Lady Plavšić

Aveva patteggiato con il Tribunale dell’Aja esprimendo rimorso e usufruendo così di un notevole sconto di pena. Oggi, in un’intervista concessa dal carcere svedese in cui è rinchiusa, Biljana Plavšić ritratta la propria confessione. Un ritratto dell’ex presidente della Republika Srpska

12/02/2009, Azra Nuhefendić -

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Biljana Plavšić

Questo articolo è stato pubblicato l’11 febbraio 2009 su Nazione Indiana

Ci vedevamo una volta al mese, regolarmente, per anni. Dall’estetista Vera io ci andavo per curare i brufoli, lei invece per mantenere la bellezza.

Alta, una figura elegante, capelli biondi, occhi azzurri. Bella. La tradiva lo sguardo, tagliente e severo. Le ha procurato un soprannome, Lady di ferro.

Dall’estetista, come dal parrucchiere, si chiacchiera, si parla, si spettegola. Lei, invece, solo "buongiorno" e "arrivederci". Se mai pronunciava qualche parola in più, lo faceva con una voce nasale, sembrava una che faceva fatica a parlare con gli esseri comuni. Appariva una prepotente, una che dà lezioni.

Infatti, Biljana Plavšić era una professoressa. Insegnava biologia all’Università di Sarajevo. Specializzazione: la genetica.

E’ l’unica donna tra le più di 150 persone accusate o condannate dal Tribunale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità nelle guerre in ex Jugoslavia.

La sua carriera politica, Biljana Plavšić l’ha fatta nel periodo più buio in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Dal 1992 al 1996 fu stretta collaboratrice di Radovan Karadžić. Quando Karadžić fu costretto a ritirasi, lei diventò presidente della Republika Srpska. Ha partecipato ai massimi livelli alla campagna di smembramento della Bosnia Erzegovina mettendo in atto la pulizia etnica in vaste zone del suo territorio.

Fu una sorpresa per me vederla in TV, nel 1992. La guerra in Bosnia Erzegovina (BiH) non era "ufficialmente" cominciata (l’inizio viene considerato l’attacco a Sarajevo) quando Biljana Plavšić si presentò sullo schermo. A Bijeljina, una città della Bosnia nord- orientale, stava abbracciando e baciando l’infame criminale di guerra Željko Raznatović Arkan.

"Io bacio solo gli eroi", spiegava Biljana Plavšić, mostrandoci da subito la sua sensibilità. Poi ha precisato: "Quando ho visto cosa ha fatto Arkan a Bijeljina, mi sono detta che lui è un vero serbo. Questo è il tipo di eroi che ci serve".

Anche il resto del mondo poteva capire che razza di uomini apprezzasse la professoressa Plavšić. I principali media mondiali, inclusa la copertina del settimanale americano Time, mostravano una foto shock scattata a Bijeljina: un paramilitare serbo, membro della brigata "Tigri", unità paramilitare comandata da Arkan, prendeva a calci la testa di una donna musulmana stesa per terra, uccisa.

L’assalto a Bijeljina fu un prototipo di quello che seguì in Bosnia Erzegovina nei primi sei mesi di guerra, quando i nazionalisti serbi occuparono il 75 percento del territorio: attacchi ai villaggi e alle città indifese, esecuzioni di civili, saccheggio, stupri, campi di concentramento e pulizia etnica. Quest’ultima pratica fu favorita dalla Plavšić: "Preferirei ripulire completamente la Bosnia orientale dai musulmani… E’ un fenomeno perfettamente naturale quello che loro (l’Occidente) ha definito come pulizia etnica, e considera come una sorta di crimine di guerra" (Svijet, Novi Sad, 1993).

La signora Plavšić è tra le poche persone alle quali un sogno, di importanza storica, si è avverato. La Bosnia orientale è completamente ripulita dai musulmani bosniaci.

Il Tribunale dell’Aja ha incriminato Biljana Plavšić per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Lei si costituì volontariamente, patteggiò con il Tribunale dichiarandosi colpevole di crimini contro l’umanità, così che il Tribunale lasciò cadere l’imputazione di genocidio. L’accusa aveva chiesto 25 anni di carcere, ma Biljana Plavšić fu condannata, nel 2003, a 11 anni di prigionia.

"Se mettessimo tutto il dolore e la sofferenza di tutte le vittime da una parte, quanti anni di carcere potrebbero bastare per servire la giustizia", si chiedeva il premio Nobel Elie Wiesel, uno dei testimoni al processo di Biljana Plavšić, lui stesso sopravvissuto a un campo di sterminio nazista.

La condanna, Biljana Plavšić la sta scontando nel carcere svedese di Hisenberg. "Ah, meno male", ho pensato quando l’ho saputo. Perché il carcere femminile di Hisenberg ha la sauna, il centro massaggi e altre comodità.

Tra i vertici politici dei serbi bosniaci, la signora Plavšić si distingueva per il suo ultra nazionalismo. "Non ritengo negativo il mio radicalismo", diceva. L’assedio di Sarajevo per lei era "soltanto la difesa delle case dei serbi". I musulmani bosniaci? "Originariamente erano serbi, ma geneticamente deformati perché si sono convertititi all’islam", affermava la professoressa, esperta di genetica.

Non si fidava delle trattative politiche, e preferiva "una bella guerra che avrebbe risolto tutto". Poi, fedele al soprannome di Lady di ferro, affermava: "Ci sono 12 milioni di serbi. Anche se ne uccidessero sei milioni, gli altri sei potrebbero vivere decentemente".

Qualche volta, anche per il gusto degli altri nazionalisti serbi, le posizioni della Plavšić erano esagerate. L’ex presidente serbo Slobodan Milošević le aveva proibito di entrare in Serbia, sostenendo che "il suo posto è in manicomio". Sua moglie Mira la chiamava "il Mengele femminile".

