La via di Šaban
Nel secondo anniversario della morte, la città di Niš ha ricordato con una statua di bronzo uno dei suoi cittadini più illustri: il musicista rom Šaban Bajramović. L’inaugurazione del monumento avviene nel momento in cui in Europa alcuni Paesi dichiarano i rom cittadini indesiderabili. Le polemiche, la posizione della autorità serbe
Quando ci conoscemmo, Brko, questo era il suo soprannome, aveva fatto il borseggiatore in Italia per vent’anni. Ci presentò un amico in comune, con il patto che io dovevo fingere di non sapere che Brko era uno scippatore, e che a lui non venisse detto che io era una giornalista.
Avevo intenzione di fare un servizio su quelli come Brko. Interi gruppi di delinquenti varcavano il confine dell’ex Jugoslavia, ben sorvegliato, senza alcun documento, e lo facevano ogni volta che gli pareva.
Alto, magro e gentile, Brko si presentò all’appuntamento elegantissimo, vestito tutto con roba firmata. Dall’aspetto sembrava un giovane diplomatico. L’unico particolare che lo tradiva era il suo sguardo sfuggente, non ti guardava mai negli occhi.
In tre ci mettemmo a girare tutta la notte per i bar e i ristoranti più conosciuti di Sarajevo. Dopo alcuni bicchieri, Brko mi confessò: “Sai, io sono un semplice ladro”. “Non fa niente”, gli risposi con finto disinteresse.
La Sarajevo che mi fece vedere un borseggiatore fu per me una scoperta. Mi stupì la rivelazione di una città opposta a quella che conoscevo, di un mondo parallelo al mio, fatto di piccoli e grandi criminali, prostitute, truffatori, varia gente al limite della legalità, che ruotava intorno ai personaggi principali. Ovunque andavamo, quella sera, i proprietari in persona venivano a salutare Brko. Si stringevano la mano, si abbracciavano, si ricordavano del passato comune. Capii che quelli che ritenevo distinti imprenditori avevano un passato identico, o simile, a quello di Brko: rubavano nei Paesi europei e poi tornavano in Jugoslavia, per stabilirsi e invecchiare in pace facendosi credere dei cittadini per bene.
La serata finì in una vera e propria baracca a Sedrenik, un sobborgo della città. Bussammo a una porta chiusa a chiave, erano già le quattro del mattino. Un tipo robusto, con la faccia quadrata, ci aprì solo per dirci: “Via, siamo al completo”, e ci sbatté il portone in faccia. Brko bussò di nuovo, bloccò la porta con il piede e disse a quello di avvisare il gazda, cioè il padrone del ristorante, che fuori c’era Brko. Un attimo dopo arriva il padrone, baci e abbracci con Brko, ci fa entrare e senza chiedere scusa sposta gli ospiti già seduti intorno a un tavolo facendoci accomodare.
Dentro, un’atmosfera surreale: due file di panchine con tavoli nel mezzo, di legno grezzo, il luogo gremito di gente, personaggi che uno raramente incontra per le vie principali della città: nani e giganti, ex puttane, ufficiali in pensione, vecchiette con visi maschili che si credono ancora bellezze, uomini ubriachi che si abbracciano e ballano sui tavoli. Tutto avvolto da un denso fumo, odore di alcol, di ćevapčići e di cipolla. Cantavano e piangevano insieme. Nel mezzo andava avanti e indietro il cantante che, era ovvio, si godeva l’atmosfera. Nella pausa tra una strofa e l’altra diceva: “Andiamo, gente, fuori i soldi”, e gli ospiti lo tappezzavano con grosse banconote. Cantava senza alcuno sforzo, con voce potente, un baritono ruvido e caldo allo stesso tempo, mescolando jazz e blues con la musica gitana e balcanica. Era Šaban Bajramović, uno dei più grandi interpreti della musica pop dei rom, “la leggenda vivente” oppure “il re della musica gitana”, come lo chiamavano.
L’impressione che mi rimase di quella serata è che il posto fosse troppo piccolo per la grandiosa voce di Šaban Bajramović. Mentre si esibiva, i muri e i vetri delle finestre vibravano leggermente, i bicchieri e le posate si spostavano sui tavoli; pareva che da un momento all’altro potesse esplodere tutto. Pensavo che, con quella voce magnifica, Bajramović non dovesse esibirsi in posti così squallidi. La noncuranza per il proprio straordinario talento, che spesso accompagna quelli che hanno qualcosa in abbondanza, faceva parte del fascino di Šaban Bajramović. Lui non costruiva, ma sfruttava la propria carriera per godere dell’alcol, delle donne e del gioco d’azzardo.
