La Turchia dopo il voto
Le elezioni del 24 giugno hanno dimostrato definitivamente che non basta un regolare svolgimento del voto a definire democratica la legittimazione del potere. Un commento
Con le elezioni di domenica scorsa la Turchia ha concluso il suo ciclo di trasformazione non solo da repubblica parlamentare a presidenziale, ma soprattutto da paese democratico ad autoritario.
Certamente il presidente Recep Tayyip Erdoğan gode di un ampio consenso popolare che l’ha portato ad essere il più votato tra i candidati alle elezioni presidenziali. Certamente il suo partito AKP resta il più votato, conquistando la maggioranza parlamentare grazie ad un sodalizio politico con il partito nazionalista MHP. Eppure tutto ciò non è sinonimo di democrazia.
Il paradosso turco sta nella definizione di nazione democratica per un paese nato sotto un regime monopartitico e che, per i decenni successivi all’introduzione delle elezioni, ha tenuto forzosamente ai margini della scena politica e civile una parte consistente e variegata della sua popolazione: religiosa e conservatrice, curda, alevi, armena… Gli effetti di questa marginalizzazione sono stati a lungo studiati e tra questi si contano: la radicata diffidenza tra i blocchi sociali e la loro difficoltà di comunicazione. Sulla scena politica ciò si traduce nella tendenza del vittorioso di turno al monopolio delle istituzioni statali e civili, occupando ogni spazio dal vertice dello stato fino alle cariche amministrative locali.
Non va dimenticato che il paese ha vissuto il suo periodo più autenticamente democratico proprio nei primi anni dell’era riformista dell’AKP. Bisogna allora fuggire dalla tentazione di pensare che l’odierna deriva autoritaria del conservatorismo religioso turco fosse inevitabile e che quindi la marginalizzazione di ieri fosse necessaria. È invece mancata una ricerca del dialogo e del compromesso che marginalizzi non interi blocchi ideologici, ma coloro che rigettano l’idea di democrazia come spazio di dignitosa convivenza delle diversità.
Il partito repubblicano CHP in questa campagna elettorale guidata da Muharrem İnce ha vissuto uno dei momenti più brillanti degli ultimi anni e ha superato, almeno nelle presidenziali, quella barriera psicologica del 30% che da tempo non varcava. Una barriera psicologica nata da 70 anni di monopolio repubblicano della scena politica e che ancora oggi è capace di generare diffidenza e tenere lontano gli elettori dall’alternativa ad Erdoğan. Anche perché il CHP dal 2002 non ha più avuto la possibilità del banco di prova e di dimostrarsi cambiato rispetto agli autoritarismi di un tempo, ad eccezione delle amministrazioni di alcune città e distretti.
Finché nella testa degli elettori il CHP di oggi resta il CHP di ieri (nel bene come nel male), questo sarà sempre bollato, nonostante i tempi e le condizioni siano cambiati, un partito di élite che controlla il potere attraverso l’esercito e non un partito di massa che costruisce democraticamente il proprio consenso. Non è un caso che anche in questa campagna, Erdoğan abbia fatto risuonare il messaggio “Attenti al CHP”, evocando timori non lontani nella memoria della gente.
A collegare la Turchia di ieri con la Yeni Turkiye di oggi, inaugurata ufficialmente con queste elezioni, c’è un altro filo conduttore. Muharrem İnce, nel suo discorso post elettorale, ha definito la Turchia con cui avremo a che fare d’ora in poi come il “regime di un uomo solo”, mentre alle sue spalle campeggiava l’immagine di Mustafa Kemal Atatürk. Il filo è quello che conduce dal fondatore dello stato turco a Recep Tayyip Erdoğan, dallo stato monopartitico del primo al partito-stato del secondo. È il culto del leader forte, tramandato di generazione in generazione anche attraverso il sistema scolastico, che solletica le paure e stuzzica la tentazione di affidare ogni cosa, anche per una certa pigrizia popolare, a colui che meglio sa come guidare il paese. La tradizionale riverenza kemalista nei confronti del Padre dei Turchi (Atatürk), spesso dai toni d’idolatria, trova la sua immagine riflessa nel culto del Reis (Erdoğan), che non a caso si è affermato sulla scena politica nella doppia veste di rivale ed erede di Kemal Mustafa.
Fatte queste premesse e tornando ad oggi, dopo queste ultime elezioni la Turchia si trova infine ad indossare quella veste autoritaria che Erdoğan ha cucito su misura per sé e per il suo partito.
La repubblica presidenziale turca cristallizza ancor di più quella monopolizzazione antidemocratica del potere cui si è accennato. Rende ancora più difficile ripristinare il percorso democratico che pure una volta era in corso, anche solo semplicemente perché sarebbe necessario recuperare l’assetto di pesi e contrappesi che rendono uno stato democratico, un processo che rischia di venire percepito (e attivamente dipinto da chi detiene il potere) come un ritorno al passato.
Le elezioni del 24 giugno hanno poi dimostrato definitivamente come non basti un regolare svolgimento del voto a definire democratica la legittimazione del potere. Nella giornata di domenica abbiamo assistito ad episodi antidemocratici e violenti: l’espulsione e l’arresto di osservatori locali e internazionali, la falsificazione di schede elettorali, lo scoppio di scontri armati nei pressi dei seggi.
Il giorno successivo si è concluso che sì, gli episodi di violenza e di brogli sono stati gravi, ma non tali da intaccare significativamente il risultato uscito dalle urne. Governo, opposizione, osservatori Osce, tutti concordi. Ma l’Osce, nella sua conferenza di Ankara, ha anche denunciato il clima sbilanciato a favore del governo di una campagna elettorale fatta di intimidazioni, arresti, occupazione degli spazi pubblici, occupazione dei media, manipolazione delle norme elettorali, dei seggi e delle circoscrizioni, utilizzo delle risorse pubbliche a favore del partito di governo. Tutto questo ha favorito Erdoğan ed impedisce di definire queste elezioni come eque e libere.
Non serviva il timbro Osce per questo, la deriva autoritaria era in corso da anni e giornalisti e studiosi ne hanno fatto una cronaca pressoché quotidiana. Le istituzioni internazionali devono porsi criticamente dinanzi al loro assistere passivamente al declino democratico di un paese.
Ma queste elezioni dimostrano anche che c’è una società turca viva e plurale a cui non si può voltare le spalle. Erdoğan ha raggiunto, mentre controlla la totalità dei media del paese e impone un regime di polizia, soltanto il 52% delle preferenze, non certo numeri da plebiscito. Significa che ripristinare media liberi ed diritti civili e politici della cittadinanza turca diventa oggi più che mai un imperativo per tutti, anche se ora sarà un compito ancora più arduo.