La Vecchia Fiera
Staro Sajmište, un lager nel centro di Belgrado. Tra il 1941 e il 1944 vi furono internate migliaia di persone. Oggi è un luogo difficilmente visibile e sconosciuto a buona parte dei belgradesi. B92 se ne è occupata con un documentario. Ne abbiamo parlato col regista
Niente filo spinato, niente torrette, niente camini, niente "Arbeit macht frei". Nel lager di Belgrado non v’è nulla di ciò che contraddistingue oggi Auschwitz o Dachau, nonostante sia situato praticamente nel centro della capitale serba. A dire il vero non si trovano indicazioni su di esso nemmeno nelle guide della città, che i turisti generalmente lasciano senza sapere nulla sulla sua esistenza. Non sono comunque gli unici, spesso anche gli stessi cittadini sono all’oscuro o hanno solamente una vaga idea al riguardo.
Tuttavia Staro Sajmište (la Vecchia Fiera) fu un lager vero e proprio dove tra il 1941 e il 1944 furono internate più di 40.000 (questo il dato ufficiale della Jugoslavia socialista) persone tra ebrei, rom, serbi e oppositori politici di ogni nazionalità. Dopo la sua chiusura le tormentate dinamiche della memoria del Novecento balcanico hanno finito per determinare un sostanziale oblio collettivo rispetto al quale solamente di recente si è iniziato a ragionare.
Il campo venne aperto nel 1941 dalle forze d’occupazione naziste in un’area allora appena raggiunta dallo sviluppo cittadino, sulla riva della Sava, subito oltre il ponte Branko che oggi porta a Novi Beograd. Lo spazio era stato fino ad allora utilizzato per ospitare i padiglioni della fiera campionaria internazionale del Regno di Jugoslavia, inaugurata nel 1937.
Le SS di Himmler ne fecero uno dei primi Judenlager in Europa, con l’intenzione di risolvere efficacemente il "problema ebraico" in Serbia. Quando nel 1942 a Berlino si cominciò ad articolare l’idea di soluzione finale, al campo arrivò uno dei primi camion attrezzati per la "gassazione". Staro Sajmište fu un esperimento ben riuscito della politica nazista. Prima dell’estate la quasi totalità della comunità ebraica serba era stata sterminata, e Belgrado poté essere dichiarata città "Judenfrei". In quei mesi morì anche la ventenne belgradese Hilda Dajč, le cui lettere dal campo rappresentano una preziosa testimonianza da pochi anni disponibile anche per i lettori italiani (DEP – Deportate esuli profughe, Rivista telematica di studi sulla memoria femminile).
Nell’aprile del ’42 Staro Sajmište venne quindi convertito in Anhaltelager e divenne luogo di reclusione per avversari politici, partigiani ed altri oppositori provenienti da tutta la Jugoslavia. Grazie alla posizione centrale funzionò come centro di smistamento verso la Germania e il resto dell’Europa centro-orientale, rimanendo in attività fino a qualche mese prima della liberazione della città, nell’ottobre del 1944.
Nella Belgrado odierna il sito è difficilmente notabile. L’insieme degli edifici dove erano rinchiusi gli internati somiglia a molti altri quartieri cittadini degradati, gli stabili sono stati infatti occupati da rifugiati delle guerre degli anni ’90, famiglie rom e abusivi di ogni tipo. Nel campo oggi si incontrano normali scene di vita domestica, tra panni stesi al sole e bambini che giocano nei cortili. L’unico segno del tragico passato è rappresentato, in un piccolo giardino abbandonato a se stesso tra le case, da una rovinata lapide commemorativa con la sintetica incisione: "Qui la Gestapo tedesca ha fondato nel 1941 il campo di Sajmište nel quale, con l’aiuto dei traditori locali, ha torturato e ucciso circa 40.000 persone provenienti da tutto il paese".
Negli anni di Tito, d’altra parte, il luogo non godette di particolari attenzioni, se non nel contesto della commemorazione della Lotta Popolare di Liberazione. In generale i crimini nazisti, l’Olocausto e le altre persecuzioni, nei paesi socialisti furono sempre ricordati come indistinti aspetti della repressione fascista. Solamente nel 1987 Staro Sajmište venne riconosciuto come "eredità culturale della città di Belgrado". Tuttavia, seguendo l’evoluzione del quadro politico degli anni ’90, divenne semplicemente un sito secondario nella commemorazione delle sofferenze dei serbi a Jasenovac e nello Stato Indipendente di Croazia.
Proprio in quel periodo, nel 1995, fu costruito il monumento bronzeo che è oggi visibile sulla riva occidentale della Sava. Lo scorso 22 aprile, come ogni anno, è stata deposta in quel luogo ormai in decadenza una corona di fiori per la Giornata nazionale delle vittime del genocidio della Seconda guerra mondiale. Nell’occasione il ministro del Lavoro e della Politica sociale Rasim Ljajić non ha mancato di sottolineare l’importanza della memoria e del ricordo delle vittime perché in futuro non vi sia più spazio per alcun tipo di politica dell’odio e della violenza.
