La società civile serba si divide sui crimini di guerra

Una rassegna delle posizioni di intellettuali e attivisti serbi nell’attuale dibattito sui crimini di guerra, il processo a Miloševic, il confronto col passato e la commissione per la verità e la riconciliazione

06/12/2002, Luka Zanoni -

"Se noi apprendiamo a discutere, non promuoveremo soltanto un legame tra noi. Creeremo la condizione essenziale per poter discutere con gli altri popoli".
K. Jaspers, La questione della colpa

Quando c’era Miloševic forse alcune cose erano anche più facili. Sembrerà strana un’affermazione del genere, tuttavia l’eredità di Miloševic e di oltre un decennio di nazionalismo e odio etnico sono un fardello pesante per la società serba. Finché il regime nazionalista degli anni novanta estirpava di continuo i germogli di una valida alternativa e rendeva loro pressoché impossibile qualsiasi sviluppo, si sapeva che da un lato c’era l’oppressore e dall’altro chi rivendicava i propri diritti di libera espressione, di presa di distanza dall’odio e dalle guerre, dagli orrori perpetrati ai civili. Insomma, da un lato chi negava le libertà democratiche e dall’altro chi cercava di conquistarle.

Ora che Miloševic è sceso dal trono, le cose sono un po’ diverse. Recentemente infatti si è accesa una diatriba interna alla società serba tra due modi di interpretare la politica serba degli anni novanta, i crimini di guerra e le responsabilità di fronte al male portato dalle guerre. (1) Il confronto di opinioni ruota attorno ai seguenti argomenti, tutti di profondo interesse: l’interpretazione della storia e dei crimini di guerra; il modo in cui viene rappresentato dai media il processo contro Miloševic; il lavoro della commissione per la verità e la riconciliazione istituita dal Presidente Kostunica.

Come ben si comprende i fronti sui quali si sviluppa questa polemica, che ha tutta l’aria di essere un accanito confronto interno alla classe intellettuale serba con ricadute anche oltre frontiera, sono diversi e, benché collegabili reciprocamente, mantengono piani di sviluppo differenti.

La polemica che è divampata sui media è lo specchio delle riflessioni di una parte della cultura della ex Jugoslavia. Ciò che tuttavia, ad uno spettatore esterno, più sorprende è che il dibattito, senza esclusioni di reciproche accuse, si sta conducendo tra due schieramenti che un tempo erano uniti. Per questo motivo all’inizio abbiamo detto che forse finché Miloševic era al potere in un certo senso, e adottando una stringente logica manichea, era un po’ più facile capire chi stava con chi.

Ora il livello della discussione sembra essersi alzato. Sono la stessa società civile e l’élite intellettuale a scendere in polemica, differenziandosi al proprio interno. Questo è potuto accadere dopo i cambiamenti del 5 ottobre 2000 che hanno portato alla caduta di Miloševic. (2). Proprio a partire da quel momento sono potute emergere le differenziazioni interne, con le diverse posizioni sull’interpretazione del ruolo della Serbia durante le guerre degli anni novanta. A dire il vero posizioni distinte si sono sempre manifestate. E non ci si riferisce qui all’inizio di un pensiero liberale, quale lo definisce Latinka Perovic, che già a partire dalla caduta del sistema socialista si è affacciato sulla scena politica in opposizione sia al nazionalismo emergente che al vecchio apparato comunista in sfacelo, ma a distinzioni interne agli stessi intellettuali che hanno sempre dimostrato tendenze liberal-democratiche. (3)

Un esempio, che è anche un motivo più volte emerso nei rimandi reciproci nel corso della polemica, riguarda il noto appello rivolto a cessare i bombardamenti della NATO, durante la guerra del ’99.(4) In quel caso numerosi intellettuali firmarono l’appello, tuttavia una cospicua parte di loro si rifiutò sostenendo che l’appello avrebbe avuto senso se fosse stato indirizzato prima a Miloševic, perché era lui il maggior responsabile dei bombardamenti in corso e quindi anche in grado di fermarli.(5) Tra quegli intellettuali che rifiutarono di sottoscrivere l’appello troviamo, Nataša Kandic, Sonja Biserko, Ivan Colovic, Filip David, solo per citarne alcuni. (6)
Questo esempio è significativo perché in esso si può già rintracciare la divisione di opinioni che stiamo cercando di mettere a nudo. La cifra del dibattito in corso è rintracciabile nello scontro tra personalità dell’ambiente culturale serbo che durante la guerra di Croazia e di Bosnia condividevano le stesse idee e azioni. Un esempio significativo di ciò è fornito da Petar Lukovic in un’intervista rilasciata per il bisettimanale della Bosnia ed Erzegovina "Start".

