La trappola turca
Ancora fermi a Van e di Mussa Khan nessuna notizia. Prosegue il viaggio tra i muhajirin afgani intrappolati nella città turca, nel limbo dell’asilo temporaneo in attesa di proseguire il viaggio, magari anche illegalmente, attraverso Grecia e Italia
La Via Lattea è il tetto argenteo dell’altopiano insonne: nel cuore della notte i vicoli di Van continuano a formicolare di piccoli traffici discreti, mentre in alto, nel cielo pallido e distante, la luce degli astri continua freddamente a pulsare.
Abbandono l’idea della spedizione a Yuksekova, complicata e con scarsa possibilità di riuscita, e decido di concentrarmi sulle ricerche in città. Trascorro la domenica in strada, inseguendo insieme a Shahin suggestioni, immagini, qualsiasi indizio che possa condurmi sulle tracce di Mussa.
Torniamo nei quartieri attorno al castello, vaghiamo nelle periferie, ci attardiamo presso l’otogar, la stazione degli autobus appena fuori città. Ma è un buco nell’acqua, i muhajirin non lasciano tracce della loro presenza. La giornata si chiude davanti al computer: nessuna e-mail, nessun messaggio su Facebook. Mussa ha tagliato i contatti con il mondo.
Lunedì, di buon mattino, incontro Shahin sotto la sede di Maslum Der, l’associazione di solidarietà con i rifugiati di Van. Incontriamo Fatma, la giovane presidentessa. Mentre versa l’immancabile tè, Fatma ci fa un quadro della situazione.
“In città ci sono circa cinquemila stranieri, afghani, iraniani, iracheni, curdi. Alcuni, di passaggio, si trattengono al massimo per qualche settimana, senza permessi. Altri, richiedenti asilo, aspettano per mesi che le autorità si esprimano sulla loro domanda di protezione internazionale. Altri ancora, la maggioranza, sono semplicemente intrappolati qui. Da anni. Persone a cui non viene riconosciuto lo status di rifugiati, ragazzi soli in attesa della pronuncia in appello, famiglie destinate al reinsediamento in paesi terzi, che non arriva mai.”
Il linguaggio tecnico di Fatma mette a dura prova l’inglese di Shahin, che tuttavia riprende: “Calcoliamo che solo il 2% degli afghani venga effettivamente reinsediato: anche quando viene loro riconosciuto lo status di rifugiati, raramente trovano paesi disposti ad accoglierli. In Occidente c’è molta diffidenza nei loro confronti. E’ per questo che a Van sono così tanti, più di 2500.” E continua: “la loro vita è dura: il governo non rilascia permessi di lavoro per i richiedenti asilo, e oltre alle spese correnti devono pagare una forte tassa di soggiorno”.
“Una tassa di soggiorno per i rifugiati? Possibile?” Faccio cenno a Shahin di tradurre la mia domanda. “Proprio così”, risponde Fatma, per niente sorpresa dalla mia reazione. “375 lire (193 euro) ogni 6 mesi.” E continua: “gli affitti in città variano dalle 150 alle 350 lire. Noi li aiutiamo fornendo coperte, assistenza medica, a volte anche cibo. Ma i soldi per affrontare queste spese non li abbiamo, devono provvedere da soli”.
Mi fermo per un istante a riflettere su questi dati. Quanta ricchezza deve aver accumulato un rifugiato per superare un periodo così lungo in queste condizioni? Quanti debiti deve contrarre? Mussa Khan è un self sustained, viaggia senza l’appoggio della famiglia e non ha una grossa somma da parte. Se facesse domanda di asilo in Turchia, lo aspetterebbero anni durissimi.
Nell’ufficio entra un ragazzo. “Sono Naqeeb, benvenuto a Van”, dice in un ottimo inglese, mentre un sorriso gli attraversa il volto. Fatma si rivolge a Shahin, che traduce: “Quando ho saputo che un reporter italiano era interessato agli afghani di Van, ho pensato subito a Naqeeb: nessuno conosce la situazione meglio di lui!”
Poliglotta, intraprendente, solare, Naqeeb è arrivato a Van nel 2008, quando aveva 25 anni. Riconosciuto in prima istanza come rifugiato, da due anni è in attesa di essere reinsediato all’estero. Nel frattempo è diventato il punto di riferimento della comunità afghana del posto, e ha anche aperto una scuola serale di inglese per i muhajirin più giovani.
Avvertito ieri sera della mia presenza, ha chiesto al fornaio presso cui lavora illegalmente di avere mezza giornata libera. Dopo 5 ore al forno e una doccia, si è precipitato qui. “Da stamattina ho già fatto 500 pagnotte!”, dice divertito. In Afghanistan faceva l’ingegnere informatico.
Naqeeb è la persona che stavo cercando. Ha una rete diffusa di contatti: se Mussa è in città, saprà sicuramente dove trovarlo. L’intervista è finita, salutiamo Fatma. Scendiamo in strada, dove Naqeeb racconta frammenti della sua storia. “Dopo la caduta del regime talibano sono tornato in Afghanistan e ho trovato lavoro presso una organizzazione medica americana ad Asdabad.”. Lì, nella sua città natale, fa carriera: guadagna bene, compra casa e automobile, fa progetti per il futuro.