A Sarajevo Biljana Plavšić veniva chiamata "la signorina", perché non era sposata. Per i nazionalisti serbo bosniaci, che portavano i suoi poster sui carri armati, era "l’imperatrice serba", o "la regina di ghiaccio". "Ne sono fiera", aveva detto la Plavšić ricambiando l’amore dei suoi sostenitori.

"Lei e’ la più pazza di tutti", sosteneva il giornalista e scrittore americano David Rieff. "Quando, durante l’assedio, gli animali nello zoo di Sarajevo morivano di fame, la signora Plavšić diceva che li stavano cibando con i neonati serbi".

L’unica differenza tra lei e gli altri, secondo il portavoce delle Nazioni Unite in Bosnia Erzegovina (UNPROFOR), Alexander Ivanko, era che lei è un "nazista onesto".

Talvolta Biljana Plavšić si mostrava generosa: "Ai musulmani (bosniaci), si potrebbe dare il 30 percento del territorio della BiH, dove possono organizzare la propria vita per non disturbarci più… Non gli auguro niente buono. Ma per mettere la mia anima in pace, dobbiamo dargli qualcosa", ragionava la Plavšić.

Cosa aiutava la professoressa a mantenere l’anima in pace?

"Nella fossa comune di Suha, vicino a Bratunac, nella Bosnia orientale, i resti di 38 persone, tutti uccisi con un’arma da fuoco. I corpi ben conservati. Cinque donne con i bambini in braccio, di età tra i sei mesi e qualche anno; in un saccho due bambini abbracciati, e una donna giovane incinta nove mesi. "Era un maschio", ha constatato il patologo Zdenko Cirhlaz.
Oppure "… un giorno, nell’aprile 1992, le guardie hanno interrogato una madre di fronte agli altri detenuti nel campo di concentramento di Manjaca, vicino a Banja Luka. Poi i guardiani hanno stuprato la figlia di sette anni della donna, davanti alle altre detenute. La bambina morì poco dopo" (testimonianza depositata preso il Dipartimento di Stato Americano).
Oppure "…in quel mucchio, in quella catasta di cadaveri che non sembravano persone… solo una pila di carne a pezzi… emerse un essere umano… per la precisione era un bambino di cinque o sei anni. Un essere umano venne fuori e cominciò a muoversi verso il sentiero dove gli uomini con i fucili automatici stavano facendo il loro lavoro. E questo bambino camminava verso di loro… e diceva ‘babbo dove sei’" (testimonianza di un serbo, conducente dei camion che portavano approvvigionamenti all’esercito serbo-bosniaco che fucilava i bosniaci all’epoca del genocidio di Srebrenica, v. "La Caccia", di Carla Del Ponte).

Recentemente, e per la terza volta da quando è in prigione, Biljana Plavšić ha chiesto la grazia.

Il Primo Ministro della Republika Srpska, Milorad Dodik, l’ha visitata in carcere, l’agosto scorso, trovandola "in ottima salute fisica e mentale". Dodik ha promesso che "farà di tutto per aiutarla".

In Republika Srpska hanno creato un comitato che "nel nome della giustizia universale, nel nome della morale cristiana e dell’umanità" chiede al Tribunale di ridurre la pena e liberare dal carcere Biljana Plavšić.

Durante il suo processo, Biljana Plavšić si è dichiarata colpevole davanti al Tribunale per crimini contro l’umanità, affermando "che accetta la propria colpevolezza per le migliaia di innocenti civili, musulmani e croati, vittime di un’azione organizzata e sistematica per pulire i territori che i serbi ritenevano gli appartenessero".

Leggendo la sua dichiarazione scritta, la signora Plavšić non ha manifestato nessun dispiacere, non ha pronunciato nessuna scusa nei confronti delle vittime.

"Non c’era niente di umano nelle sue parole", ha detto Emir Suljagić, sopravvissuto al genocidio di Srebrenica.

Biljana Plavšić stessa ha confermato che la sua dichiarazione davanti al Tribunale non era dettata dal pentimento, ma da puro calcolo.

Richiamata davanti al Tribunale dell’Aja per testimoniare nei processi agli altri imputati "nega ogni conoscenza dei crimini, si presenta come una vittima delle circostanze… e comincia a protestare la propria innocenza", scrive nel suo libro "La Caccia" l’ex capo della Procura dell’Aja, Carla Del Ponte. Del Ponte ha chiesto di rimandare a giudizio la signora Plavšić, ma per le regole del Tribunale era impossibile.

Intervistata nel 2005 dalla Tv Alternativa di Banja Luka, Biljana Plavšić ha sottolineato "di aver mentito davanti al Tribunale perché non poteva provare la propria innocenza".

Nell’unica intervista rilasciata recentemente (2009) al giornale svedese "Vi", sostiene di non aver fatto "niente di sbagliato" e di essersi "volontariamente sacrificata".

Oggi Biljana Plavšić ha 78 anni. Dal carcere femminile di Hisenberg si lamenta della vita in prigione, che "divide con criminali comuni, prostitute, assassine, ladre, drogate".

Biljana Plavšić, responsabile di migliaia di morti, sofferenze incommensurabili di innocenti, la distruzione di un Paese, si ritiene migliore dei criminali comuni.

"E’ questo un esempio di malafede, un ingannare se stesso, congiunto a un’enorme stupidità? O è semplicemente l’eterna storia del criminale che non si pente, del criminale che non può vedere la realtà perché il suo crimine è divenuto una parte di essa?", si chiedeva Hannah Arendt durante il processo di Adolf Eichmann a Gerusalemme.

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