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L’Albania al vaglio del Consiglio dei diritti umani dell’Onu
A Ginevra le istituzioni Onu danno la pagella all’Albania sul rispetto dei diritti umani. E l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, insieme a Operazione Colomba, riesce grazie al proprio impegno pluriennale in Albania e ad un side event a porre l’attenzione sulla vendetta di sangue
Nella sede delle Nazioni Unite di Ginevra lo scorso 6 maggio è iniziato il terzo ciclo dello Universal Periodic Review dell’Albania. Nel primo pomeriggio è intervenuta una delegazione tutta al femminile composta dalle rappresentanti del governo albanese: Merita Xhafaj, Brunilda Minarolli e Ravesa Lleshi, e dalle delegate dei diversi ministeri, sotto la guida di Artemis Dralo (ministero degli Esteri). Hanno presentato la situazione attuale del paese, i progressi compiuti dalle istituzioni albanesi e gli impegni presi per i prossimi anni, sulla base di quanto già contenuto nel Report statale presentato all’OHCHR, ufficio Onu dell’Alto rappresentante per i Diritti umani.
Il 22 febbraio scorso, infatti, il governo dell’Albania aveva presentato un rapporto ricco di riforme legislative nel campo della tutela dei diritti umani e con un approccio propositivo verso il futuro. In particolare nel report statale si evidenziavano il piano anti-corruzione da sviluppare nel biennio 2018-2020 e i passi compiuti nella tutela dei diritti dell’infanzia, sviluppati attraverso l’agenda 2017-202, ivi compreso il nuovo “Codice per la giustizia minorile”.
Poco prima dell’inizio della presentazione del rapporto statale nell’assemblea plenaria, l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, insieme a Operazione Colomba, il suo Corpo Nonviolento di Pace, ha organizzato un side event sul fenomeno delle vendette di sangue, di cui si occupa ormai da anni. La Comunità Papa Giovanni XXIII, grazie allo status consultivo presso l’ECOSOC, monitora la situazione della tutela dei diritti umani nei diversi stati in cui è presente con una propria missione, con un osservatorio privilegiato da Ginevra.
Operazione Colomba, presente in Albania dal 2010, ha lavorato in questi anni con un approccio multilivello, partendo da una conoscenza diretta delle famiglie vittime della faida familiare. Ed è proprio grazie a questi dati di prima mano che i volontari sono riusciti a elaborare nel corso degli anni report attendibili, recepiti come fonte autorevole presso sedi internazionali come il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU. Scopo dell’evento era quello di richiamare l’attenzione dei rappresentanti degli stati e delle istituzioni internazionali presenti sugli ultimi dati tratti dalle analisi e dall’esperienza diretta sul campo, nonché proporre le buone prassi elaborate negli anni come punto di partenza per il superamento del fenomeno. Tra i relatori, Operazione Colomba aveva invitato anche le professoresse albanesi Brunilda Zenelaga, che insegna all’Università di Tirana, e Brunilda Pali, docente presso l’Università di Leuven (Belgio): la prima ha presentato una relazione sulla giustizia statale e su quanto il suo buon funzionamento possa influire sull’eliminazione della vendetta di sangue; la seconda invece si è focalizzata sull’impiego della giustizia riparativa come strumento per superare la logica della faida.
Tra il pubblico, oltre a un giornalista e ad alcuni rappresentanti di organizzazioni non governative, è stata rilevante la presenza di due rappresentanze statali della Svezia e del Brasile. In particolare la partecipazione della delegata svedese è stata cruciale. Infatti, tra i dati citati da Operazione Colomba, sono stati ricordati anche il caso Majollari e il caso Pepa , due esempi emblematici di mancanza di protezione delle vittime del fenomeno della vendetta avvenuti nel 2018. I due cittadini albanesi si erano recati all’estero come richiedenti asilo in paesi dell’Unione europea – l’uno in Svezia e l’altro in Germania – dove avevano ricevuto un diniego di protezione internazionale, e pertanto erano stati rimpatriati. Una volta rientrati in Albania, erano stati uccisi a compimento delle rispettive vendette di sangue. Le loro recenti morti hanno così ricordato che il fenomeno non è scomparso e che le istituzioni (albanesi in primo luogo, e straniere successivamente) hanno fallito nel tutelare la vita di chi ne rimane invischiato.
A tale proposito, sono state molto interessanti le raccomandazioni pronunciate dagli stati durante l’assemblea in risposta al rapporto del governo albanese. Ben cinque stati hanno espresso la loro preoccupazione per il fenomeno della vendetta di sangue: Croazia, Italia, Malta, Repubblica Ceca e Russia. Di questi, va sottolineato che l’Italia, attraverso la propria Ambasciata a Tirana, aveva patrocinato la presentazione del report triennale di Operazione Colomba nel marzo dello scorso anno, rafforzandone la diffusione ed evidenziandone la credibilità. In quell’occasione avevano partecipato anche le rappresentanze consolari in Albania di Croazia e Repubblica Ceca, che evidentemente ne hanno apprezzato e recepito i contenuti. Peraltro, va notato che la Repubblica Ceca è anche uno dei membri della “troika”, insieme a Senegal e Filippine, che si occuperà della revisione vera e propria dell’Albania secondo il modello UPR. E dunque la sua raccomandazione ha una valenza speciale, essendo pronunciata da uno dei tre Paesi relatori dell’Albania.
Il meccanismo di revisione del paese è appena iniziato, durante i prossimi mesi usciranno i risultati del lavoro del Consiglio dei diritti umani e le raccomandazioni suggerite all’Albania, con la speranza che fungano da stimolo per un miglioramento delle condizioni del paese e per un’estensione delle tutele accordate ai suoi cittadini.