“La situazione, però, è cambiata rapidamente: il Kunar, confinante col Pakistan, è diventato caldissimo”. Personaggio in vista, Naqeeb subisce minacce da parte degli insorti. “Volevano che lavorassi per loro, invece che per gli americani”. Una prima lettera minatoria non lo spaventa, così neppure la seconda e la terza.
Un giorno, però, davanti a molti testimoni, il cugino viene ucciso da un fuoristrada in corsa. Naqeeb vuole restare, ma il padre lo costringe a fuggire, a sparire da Ashdabad per il suo bene e per quello della famiglia. Era il 20 settembre del 2008.
Le parole di Naqeeb arrivano al cervello come aghi appuntiti. Fremo dalla voglia di chiedergli di Mussa, ma voglio prima ascoltare il suo racconto. “Arrivato all’ambasciata iraniana di Herat, l’autista mi ha venduto per mille dollari un visto che ufficialmente ne costa duecento. All’epoca, per me, i soldi non erano un problema, e così sono partito per Mashad, in aereo.”
A Mashad, in strada, sente dei ragazzi parlare in pasthu, la sua lingua. Anche loro sono in viaggio verso l’Europa. Gli danno il numero di un trafficante iraniano, con cui si incontrano in una stanza d’albergo. In due ore arrivano ad un accordo: 750 dollari per arrivare da Mashad a Van, oltre il confine turco. Pagamento all’arrivo.
Quella che per Naqeeb doveva essere una breve tappa nel suo viaggio verso l’Occidente, però, si è rivelata la sua prigione, nonostante il riconoscimento dello status di rifugiato.
“La Turchia ha apposto alla convenzione di Ginevra del 1951 una riserva geografica, offrendo asilo solo ai rifugiati che vengono dall’Europa. A tutti gli altri permette solo di fermarsi temporaneamente, in attesa che vengano accolti da paesi terzi”, mi aveva spiegato nel pomeriggio Thomas Faustini, capo ufficio dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) a Van.
“Naturalmente però”, ha aggiunto poi Faustini, “qui non ci sono rifugiati europei, perciò il nostro lavoro consiste nel trovare paesi di accoglienza per i rifugiati a cui riconosciamo lo status.”
Tra aprile e luglio l’UNHCR ha registrato 12 nuovi rifugiati al giorno. A metà aprile, 80 minori afghani hanno bussato alla loro porta, tutti insieme. Le procedure di resettlement, però, vanno avanti con una lentezza esasperante.
“Il nostro organico è ridotto, i rapporti con il governo turco delicati, il flusso dei migranti in continua crescita. Europa e Stati Uniti accettano pochissimi rifugiati. In queste condizioni è difficile fare di più”.
Rincontro Naqeeb la sera stessa, in un ristorante del centro. Sono stato invitato alla festa di addio di una famiglia di Kandahar, diretta in Canada. Aspettavano il resettlement da quattro anni, ormai parlano tutti perfettamente il turco. Gli invitati, una ventina, sono rifugiati afghani di etnie diverse: allo stesso tavolo siedono hazara, tagiki, uzbeki e pashtun.
Alla festa, alcuni dei presenti mi confidano i loro guai. Ahamad, 22 anni, e Latifi 21, amici d’infanzia, vengono da Bamian, e sono fuggiti dall’Afghanistan a bordo di un camion. “Siamo qui da cinque anni, senza lavoro, senza università, senza documenti, senza futuro. L’UNHCR ha già rigettato il nostro primo ricorso in appello, da un anno aspettiamo la pronuncia sul secondo. Per noi pasthun è molto difficile. Nella commissione non c’è neanche un interprete madrelingua, siamo costretti ad arrangiarci con il farsi. Pensiamo spesso a proseguire il nostro viaggio illegalmente, attraverso Grecia e Italia, ma i trafficanti vogliono tanti soldi. Indietro non si torna: Van è la nostra prigione.”
La festa prosegue fino a notte fonda, a casa di Naqeeb. Poi gli abbracci, le lacrime, gli auguri per chi parte e la malinconia per chi resta. Davanti ai miei occhi la “lotteria del resettlement” ha dato il suo responso: pochi fortunati partono per una nuova vita, gli altri restano bloccati nel limbo dell’asilo temporaneo.
Resto solo con Naqeeb. Sono le 3 del mattino. Mi faccio coraggio: “Kardash, ascolta. Mi dispiace dirtelo solo adesso, ma non sono qui soltanto per scrivere un reportage. Sto cercando un amico. E forse tu sei la persona che può aiutarmi a trovarlo.”
Nel buio della stanza gli attimi si prolungano all’infinito, “Il tuo amico”, è la risposta di Naqeeb, “è anche amico mio. Lo troveremo. Ma non adesso: questo è il momento per riposare. Dormi”.
Sorrido. Penso a quante cose siano cambiate nel giorno appena trascorso. Poi, finalmente, mi abbandono ad un sonno profondo, come non succedeva da tempo. Fuori, le stelle della Via Lattea sono le stesse, immutabili, fredde e pulsanti. Ma per me, in casa di Naqeeb, questa è la prima notte da muhajir.