Šaban Bajramović era nato nel 1936 a Niš, in Serbia in una famiglia di poveri rom. All’età di diciannove anni disertò l’esercito per amore di una ragazza, e per questo dovette passare cinque anni e mezzo nel carcere d’isolamento di Goli Otok su un’isola dell’Adriatico. In carcere imparò a leggere e a scrivere e fece i primi passi in campo musicale, imparando a leggere le note e a suonare il contrabbasso. Mentre era in prigione fondò una band con altri carcerati, con cui faceva musica jazz, musica spagnola e messicana. Šaban Bajramović registrò il suo primo album nel 1964. Da allora ha composto e cantato circa 650 canzoni, ha pubblicato venti album e più di cinquanta singoli. Negli anni ‘60 e ‘70 ha girato il mondo con la sua band, Crna Mamba. Ha cantato per il presidente jugoslavo Tito e fu invitato da Nehru e Indira Gandhi in India per una serie di concerti, dove fu definito il “re della musica gitana”.
Con la sua voce e la sua poesia è stato uno dei più autorevoli rappresentanti della cultura rom in tutto il mondo. Šaban Bajramović cantautore, secondo i critici, univa in sé Bob Dylan e James Brown; è lui l’autore del famoso inno dei rom, “Djelem, Djelem”, e di “Mesećina”, colonna sonora del film “Underground”, di Kusturica. Gran parte della sua produzione venne distribuita e usata da altri musicisti, senza che lui riuscisse a ottenere quanto gli spettava per i diritti d’autore. Quando il Centro Europeo per i Diritti dei Rom cercò di aiutarlo a risistemare le sue finanze, scoprì che Bajramović non aveva conservato neanche una copia dei contratti firmati nel corso della sua carriera.
Su questo straordinario musicista e personaggio fuori dal comune circolavano le storie più improbabili, alle quali contribuiva lui stesso. Si definiva un “musicista vagabondo senza fissa dimora”. Succedeva che, nel mezzo dei preparativi per un grande concerto in una capitale europea, spariva. Prendeva il taxi e andava a cantare per ore a una festa di matrimonio rom. Lo si poteva incontrare un giorno a Belgrado, con indosso un tailleur bianco, su una limousine con autista, e il giorno dopo in una trattoria sperduta balcanica, o in un bar a Vienna. Spesso partecipava alle feste di matrimonio dei rom a Napoli, Milano o a Roma. Tornava in patria con la macchina piena di soldi e oro, che lui, prontamente, perdeva giocando.
Negli anni Novanta sparì. Nessuno sapeva dire se era vivo o morto, se suonava ancora o aveva smesso. Nel 2001 tornò sulla scena musicale come spettava a un re. Con il gruppo bosniaco “Mostar Sevdah Reunion” incise l’album “Šaban Bajramović, a Gypsy Legend”, secondo i critici il migliore di tutta la sua carriera. La registrazione, realizzata nel Centro Musicale Pavarotti a Mostar, raccoglie alcune delle sue composizioni più famose, come ad esempio “Pelno Me Sam” (“Sono incarcerato”), la canzone-lamento di un detenuto che non può partecipare al matrimonio della figlia.
Šaban Bajramović è morto l’8 giugno 2008, a settantadue anni. Ammalato, dimenticato dai suoi colleghi, in povertà. Negli ultimi anni della sua vita aveva cercato, inutilmente, di convincere lo Stato serbo a concedergli la meritata pensione, dopo quarant’anni di carriera musicale.
Un anno dopo la sua morte, il sindaco di Niš, città natale di Šaban Bajramović, propose che una via della città venisse dedicata al musicista scomparso. Si scelse una via dal nome anonimo, lo Južni Bulevar (il viale del sud). Si sono fatti avanti gli abitanti dello Južni Bulevar, gente anonima e ostile al grande artista loro concittadino.
Hanno protestato, e firmato una petizione contro la decisione di dare alla loro via il nome di Šaban Bajramović. Suggerivano che “se si vuole dare a una via il nome di Šaban Bajramović, si dovrebbe scegliere una via nel quartiere dove i rom sono la maggioranza”. Niente di quello che aveva contrassegnato Šaban Bajramović per quarant’anni della sua carriera, la magnifica voce, il talento, la gloria, i riconoscimenti, sembrava loro così importante come il fatto che si trattava di un rom. Il grande Šaban Bajramović poteva varcare facilmente barriere culturali impenetrabili, come hanno scritto di lui i giornali europei, ma non riusciva a superare la mentalità dei suoi concittadini.
Il 13 agosto scorso, all’apertura del Jazz Festival di Niš, la questione è stata risolta dal ministro serbo della Cultura, Nebojša Bradić, e dal sindaco della città, Miloš Simonović. In attesa di trovare una via, la città gli ha dedicato una statua di bronzo, finanziata dagli amici del musicista. Tra questi il regista Goran Paskaljević, secondo il quale sarebbe stato meglio se il monumento "fosse stato collocato nel centro della città. In questo posto a volte si radunano anche degli skinheads e temo che il monumento possa venire danneggiato. Sta alla città di Niš vigilare affinché questo non accada”.
Al termine della cerimonia la vedova di Šaban, Milica, ha deposto una corona di 100 rose bianche in memoria della canzone “Rose bianche” a lei dedicata dal marito, mentre gli altoparlanti diffondevano “Djelem, Djelem”, l’inno dei rom. In questi giorni non solo l’ubicazione di una strada, ma il loro stesso posto in Europa viene messo in discussione.