Petar Lukovic riporta alla memoria il suo sodalizio con Stojan Cerovic, attuale presidente del consiglio direttivo e redattore del settimanale "Vreme", ma anche uno dei suoi antagonisti in questa polemica. (7) Nell’intervista Lukovic si esprime piuttosto chiaramente e, a dispetto del suo consueto stile critico-polemico, sembra alquanto rattristato.

"Negli anni novanta Stojan Cerovic era il mio miglior amico. Io avrei potuto firmare senza leggere qualsiasi suo testo. Ha scritto parecchi testi antologici sulla guerra in Bosnia, su Dobrica Cosic, su Matija Beckovic, una serie di testi su Sarajevo, è andato durante la guerra a Sarajevo, so bene quanto ha amato Sarajevo. Io ero ammirato dai suoi testi durante la guerra. Ho creduto in quello che faceva Veran Matic come direttore di B92. Credevo che tutti insieme stessimo lavorando a qualcosa di importante. Ho pensato di lavorare con delle persone che non avrebbero mai dimenticato quello che è accaduto.

Mi aspettavo che adesso avremmo utilizzato questa nuova occasione, pensavo che fosse arrivato il momento per una spietata analisi della Serbia, e dei suoi orribili dieci anni. Mi aspettavo un’analisi dei terribili crimini in Bosnia e Croazia. Per me è totalmente sorprendente. Cerovic, immediatamente dopo il rovesciamento del regime, è divenuto uno dei giornalisti portavoce di Koštunica. La sua nuova piattaforma è che non si deve collaborare con l’Aja ad ogni costo, che sui crimini di guerra occorre parlare più tardi, che occorre difendere gli interessi nazionali. Quando ho letto ciò, sono rimasto scioccato, queste tesi non le potevo mettere in relazione con l’uomo con cui sono stato intimo amico". (8)

Lukovic polemizza con persone e amici che non dovrebbero avere nulla a che fare con l’élite culturale che ha promosso e acceso il nazionalismo serbo, quegli intellettuali in divisa che con la loro penna hanno alimentato il concetto della Grande Serbia.(9)

Il dibattito sui media e contro i media

I prodromi del dibattito che ci interessa portare alla luce si sono manifestati da mesi sui media. La cosa interessante è che la polemica è rimbalzata anche sulle pagine di settimanali e quotidiani di altre repubbliche, non fermandosi esclusivamente sui media serbi. Anzi proprio l’inizio di questa polemica va rintracciato in un articolo firmato da Sonja Biserko uscito verso la metà di luglio sul settimanale di Spalato "Feral Tribune", e in un testo del giornalista Petar Lukovic pubblicato nella seconda metà di agosto sempre dal "Feral Tribune", in risposta e difesa della posizione della Biserko.

Sin dall’inizio la polemica si incentra sull’accusa mossa dalla Biserko e di seguito da Lukovic e da Nataša Kandic alle posizioni assunte da media indipendenti quali "Vreme" e B92.(10) L’elemento di sorpresa consiste proprio nei media che sono stati presi di mira, perché si tratta di media che vengono considerati anche da questa parte dell’Adriatico come simboli della lotta al potere, della critica al regime, della conquista dell’indipendenza.

Ci sembra pertanto di poter affermare che lo scontro tra media e intellettuali indipendenti, incentrato sul modo di affrontare i crimini di guerra, il processo a Miloševic, la catarsi della società serba e la relazione con la politica passata, sposti più in là il livello del discorso. A confrontarsi sull’interpretazione della storia serba degli ultimi dieci anni, non ci sono i seguaci di Miloševic, i suoi propagandisti, da un lato e i suoi oppositori dall’altro. Ora c’è una parte della società che vorrebbe un riconoscimento totale dei crimini commessi dalla Serbia, dalla sua élite dominante, ma anche una sorta di riconoscimento di colpevolezza collettiva. Che la società intera si ponga a confronto con se stessa per poter affrontare il peso del passato e poterlo rielaborare. Ma anche per poterlo riconoscere innanzitutto. Buona parte della società serba misconosce o non conosce affatto la storia di Vukovar, Srebrenica, ecc.(11) Parte cospicua della società serba non si è confrontata moralmente con l’altra sponda della Drina, benché una sua componente non trascurabile l’abbia sempre considerata come una sorta di appendice.

