La vera storia di Zorba il greco
Giorgis Zorbas, il celebre personaggio del romanzo di Nikos Kazantzakis, interpretato sul grande schermo da Anthony Quinn è esistito davvero ed è ora sepolto a Skopje
Ebbene sì, è esistito davvero. La tomba nel cimitero di Skopje non lascia dubbi: "Giorgio Zorba 1869-1941". Una piccola scritta affidata all’oblio, nascosta fra i nomi di una rispettabile famiglia di mercanti slavi, i signori Jada. Insieme a loro giace Zorba il greco, l’avventuriero dai mille mestieri, l’eterno vagabondo assetato di donne, di viaggi, di vita. Il novello Dioniso che il dolore e la gioia li esprimeva suonando il santuri, o nella magia di una danza virile. La danza di Zorba, appunto.
Da Kazantzakis a Anthony Quinn
Di lui, forse, e della sua storia vera e non solo di personaggio immaginario (Alexis Zorba lo aveva battezzato Nikos Kazantzakis nel suo romanzo Zorba il greco, tradotto in italiano da Crocetti editore, nel 2011, dall’originale greco del 1943), non avremmo più sentito parlare se il 26 ottobre 2017 non cadesse il sessantesimo anniversario della morte di Kazantzakis.
Un autore che, oltre a Zorba, ha scritto altri capolavori come "Capitan Michalis", il seguito dell’Odissea e "L’ultima tentazione di Cristo", messo all’indice dal Vaticano nel 1955. Opere che per poco non gli valsero un Nobel per la Letteratura negli anni Cinquanta, negatogli solo per questioni politiche come sostiene il saggio To Hameno Nobel ( "Il Nobel Mancato" apparso in Grecia nel 2015 presso le edizioni Kastaniotis).
Ma torniamo a Zorba, il vero Zorba. In occasione del 60esimo anniversario della morte di Kazantzakis, ad Atene è uscito il saggio "Kazantzakis-Zorbas. Un’amicizia vera" di George Stasinakis (edizioni Kastaniotis). Testo che aggiunge non pochi particolari a quello che si sapeva già del nostro eroe, da quando nel 1997 due cronisti di un giornale ellenico, l’Ethnos, avevano individuato quella lapide seguendone la pista nei Balcani.
Zorba era lì, a tre ore di macchina da Salonicco, nella capitale dell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia. Proprio dove l’avventuriero morì secondo il romanzo di Nikos Kazantzakis. Ricordate? Il suo personaggio era diventato famoso grazie al film del 1966 con Anthony Quinn. Quell’estate il mondo ballò al ritmo del sirtaki e la Grecia, da allora, nel cuore di ogni turista è legata a quelle note del compositore Mikis Theodorakis.
Ma Zorba – questo è il punto – non era un personaggio immaginario, ma un uomo in carne ed ossa. Anche se Kazantzakis cambiò il suo nome da Giorgio in Alexis e ne ritoccò le avventure per evitare grane con la sua famiglia: "I fratelli di mia madre avevano minacciato di portare lo scrittore in tribunale: lo accusavano di infangare la memoria di loro padre" ha raccontato Anna Gajger, nipote di Zorba che viveva a Belgrado e che ha posto fine alla disputa con una lettera al quotidiano ateniese Ethnos nel 2000: "Penso che tutti noi dobbiamo molto a Kazantzakis, perché ha descritto un esemplare umano eccezionale, un filosofo che era sì semianalfabeta ma la cui saggezza derivava dall’esperienza di vita".
Ma chi era veramente Giorgio Zorba?
"Nei suoi ultimi anni, trascorsi a Skopje, si rifiutava di vivere con la sua famiglia e stava in albergo", racconta – in un’intervista raccolta da Stasinakis – Evita Kexavia Barela, pronipote di Zorba e nipote di Androniki, una dei sette figli di Zorba.
Evita oggi vive a Xanthi, nella Grecia del nord, ma ha sempre mantenuto contatti con i suoi parenti, dei quali ha raccolto i racconti e le memorie. "Anche se all’epoca abitavano tutti a Skopje, il bisnonno andava a casa solo ogni tanto a bere il caffè. A mangiare no: ‘Il mio stomaco è diverso dal vostro’, diceva. ‘Perché dovrebbe avere fame alla stessa ora?’".
Quando Zorba rimase vedovo con quella ciurma di figli, intorno al 1910, dopo la morte della moglie Elena, alcuni li portò con sé, nel suo peregrinare da un paese all’altro, altri li affidò a conoscenti, perché crescessero in una famiglia vera. "Mio padre aveva lo stesso nome di Zorba, Giorgio, così come mio figlio – continua Evita – entrambi hanno ereditato da lui l’amore per la vita, per la musica, il ballo, il movimento".
