La Turchia e il possibile intervento in Iraq

Dopo la guerra civile nel suo sud-est e l’intervento militare in Siria, può permettersi la Turchia un’apertura di un terzo fronte? Un’analisi

08/11/2016, Dimitri Bettoni -

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Da giorni l’esercito turco sta ammassando truppe nel distretto di Silopi, al confine turco-iracheno, nel cuore del sudest a maggioranza curda sconvolto da mesi di scontri violenti.

La Turchia è già coinvolta militarmente su due fronti: quello siriano e quello interno. Nel primo scenario l’esercito turco è presente sul campo attraverso l’operazione Scudo dell’Eufrate che, dando sostegno ad una coalizione di gruppi ribelli siriani, cerca di sottrarre terreno all’ISIS e, contemporaneamente, impedire la riunificazione dei cantoni di Afrin e Kobane da parte delle milizie SDF, di cui le forze curde YPG rappresentano la maggioranza e che Ankara ritiene organizzazione t[]istica affiliata al PKK.

Il secondo teatro di scontri è il sudest del paese, dove l’interrompersi del processo di pace, prima cercato e poi abbandonato dal governo, ha dato il via a più di un anno di violenze che hanno causato migliaia di morti, centinaia di migliaia di sfollati ed una situazione umanitaria drammatica.

Terzo scenario?

A questi si potrebbe aggiungere presto un terzo scenario, quello iracheno, dove Ankara cerca con insistenza un maggiore coinvolgimento militare nell’operazione su Mosul. Il governo appare convinto che una presenza turca sia indispensabile per tutelare sia gli interessi turchi, sia quelli della maggioranza sunnita locale. Una linea strategica che non coincide tuttavia sino ad ora con azioni concertate con la comunità internazionale. Piuttosto va nella direzione di un’indipendenza d’azione rivendicata dal governo come una riconquistata libertà dalle ingerenze internazionali, leitmotiv assai ricorrente nella narrativa turca.

Ogni potere in questa regione dell’Iraq settentrionale persegue una propria agenda: i curdi legati alla famiglia Barzani hanno realizzato un’autonomia sostanziale con l’istituzione del governo regionale del kurdistan (KRG); i curdi del PKK, politicamente molto distanti dai precedenti, sognano la creazione di un nuovo cantone a Sinjar dove proseguire l’esperimento politico del confederalismo democratico avviato nella Rojava; il governo centrale di Baghdad non intende fare concessioni ad una disintegrazione del paese; le milizie sciite non rinunceranno ad avere un ruolo nella liberazione della città a maggioranza sunnita; Stati Uniti, Russia ed Iran i grandi attori internazionali già in campo, perseguono le proprie agende.

A, B, C

Erdoğan in una recente dichiarazione ha prospettato l’esistenza per Mosul di un piano A, di un piano B e di un piano C.

Il piano A consiste nel ricevere una richiesta formale di partecipazione alle operazioni da parte della coalizione a guida statunitense, piano finora non coronato dal successo. Gli americani, per gestire una coalizione assai eterogenea, hanno vincolato ogni partecipazione ad un via libera da parte di Baghdad, che è oggi guidata da un governo di ispirazione sciita ed è fermamente contraria ad ogni partecipazione turca che considererebbe un’ingerenza in affari nazionali.

Il piano B è rappresentato dall”invito formale alle forze turche da parte di una fazione rilevante sul territorio, in particolare i curdi iracheni di Barzani, con cui Ankara ha intrecciato negli anni buone relazioni. Anche questo piano pare per ora disatteso: i peshmerga iracheni devono gestire un complicato equilibrio di rapporti e sono per ora allineati alla posizione statunitense e chiedono alla Turchia di intervenire in Iraq solo dopo aver avuto il benestare del governo centrale iracheno. Un comandante peshmerga, il generale Eskender Gerdi, ha dichiarato all’agenzia stampa Rudaw che le sue forze non hanno mai chiesto assistenza all’artiglieria turca di stanza a Bashiqa nel corso delle operazioni a Mosul.

Ecco perché il governo turco parla anche di un piano C, un’operazione in territorio iracheno speculare a quanto fatto in Siria con Scudo dell’Eufrate con l’obiettivo di creare un’area cuscinetto. Alcuni quotidiani vicini al governo hanno dato ampio spazio al trasferimento di truppe verso Silopi. Un’azione unilaterale di questo tipo rischia di destabilizzare totalmente le alleanze in chiave anti IS e trascinare la Turchia in un conflitto diretto con l’Iraq.

Sguardo verso il futuro

L’insistenza di Ankara appare dettata da diverse ragioni. La prima è preparare il terreno, in un futuro percepito come non troppo distante, per poter reclamare per sé un posto al tavolo delle trattative post belliche, in un momento storico in cui i confini e gli equilibri della regione sembrano in procinto di essere ridisegnati.

La seconda ragione è impedire ogni realizzazione concreta di progetti dei movimenti autonomisti o indipendentisti curdi con ideologia affine al PKK in territori confinanti, progetti percepiti come pericolosi per l’integrità territoriale della nazione.