Per capire un po’ meglio la diatriba vediamo cosa scrive Sonja Biserko, perché le sue parole suonano inequivocabilmente come un atto di accusa nei confronti di "Vreme" e B92. "Vorrei far presente due problemi con cui ci confrontiamo quasi quotidianamente: il primo è la generalizzazione e la relativizzazione dei crimini e il secondo è la relazione con il Tribunale de L’Aja. Siccome il crimine diventa sempre più evidente e le prove diventano sempre più accessibili, la società serba, o per essere più precisa la sua élite, in modo sempre più organizzato si sforza non solo per relativizzare tale crimine, ma anche per de-etnificarlo. Il modo in cui questa nuova verità si afferma – in particolare attraverso i cosiddetti media indipendenti, quali sono B92 o Vreme – è totalitario tanto quanto il nazionalismo che a suo tempo ha sviluppato l’apparato bellico. Nella società serba il modo totalitario di pensare purtroppo è in questo momento il maggior ostacolo alla democratizzazione della società, e ciò si vede perfettamente con l’interpretazione del recente passato. Oggi si parla di nazionalismo civile, di nazionalismo educato e maleducato, ma ogni tentativo di sollevare la domanda sui crimini di guerra è considerata come ‘giustizia rivoluzionaria’. Ecco perché al posto dello scontro, si richiede un’argomentata riflessione pubblica in grado di mostrare cosa in effetti è accaduto. Perché ogni crimine, come dice uno dei membri della Commissione statale per la verità e la riconciliazione, ha un ‘suo passato e un suo futuro’. Si pone allora la questione se anche l’olocausto abbia avuto un suo passato che giustifica sei milioni di ebrei uccisi ". (12)

Petar Lukovic, editorialista per il "Feral Tribune" e per il settimanale sarajevese "Dani" (di recente ha abbandonato la rubrica sul settimanale belgradese "Reporter"), da sempre accanito oppositore della politica nazionalista serba, del populismo e della retorica grande serba, prende le difese delle due note attiviste. Entrambe spesso sottoposte dalla stampa nazionalista ad una sgradevole caccia alle streghe, per le loro posizioni rispetto alle guerre combattute dalla Serbia durante l’ultimo decennio, nonché per le prese di posizione sui crimini di guerra e soprattutto sulla colpa di parte della società serba, che ripetutamente ha appoggiato la politica nazionalista di Miloševic. Lukovic ritorna a più riprese sulle pagine del settimanale di Sarajevo "Dani" in difesa delle due attiviste e condanna l’ondata di negazionismo del massacro di Srebrenica, utilizzando come esergo del suo articolo una scandalosa dichiarazione della moglie di Miloševic, Mira Markovic: "ma è successo qualcosa a Srebrenica?". Nel testo viene inoltre posto l’accento sul ritorno in pompa magna del nazionalismo in Serbia, condito di revival cetnico, il tutto sotto nuove vesti, quelle moderate delle "nuove" forze politiche.(13)

L’intento degli articoli di Lukovic, è lui stesso a confermarlo, consiste da un lato nel mettere a nudo le posizioni dei suoi colleghi di un tempo, dall’altro nel difendere la reputazione di chi si è battuto da sempre contro il nazionalismo. (14)
Le reazioni si sviluppano e il dibattito, come abbiamo detto, rimbalza su vari media, dalla Croazia alla Bosnia, dalla Serbia ai media internazionali come l’IWPR (Institute for War and Peace Reporting). Quest’ultimo ha ospitato nel numero del 6 settembre 2002 due articoli che offrono qualche chiarimento alla polemica in corso. Gli articoli sono firmati rispettivamente da Veran Matic e Nataša Kandic.(15)

Veran Matic, direttore di B92 e dell’ANEM (Associazione dei media elettronici indipendenti), cerca di rispondere alle accuse mosse contro la sua emittente. Accuse che spesso vertono su un modo piuttosto blando e relativista di fronteggiare i crimini e la responsabilità degli stessi, definito infotainment, sorta di commistione tra informazione e intrattenimento.

