La Turchia dopo i referendum sulla Costituzione europea

Le conseguenze del no di francesi e olandesi sul cammino europeo della Turchia. L’ipotesi di "partenariato privilegiato" alternativa all’adesione, ripresa in Germania dopo la sconfitta di Schroeder. Compiacimento negli ambienti conservatori turchi per un possibile allontanamento dall’Europa

14/06/2005, Fabio Salomoni - Ankara

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"Non à la Constitution, non à la Turquie". I manifesti della campagna referendaria francese, e di quella olandese, campeggiavano sulle prime pagine dei giornali turchi già molti giorni prima dei referendum. Indizio della preoccupazione con cui dalla Turchia si guardava al doppio appuntamento europeo che, con lo scorrere dei giorni, sembrava sempre più assumere le caratteristiche di una consultazione sull’adesione turca piuttosto che sul progetto di Costituzione europea. Che in Europa si stesse rafforzando la tendenza ad utilizzare le paure legate alla candidatura turca, serpeggianti tra vasti strati degli elettorati nazionali, per fini di politica interna era apparso evidente fin dalla recente sconfitta della Spd di Schroeder nelle elezioni locali tedesche, ai danni della Cdu. Sull’onda di questa vittoria il segretario della Cdu, Angela Merkel, scelta come candidato della coalizione conservatrice, ha dato il via ad una campagna elettorale anticipata nei confronti del cancelliere in carica, agitando lo spauracchio turco: "Se vinceremo vi garantiremo di tenere fuori dall’Europa la Turchia". La Merkel nell’occasione ha rispolverato il suo antico cavallo di battaglia, l’offerta alla Turchia, invece della piena adesione, di un "partenariato privilegiato".

All’indomani dell’annuncio degli scontati risultati francesi ed olandesi il governo di Ankara ha mantenuto un atteggiamento sereno, improntato all’ottimismo, fondato sulla convinzione che l’esito negativo dei referendum non inciderà sul cammino europeo della Turchia. Il Ministro degli Esteri Gul ha dichiarato di non essere d’accordo con chi ritiene che i risultati referendari influenzeranno negativamente il cammino europeo del paese. Egli ha anche ricordato come al vertice del 17 dicembre scorso avesse invitato il Ministro degli Esteri francese Barnier a cominciare al più presto le procedure di adesione "altrimenti se si dovesse ritardare avrete dei problemi". Dello stesso tono le parole del Presidente Erdogan che si è detto convinto che "il no dei francesi non costituirà un ostacolo per la Turchia". Il ministro Babacan, trentasettenne astro nascente del governo Erdogan, da poche settimane nominato Negoziatore per la Turchia durante la fase di adesione, ha dichiarato che "i risultati erano attesi e non si è certo trattato di una sorpresa"

Anche da parte dell’Unione sono arrivate rassicurazioni che non vi saranno modifiche al calendario previsto per la Turchia, che ha come prima importante scadenza la data del 3 ottobre.

L’Inghilterra, che succederà al Lussemburgo alla Presidenza dell’Unione, dal canto suo ha fatto sapere per bocca del ministro Straw e dell’ambasciatore ad Ankara che" obiettivo primario della presidenza inglese sarà quello di garantire alla Turchia l’obiettivo di ottobre".

A dieci giorni dai referendum sono però tutt’altro che esaurite le analisi e le interpretazioni della stampa e dei commentatori turchi. Consenso unanime sul fatto che i referendum abbiano rappresentato un duro colpo, divenuto poi "mortale" dopo la decisione di Blair di rinviare la consultazione inglese, a ciò che è stata finora l’Unione Europea. Nell’analisi delle ragioni che hanno determinato il voto viene sottolineato il ruolo giocato dalla ripresa delle rivendicazioni particolaristiche nazionali e il peso determinante avuto dall’insoddisfazione generata dalle modalità con cui è stato gestito il processo di allargamento. I commentatori della sinistra hanno poi sottolineato come un ruolo importante ha avuto lo spettro della disoccupazione, il timore di larghe fasce della popolazione di dover rinunciare ad un modello di stato sociale acquisito e la protesta verso il carattere sempre più marcatamente neoliberista che ha assunto il progetto europeo. Paradossalmente quindi, secondo molti, il no uscito dai referendum potrebbe costituire l’occasione per discutere di un nuovo modello di Europa, "far vivere l’UE è compito della sinistra".

Più controversi i giudizi sulle conseguenze che avrà per la Turchia lo smacco referendario. Se non mancano gli ottimisti secondo cui la fine di un progetto forte di integrazione europea in fondo potrebbe in qualche modo facilitare l’adesione turca, i più non riescono a mascherare una forte preoccupazione per la possibilità che "il conto del rifiuto franco-olandese sarà presto presentato alla Turchia"; il tentativo di ridare slancio agli appannati entusiasmi europei potrebbe passare quindi per il sacrificio della Turchia. E’ in questo senso che viene letta negli ultimi giorni la riproposta da parte di ambienti francesi di soluzioni alternative all’adesione, uno statuto speciale ad esempio, una proposta che del resto era stata avanzata per la prima volta negli anni ’80 proprio da un francese, Jacques Delors, divenuto in seguito un sostenitore della candidatura turca. Una proposta in sintonia con quella della Merkel in Germania, la quale all’indomani dei risultati referendari ha avuto modo di ribadire che" L’esito del referendum ha confermato le nostre tesi sulla Turchia".

Che, con il passare dei giorni, il riaffacciarsi di ipotesi alternative all’adesione abbia cominciato a preoccupare Ankara, è stato confermato anche dalle dichiarazioni che Erdogan ha rilasciato alla "Bild am Sontag" il 5 giugno, in occasione di una sua visita a Berlino. Dopo aver ricordato che "l’obbiettivo della Turchia rimane la piena adesione" non ha esitato a definire "i riferimenti ad un partenariato privilegiato che hanno ripreso vigore in Germania, un’autentica minaccia per le relazioni tra la Turchia e l’UE".

L’ultimo elemento che merita di essere segnalato è come l’ampio fronte di "turco-scettici" che in Europa si raccoglie dietro la parola d’ordine dello statuto speciale, abbia trovato interlocutori attenti anche in Turchia, un’inattesa comunanza di interessi tra gli ambienti conservatori delle due sponde del Mediterraneo. Sono questi ambienti che in Turchia hanno evidenziato all’indomani dei risultati dei referendum un malcelato compiacimento per il duro colpo subito dall’Unione Europea e che da qualche tempo fanno trapelare messaggi di gradimento verso una soluzione diversa da quella dell’adesione, lo statuto speciale appunto. Ampiamente e uniformemente distribuiti sull’intero fronte politico del paese, essi si nutrono soprattutto di quelle nostalgie isolazioniste che, unite a riferimenti all’ideologia terzomondista, hanno costituito una componente importante della cultura politica della Turchia repubblicana ed anche tradiscono una certa insofferenza verso "l’eccesso" di democrazia che si respira nel paese. Da questo punto di vista la soluzione dello statuto speciale, che limiti le relazioni con l’UE fondamentalmente alla cooperazione militare ed economica e che contenga l’intrusione negli affari interni del paese, rappresenterebbe una sorta di antidoto in grado di neutralizzare i "rischi" connessi al processo di democratizzazione in corso ed all’insieme di questioni delicate (Cipro, diritti umani, minoranze) che esso ha contribuito a ricollocare al centro della scena politica.

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