La terza ragione è di tipo economico ed in particolare energetico, poiché nell’area si decideranno anche i percorsi di oleodotti e gasdotti provenienti dal nord iracheno e siriano e diretti verso l’Europa, su cui la Turchia intende esercitare un monopolio geografico.

Infine, la quarta ragione è rinfocolare i sentimenti nazionalisti dell’opinione pubblica turca in previsione della trasformazione della repubblica da parlamentare a presidenziale, attraverso un referendum che il governo vorrebbe svolgere nella prossima primavera.

Arto fantasma

La Turchia soffre, nei confronti di Mosul, una sorta di sindrome dell’arto fantasma. Un tempo parte dell’Impero Ottomano, anche la giovane Repubblica aveva rivendicato per sé i vilayet (governatorati) di Mosul, Kirkuk e Suleymaniye attraverso la voce del suo fondatore stesso, Mustafa Kemal Atatürk.

Questa rivendicazione venne frustrata dal Trattato di Confine del 1926, sponsorizzato dalla Lega delle Nazioni, quando la Turchia rinunciò ufficialmente ad ogni pretesa legale sulla regione in cambio di una partecipazione dei proventi energetici per 25 anni.

I recenti proclami di alti esponenti della politica turca fanno invece riferimento soprattutto ai trattati di Sevrès e Losanna e non solo rivendicano un diritto storico nei confronti dell’area, ma solleticano lo spirito irredentista nazionale turco che mai ha accettato il trattato del ’26, percepito come imposto dalla Gran Bretagna attraverso la sua enorme influenza sulla Lega.

L’attivismo militare turco oltre questo confine non è inoltre un fatto esclusivo di questi giorni, ma ha anzi caratterizzato gli anni ’90 ed i duri scontri con il PKK. Allora il governo turco chiese ed ottenne da Saddam il via libera ad operare nel nord iracheno e, successivamente, installare basi d’azione avanzata nel tentativo di arginare le infiltrazioni degli indipendentisti curdi. Le basi turche nel nord Iraq, giustificate al tempo come forza d’equilibrio per terminare il conflitto interno tra curdi iracheni, sono state a lungo utilizzate come punto d’appoggio per azioni avanzate contro il PKK, anche con l’aiuto dei curdi iracheni legati alla famiglia Barzani. Non solo Ankara intende continuare a mantenere questi avamposti militari anche dopo che la guerra contro l’IS sarà conclusa, ma è probabile che sfrutti un operazione di larga scala sul territorio per cercare di sradicare ogni presenza del PKK nella regione.

L’area attorno a Mosul è ricca di petrolio e gas naturale; gli interessi energetici, pur non determinando da soli le dinamiche locali, incidono profondamente nelle decisioni delle fazioni in gioco. I curdi iracheni del KRG hanno da tempo il controllo di fatto della regione, un’autonomia accettata a denti stretti da Baghdad. Questo controllo si estende ovviamente anche sui giacimenti di risorse naturali, determinanti anche nella scelta da parte di Barzani sul dove e quando combattere il sedicente Stato Islamico.

In futuro queste risorse dovranno avere un accesso completo e legale al mercato e finora lo sbocco più logico e semplice è stata la Turchia, che così monopolizza il flusso di risorse dalla regione verso l’Europa. Questo monopolio è messo in discussione sia dagli interessi iraniani, che puntano a dirottare verso di sé il flusso, sia dalla creazione di un corridoio curdo nel nord della Siria in direzione del Mediterraneo e la regione di Latakia dove la Russia, attore energetico mondiale, ha consolidato la propria presenza militare con nuove basi.

L’operazione turca Scudo dell’Eufrate ha per ora bloccato la realizzazione di una simile prospettiva e consentito alla Turchia di preservare l’importanza dei condotti che dal territorio iracheno entrano in Turchia nei pressi di Silopi, dove Ankara sta raccogliendo le sue forze.

Alcuni analisti fanno comunque notare come un movimento di truppe, per quanto consistente, non possa essere da solo sinonimo di volontà di conflitto. A seguito del tentato golpe di luglio sono infatti molti i reparti dell’esercito allontanati dalle grandi città, in particolare da Ankara, verso il sud del paese, parte delle misure che il governo ha adottato per impedire un nuovo tentativo di colpo di stato.

Inoltre arresti, sospensioni e licenziamenti hanno inoltre colpito duramente i ranghi dell’esercito, tanto che si nutrono dubbi sulla capacità operativa e di gestire un nuovo scenario da parte dei corpi armati turchi, già coinvolti in Siria e nelle operazioni nel sudest. Il conflitto interno con i movimenti curdi potrebbe poi ulteriormente aggravarsi e sfociare in una rivolta aperta, in particolare in seguito ai recenti arresti dei parlamentari HDP. Ed è per questo che un ulteriore coinvolgimento della Turchia nella guerra irachena potrebbe però rivelarsi una mossa disastrosa.

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