Quindi la famosa frase del film di Kakojanis "Zorba insegnami a ballare!" non era frutto di fantasia. Zorba suonava davvero il santouri, e amava finire le sue giornate danzando su una spiaggia o in una taverna con gli amici. Androniki è stata l’unica figlia che Zorba sistemò e lasciò per sempre a Kalamata, con un matrimonio combinato: gli altri figli andò a riprenderli dopo il 1920 quando si era stabilito definitivamente a Skopje e aveva ottenuto dall’allora regno serbo lo sfruttamento di cinque miniere.
È stato trovato il documento al ministero Miniere e Foreste jugoslavo: Giorgio Zorba era socio, fra gli altri, anche del figlio del premier serbo Nikola Pašić. Il luogo dove fu “sistemata” Androniki era strategico per la vita del padre: non lontano da Kalamata stava Kardamyli, proprio il luogo dove con Kazantzakis Giorgio tentò di sfruttare una vena sotterranea di carbone. Un’impresa andata male, ma che rispecchia quanto Kazantzakis narra in Zorba il greco, spostando semplicemente l’avventura mineraria dalla regione peloponessiaca del Mani, dove effettivamente avvenne, alla sua natale isola di Creta, dove è anche girato il film.
L’avventura mineraria
Già, le miniere. Ricordate la scena del film di Kakojannis, con la teleferica del carbone che si arrampicava sul monte? "Che bel disastro!" ride fra le lacrime quel burlone di Zorba, quando i pali rovinano giù come birilli, e piombano sul pope venuto a battezzare la "meraviglia della tecnica".
Era tutto vero: Zorba era un minatore anche nella vita. Ma più sorprendente è che suo partner in affari, ad un certo punto, fu lo stesso Nikos Kazatzakis (il padrone della miniera nel film, invece, è un ricco intellettuale americano, interpretato da Alan Bates).
La strana coppia si era conosciuta quando l’intellettuale Kazantzakis assunse Giorgio come capomastro per un giacimento di lignite. Ma come, uno scrittore padrone di una miniera? Tutta colpa della guerra, che in quell’anno di grazia 1915 infuriava alle porte della Grecia. Francia e Inghilterra premevano su re Costantino per entrare al loro fianco nel conflitto contro l’impero turco, dalle cui catene Atene si era liberata da meno di un secolo.
I Balcani erano in fiamme e Kazantzakis trentenne… si era rifugiato sul monte Athos, per sottrarsi all’arruolamento. Sì, proprio lui: che avrebbe riempito i suoi libri di superuomini di marca nietzschiana, dal Capitan Michelis al seguito dell’Odissea. Non era tagliato per la guerra. Ed eccolo fra i monaci, con la scusa di un periodo di studio. Lassù chi incontra? Ma Zorba, naturalmente: l’ateo mangiapreti che all’Athos era legato, però, da ragioni affettive. Suo padre Fotis, prima di morire, si era fatto monaco per il dolore di avere perso la moglie. E Giorgio adesso era lì, come taglialegna nei boschi dei monasteri, fra una spedizione e l’altra contro i bulgari che minacciavano la sua casa e la Grecia del nord, già allora tormentata regione di confine.
L’amicizia con Kazantzakis
Fra l’avventuriero e lo scrittore fu un colpo di fulmine. Galeotta una legge che esentava i lavoratori delle miniere dalla leva militare: fornire carbone all’esercito era, di per sé, un servizio alla patria. "Sai, ho saputo che da qualche parte nel sud si affitta un giacimento…", era giunta voce a Kazantzakis ed ad altri imboscati (compreso il poeta neoapollineo Angelo Sikelianos). E anche Zorba fu della partita.
Non all’imbarco del Pireo avvenne, quindi, il fatale incontro come da romanzo, ma in un più suggestivo monastero (che Kazantzakis volesse glissare sull’imbarazzante parentesi dell’Athos?). E la loro destinazione non fu Creta, ma un paesino cento chilometri più a nord: Kardamyli, nel sud del Peloponneso. L’avventura della miniera è narrata anche in un dimenticato libretto del 1960, firmato da uno strano editore-filologo-giornalista locale di Kalamata, Iannis Anapliotis, ricordato anche da Stasinakis nel suo saggio appena uscito in Grecia.
Appassionato di Kazantzakis, dopo la morte dello scrittore Anapliotis rintracciò gli operai che avevano lavorato alle sue dipendenze a Kardamyli, paesino a pochi chilometri da Kalamata. E risalì anche lui alla figlia maggiore di Zorba, Androniki, che era rimasta nel Peloponneso dopo aver fatto da cameriera, quarant’anni prima, a quello strano imprenditore che passava tutto il giorno a declamare poesie nelle grotte sul mare, mentre gli altri sgobbavano sottoterra.
