. Dalle cuffie escono le note di Ahmad Zahir, il cantautore afghano più amato dai muhajirin di Van: il ricordo delle notti passate sull’altopiano mi serve a mantenere vivo il contatto con Mussa Khan, ora che le sue tracce sono così difficile da seguire.

Come ogni incubo, Omonia fa paura solo di notte. Quando il sole è alto essa non è che una delle tante piazze caotiche di questa città. Ma dopo ogni tramonto, spacciatori, prostitute, contrabbandieri, ladri, drogati, faccendieri, spie, migranti e trafficanti si riversano nell’oscurità che li accoglie e li protegge. Incrociare uno sguardo significa chiedere o offrire, vendere o acquistare, avere o volere. Nulla è casuale nel disordine che si impossessa del quartiere.

I falsari pakistani, seduti sui muretti al centro della piazza, offrono carte d’identità italiane, turche o spagnole a cinquanta o cento euro; i trafficanti curdi vendono passaggi per Brindisi o Venezia a duemila euro; i ragazzi marocchini spacciano hashish e cocaina ai quattro angoli della piazza e davanti alle uscite della metro; le prostitute nigeriane si vendono in una delle traverse più trafficate, controllate dai protettori poco lontano; come meteore, i poliziotti in motocicletta fanno un veloce giro della piazza, scomparendo nella lunga notte di Atene. Da lassù, l’acropoli continua a emanare la sua luce gialla.

Alzo il volume nelle cuffie. Un ragazzo, forse arabo, corre nel traffico, inseguito da due persone. Viene improvvisamente investito da un taxi, rotolando a terra. L’adrenalina gli dà la forza di riprendere a correre, ma ha il volto sfigurato. Scompaiono tutti e tre in uno dei vicoli.

Poco lontano, un autobus blindato è in sosta con il motore acceso. Cerco di avvicinarmi, ma i poliziotti mi impediscono di farlo. I documenti italiani mi mettono al riparo da conseguenze spiacevoli. Oltre i vetri e le grate d’acciaio che fasciano il mezzo scorgo il carico umano che viene portato via: migranti.

Mi porto ancora avanti, a caso. Una strana folla disordinata si accalca in una delle strade che costeggiano il Museo Nazionale di Archeologia. Lo spettacolo è deprimente. Decine di ragazzi si afflosciano sui marciapiedi, crollano sulle panchine, si accasciano nelle aiuole. Mezzi nudi, sudati, sporchi. Il volume nelle cuffie ora è al massimo. Vedo la siringa ancora ben piantata nel braccio di molti di loro.

Silenzio. Chiuso nella camera d’albergo cerco di calmare il flusso violento delle immagini che affollano il mio cervello. In questo momento vorrei mollare tutto, prendere il primo aereo per Roma. Il sonno improvviso è una insperata tregua.

Al mattino mi è tutto chiaro. Mussa Khan è in prigione, lo sento. Non potremo più viaggiare insieme, né arrivare insieme alla meta. Ma non voglio fermarmi, non ora. Troppi volti, troppe strade, troppi sogni calpestati mi spingono ad andare avanti. Proseguirò senza di lui la strada che porta i muhajirin in Italia. E lo farò alla maniera dei muhajirin.

Omonia è stato il punto di non ritorno. Lascio Atene diretto verso i porti sull’Adriatico, Patrasso e Igoumenitsa: moderne Scilla e Cariddi, dove le scelte sono senza ritorno e chi sbaglia viene inghiottito da vortici impietosi. Lì non starò a guardare, a distanza di sicurezza, il destino dei muhajirin che tentano il mare e la sorte. Vivrò come loro, fumerò dalla stessa sigaretta, dormirò sulla stessa terra battuta. Io stesso, d’ora in poi, mi chiamerò Mussa Khan.

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