Nonostante ciò Staro Sajmište rimane un ampio vuoto di memoria nel centro di Belgrado. Solamente verso la fine del 2007 il silenzio pubblico venne momentaneamente interrotto quando circolò la notizia che la band inglese dei Kosheen avrebbe tenuto un concerto al Klub Posejdon, locale ricavato dal vecchio ospedale del Lager. La vicenda venne ripresa anche da alcuni media internazionali e l’evento fu infine annullato per le proteste di alcune importanti istituzioni ebraiche come il Centro Wiesenthal.
Nell’ultimo anno sono emerse alcune proposte relative alla riqualificazione di quella parte della città, oltre ai progetti di tipo commerciale si parla anche di aprire un museo della Tolleranza o dell’Olocausto. I problemi sono comunque molti, a partire da quelli di carattere economico. La televisione commerciale B92, intanto, si è impegnata in questo senso producendo un interessante film documentario dal titolo "Sajmište. Istorija jednog logora" (Staro Sajmište. Storia di un lager). Il film, trasmesso in prima serata il 24 e il 25 gennaio scorso, è stato realizzato dal regista Marko Popović, sulla base della sceneggiatura di Boban Jevtić e con la consulenza dello storico Milan Koljanin. La vicenda è narrata in maniera molto dinamica, alternando testimonianze di sopravvissuti, di cui è stata finalmente recuperata la memoria, materiale audiovisivo d’archivio e passaggi di fiction. Popović spiega ad Osservatorio Balcani e Caucaso la propria esperienza ed il proprio punto di vista.
Come ha cominciato ad interessarsi a questa questione?
Mi sono reso conto di non sapere nulla di Sajmište, quando eravamo bambini a scuola ci hanno parlato di ogni singolo campo di concentramento in Jugoslavia tranne di Sajmište. Non v’erano film, libri, studi su di esso, per qualche motivo non se ne discuteva. Durante la lavorazione del film ho cercato di capire il perché ma non ho trovato risposte esaustive. Alcuni sostengono non si volesse affrontare il problema della consegna degli ebrei ai nazisti da parte della Belgrado collaborazionista, altri che il motivo fosse la presenza di molti cetnici tra i detenuti. Recentemente mi è stato perfino detto che dopo la liberazione i partigiani utilizzarono il campo per i tedeschi della Vojvodina, ma non ho trovato nessuna prova al riguardo.
Come si spiega il fatto che a Staro Sajmište nulla sia ancora cambiato?
La mia impressione è che la società serba continui ad evitare ogni discussione e riflessione seria sul proprio passato, semplicemente non ci assumiamo questa responsabilità verso noi stessi. Non parlo delle discussioni al bar, ma del livello intellettuale, scientifico e istituzionale. Negli ultimi 15-20 anni non vi sono stati miglioramenti in questo senso, la Storia è rimasta solamente un argomento di diatriba politica. In sostanza non discutiamo del passato, non discutiamo del presente e raramente lo facciamo sul futuro, per questo motivo la nostra società è così statica. Viviamo in una condizione di disordine dovuta a queste mancanze e credo che la vicenda di Sajmište sia in qualche modo paradigmatica di tutto questo.
Il lavoro è stato quindi pensato per contribuire a superare questa staticità?
L’intento del documentario è stato in primo luogo strettamente educativo. Era necessario cominciare a narrare quella vicenda e porre il primo mattone per costruire le basi di un’ampia discussione. Serve infatti una soluzione molto ben pensata per il sito di Sajmište. Non sono d’accordo con il superficiale moralismo che è stato fatto in alcuni casi, dubito sia davvero utile riconvertire da un giorno all’altro l’intero sito in un memoriale dove probabilmente non andrebbe nessuno. In quel posto la vita è andata avanti per altri cinquant’anni ed oggi è necessario studiare un compromesso che preservi quell’importante memoria ma che tenga anche conto della situazione odierna.
Oggi, dopo alcuni mesi dalla sua trasmissione, come valuta l’impatto del film?
La scelta di trasmettere sabato e domenica sera non è stata fortunata e forse la promozione è stata insufficiente, a mio parere non abbiamo raggiunto la grande fetta di pubblico all’oscuro della questione. Il documentario è comunque efficace e potrà essere ancora utilizzato. Rimane il fatto che per il successo di un’iniziativa come quella di B92 mancano le condizioni strutturali, come gli spazi di dibattito costantemente occupati dalle solite "grandi" questioni nazionali. Un esempio: qualche giorno dopo la trasmissione del film una ragazza mi ha riconosciuto e ha voluto pormi una domanda, ha voluto sapere se con l’ultima frase del film – con la quale si sottolinea l’importanza di prendere coscienza per evitare il ripetersi di certe tragedie – intendevamo fare riferimento ai crimini di guerra serbi in Bosnia. Dopo aver visto i 90 minuti del film questo era tutto ciò che le interessava.