Tra questi altri c’era Zorba "che aveva passato l’infanzia ai piedi dell’Olimpo", scrive Anapliotis: "Suo padre era padrone di campi e greggi a Katafyghi, nella Pieria abitata dalle Muse. Salendo sull’Athos aveva lasciato le pecore al figlio, ma il colera le uccise tutte e Giorgio, adolescente, si ritrovò squattrinato per le vie del mondo. Fu così che si ritrovò a lavorare per la prima volta in una miniera, nella penisola Calcidica, di proprietà di una compagnia mineraria francese".
La carriera di donnaiolo
E si innamorò della figlia del gestore greco, Iannis Calcunis: la bellissima Elena, di appena 15 anni. Suo padre non voleva che sposasse uno spiantato come Zorba. Ma lei era già incinta: scapparono insieme e si sposarono di nascosto. Nacquero due gemelli: ma sopravvisse solo uno dei due, Andrea. Il primo di sette figli.
La carriera di donnaiolo specializzato in vedove, "in ognuna delle quali, anche la più brutta, abbracciava lei, Afrodite immortale" come scrive Kazantzakis in "Zorba il greco", è cominciata dopo la morte di Elena, verso il 1910. "Ma Kazantzakis – precisa Stasinakis spulciando fra libri, interviste e articoli per raccogliere il suo saggio dedicato all’amicizia fra lo scrittore e il ‘filosofo analfabeta’- sbaglia a dire che Giorgio si risposò con una certa Liuba, alla fine della vita. Gli piacevano le donne, è vero, ma moglie legittima ebbe solo Elena: altrimenti l’avremmo saputo, a Skopje lo conoscevano tutti".
Lo conoscevano talmente bene che, quando entrava al centralissimo ristorante Marger, accorrevano a frotte. "Urlava: offro io! – racconta ancora Stasinakis, rievocando i ricordi dei parenti che vivevano a Skopje – era altissimo, con gli occhiali a pince nez e l’eterno papillon al collo. Passava tutta la notte a suonare e ballare in compagnia. Spendeva così tutto quello che guadagnava".
E madame Ortense, la sciantosa in disarmo che nel romanzo scaldava le notti di Zorba, dopo le fatiche della miniera? E la bella vedova interpretata da Irene Papas e sgozzata dall’intero villaggio in una vendetta tribale? Di vero, nell’eremo di Kardamyli, c’era solo che l’amante di un maturo ingegnere minerario era stata sorpresa a letto con il figlio di lui. E fece una brutta fine. Ma il personaggio di Madame Ortense, un tempo amata dai quattro ammiragli delle flotte straniere di stanza a Creta, riassumeva nelle sue carni molli tutta la storia recente dell’isola. E permetteva a Kazantzakis, cretese, di immortalare la sua terra aspra e luminosa nel suo libro più bello.
Un cavallo che si impenna
Il buen ritiro di Kardamyli durò poco. Kazantzakis cominciò a soffrire di una malattia nervosa che lo avrebbe perseguitato a lungo: i suoi amici di Atene lo spedirono a curarsi in Svizzera e anche la miniera chiuse. Ma Zorba, per lui, era ormai diventato un amico insostituibile. Di più: un guru, "l’anima più grande e libera che io abbia mai conosciuto", una forza della natura che assaporava "ogni giorno come fosse l’ultimo" e davanti al quale lui, asfittico topo di biblioteca, si vergognava di non osare vivere fino in fondo.
Così due anni dopo, nel 1919, gli scrisse: "Caro Giorgio, il governo mi ha offerto di organizzare il rimpatrio dei profughi greci dal Caucaso che scappano dalla rivoluzione. Ho risposto che vado solo se vieni anche tu".
Zorba, che nel romanzo sognava di "fare il giro del mondo, e mentre lo diceva gli brillavano negli occhi mille donne da scoprire" non si fece pregare. Distribuì la prole fra gli amici e andò per un anno a Novosibirsk e a Odessa: tornò con tre ragazze russe. Nel frattempo, sua figlia Tasia si era sposata col fratello della prima moglie di Kazantzakis. Poi i due amici si divisero per sempre.
Finché un giorno di oltre vent’anni dopo, quando l’Europa era di nuovo in fiamme, allo scrittore arrivò un telegramma da Skopje: "Le ultime parole di Zorba sono state per voi – gli comunicava il maestro elementare del paese – poi si è alzato dal letto ed è andato vicino alla finestra. Ha guardato i monti e, di colpo, si è messo a ridere, a impennarsi e correre intorno come un cavallo. La morte l’ha trovato così, in piedi". Era uscito dal letto quando ha capito di essere alle ultime. Forse, per danzare anche la fine.