La via dei conventi

Non un libro sul turismo religioso ma un approfondimento storico sul movimento ustascia in Croazia, prima e durante la Seconda guerra mondiale e sui suoi influssi e riflussi nella Jugoslavia titina. Una ricostruzione fatta sulla base di documenti doplomatici e d’archivio di numerosi Paesi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

14/09/2011, Vittorio Filippi -

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Medjugorie (Milan/flickr)

Talvolta i titoli portano altrove. In questo caso non si parla di percorsi spirituali per i pellegrini del turismo religioso, ma – come recita il sottotitolo di questa pubblicazione – del movimento croato degli ustascia e dell’indiscusso capo Ante Pavelić. E delle vie di fuga che utilizzarono spesso, appunto, conventi ed istituti religiosi conniventi, specie francescani.

Le due Jugoslavie e gli ustascia

Ma andiamo con ordine: in questo ricco e documentato lavoro – 600 pagine di cui circa cento di note e di bibliografia – gli autori Adriano e Cingolani ripercorrono il faticoso percorso delle due Jugoslavie che si sono succedute nel Novecento – quella monarchica dei Karađorđević e quella socialista di Tito – vedendolo però dal lato di quel movimento ultranazionalista croato detto degli Ustascia o insorti, in ricordo delle lontane ribellioni antiturche.

L’ustascismo, nelle intenzioni di Pavelić e dei suoi, avrebbe dovuto restituire alla Croazia quell’antica grandezza che avrebbe avuto – a suo avviso – nel leggendario regno fondato nel decimo secolo sul lato occidentale dei Balcani. Curiosamente la stessa Croazia produsse, nell’Ottocento, due ideologie completamente diverse. La prima, quella illirista, tendeva allo jugoslavismo (ne era leader il vescovo zagabrese Josip Strossmayer), cioè all’unione – in chiave antiasburgica ed antiottomana – degli Slavi meridionali, cattolici ed ortodossi che fossero. L’altra invece, mescolando nazionalismo, clericalismo e razzismo, puntava non solo ad una grande Croazia statualmente autonoma (e quindi di fatto irriducibilmente antiserba) ma anche etnicamente pura.

Protezione italiana

Pavelić parte ovviamente da quest’ultimo pensiero e lo organizza con il t[]ismo negli anni Trenta con l’obiettivo di smantellare la prima Jugoslavia, cioè il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (SHS) in cui la Croazia era “prigioniera”. Non solo il re Alessandro venne ucciso a Marsiglia nel 1934 da mano ustascia, ma per tutti gli anni seguenti proseguì l’opera di destabilizzazione del Regno jugoslavo. Opera francamente facilitata da un lato dall’oggettiva fragilità e rissosità del giovane Stato, dall’altro da chi, come l’Italia fascista, aveva mire egemoniche sul vicino Regno.

Non meraviglia dunque che Pavelić ed i suoi ustascia vengano generosamente accolti e protetti in Italia in attesa del momento propizio. Momento che arriverà presto con l’invasione italotedesca della Jugoslavia, la sua frantumazione e la nascita, nell’aprile 1941, dello Stato indipendente croato (NDH) guidato dal poglavnik (duce, capo) Pavelić.

Uno Stato che si presentava non solo filofascista ed ultracattolico, ma anche violentemente razzista. Obiettivo: spazzar via i serbi, gli ebrei ed i rom; i massacri e la pulizia etnica ebbero la scientificità massima nel famigerato campo di Jasenovac, un vero e proprio lager (con tanto di forno crematorio) guidato anche da un frate, detto efficacemente frà Satana.

Dopoguerra

Con la sconfitta tedesca e la vittoria partigiana, gli ustascia in fuga dimostrarono una grande abilità nel nascondersi approfittando di una rete vasta di appoggi e di coperture fornite soprattutto da influenti sacerdoti e frati croati nonché da chi vedeva negli ustascia una forza anticomunista comunque utile nel momento in cui il mondo si spaccava nella guerra fredda. Dopo l’Austria e l’Italia fu l’Argentina peronista la meta “naturale” di tanti dignitari ustascia, Pavelić compreso.

Il poglavnik morì nel 1959, quando ormai la Jugoslavia, avendo rotto con l’URSS, era ritenuta geostrategicamente “utile” all’Occidente. L’ustascismo si era ormai ridotto alle azioni t[]istiche, che ebbero il picco in quella “Primavera croata” del 1970-71 che fece esplodere ampie rivendicazioni nazionalistiche poi represse dallo stesso Tito.

Il libro finisce qui. Ma sappiamo che, come vampiri, gli ustascia (insieme con i cetnici serbi) riapparvero lugubremente negli anni delle violente convulsioni che smembrarono la Jugoslavia federale. Lo stesso presidente Franjo Tuđman ed il suo partito HDZ ebbero il sostegno di una robusta diaspora anticomunista dalla tinta decisamente filoustascia. E bisognerà aspettare nel 2002 il centrosinistra di Ivica Račan (ex Lega dei comunisti) perché si cominci a pensare di vietare in Croazia il proliferare della simbologia ustascia, cui si erano aggiunte le foto di Ante Gotovina. Ma, come un fiume carsico, non è detto che l’ustascismo non possa trovare nuovo consensi dalla destra radical-populista, magari rifiutando quell’Europa che tra due anni dovrebbe accogliere la Croazia.

Perché quel che è certo – ed il lavoro di Adriano e Cingolani ben lo dimostra – è che l’ustascismo si innerva incontestabilmente sulla storia croata, o perlomeno di una certa Croazia, e quindi anche sulle dinamiche sempre piuttosto aggrovigliate dei Balcani.

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