L’errore di B92 consisterebbe nel dare poca importanza alla rielaborazione del passato e alla sua rivelazione. Secondo Lukovic, la Kandic e la Biserko spesso nei dibattiti televisivi vengono ospitati fascisti e nazionalisti (dello stampo di Dragoš Kalajic)(16), anche in veste di commentatori del processo a Miloševic, cosa che favorisce una connotazione pro Miloševic al dibattito e fornisce un’immagine edulcorata dell’ex presidente agli occhi dell’opinione pubblica serba in generale. Inoltre le trasmissioni riguardanti i crimini commessi durante la guerra vengono relegate in una fascia oraria di sicurezza, ossia quando l’ascolto è minore. E per di più come afferma la stessa Kandic "i media continuano a formare l’opinione pubblica secondo le linee tracciate dall’ex leader serbo e dai suoi propagandisti. Sotto questo riguardo la stampa indipendente è piuttosto attiva e presenta una copertura pro-Miloševic degli eventi de L’Aja". Ma, continua la Kandic con una nota di rammarico, "ho sperato di assistere ad una sobria onestà nella Serbia post-Miloševic, ad un generale consenso sul fatto che la priorità del governo e di noi tutti fosse quella di assumere la nostra parte di responsabilità per il passato. Ciò costituirebbe la base per un processo di riconciliazione". (17) Infine la Kandic non dimentica di far notare che buona parte degli ufficiali e dei politici del periodo Miloševic, compresi i sospettati dal TPI de L’Aja, sono sempre restati per tutto questo periodo in Serbia e in Montenegro e quindi a disposizione dei giornalisti. Tuttavia nessun media ha pensato di intervistarli sul loro ruolo nei crimini in Kosovo.

Veran Matic dal canto suo obietta alle accuse rivoltegli elencando tutta una serie di materiali, trasmissioni, riviste, film e documentari che B92 ha realizzato nei suoi 12 anni di vita. Nell’elenco troviamo: la trasmissione "Katarza", una sorta di dibattito tra più relatori sul confronto col passato; la mostra del fotografo americano Ron Haviv, boicottata e assaltata più volte dagli ultranazionalisti serbi; il film sul massacro di Sjeverin; il "Centro di documentazione sulle guerre 91-99", diretto da Drinka Gojkovic; le riviste "Rec" e "Profemina", attive nel campo dei diritti umani e delle donne, e altro ancora. Infine conclude Matic dicendo che la fuga dal passato non è caratteristica precipua dei serbi, e "chiedere che la vita si fermi fino a che la questione sui crimini di guerra sia completata e risolta è folle e irrealistico".

"Noi a B92 – prosegue Matic – rimaniamo fedeli al nostro motto ‘sospetta di chiunque, anche di noi’. Siamo aperti alla critica e ammettiamo di aver commesso degli errori. Tuttavia non possiamo accettare che il nostro recente passato venga gettato nell’oblio, oppure che sia distorto da una memoria selettiva".(18)

Se da un lato quanto la Kandic scrive con passione suona veritiero, dall’altro anche il lungo elenco di Matic dimostrare un lavoro importante di investigazione del passato della Serbia e di ricerca di una via per confrontarcisi. Tuttavia è comprensibile che buona parte della società non abbia desiderio alcuno di parlare di queste cose, di confrontarsi con un passato scomodo, così come non stupisce il fatto che parole come crimine, passato o responsabilità per i crimini, non siano mai state pronunciate dai candidati alla presidenza della Serbia durante l’intera campagna elettorale. Nessuno di loro si è mai pronunciato sui crimini di guerra e sul bisogno di giustizia ad essi legati, né tra gli ex partiti di governo (cosa difficile da attendersi) né tanto meno tra quelli cosiddetti di opposizione, che fosse il "nazionalista moderato" Koštunica o il "democratico economista" Labus. Anzi, a più riprese è apparso come l’hate speech della retorica nazional-populista sia tutt’altro che tramontato.(19)

Il dibattito sulla Commissione per la verità e la riconciliazione

Come abbiamo più sopra accennato, anche il settimanale "Vreme" è stato accusato di relativizzare i crimini e di presentare una interpretazione pro Miloševic del processo a L’Aja. In effetti non di rado alcuni articoli sul processo a Miloševic lasciavano alquanto a desiderare, sia per lo stile che per i contenuti. La critica era piuttosto rivolta al tribunale internazionale, alle sue carenze, alle contraddizioni dei testimoni sotto giuramento – soprattutto albanesi -. Insomma una sorta di levata del tu quoque, frammista col rancore per gli oltre 70 giorni di "bombardamenti umanitari".

Comunque sia il settimanale belgradese ha avuto un certo ruolo nell’intero dibattito degli ultimi mesi, attraverso le pagine della rubrica "Pošta". Un susseguirsi di scambi epistolari cui hanno contribuito di volta in volta Latinka Perovic, Srdja Popovic, Nataša Kandic, Nenad Dakovic, Stojan Cerovic, il coordinatore della Commissione per la verità e la riconciliazione Alexandar Lojpur e molti altri.(20)

Tema centrale del dibattito, oltre ai punti che abbiamo già menzionato, è il ruolo e l’operato della Commissione per la verità e la riconciliazione. Una commissione voluta dal presidente Koštunica nel marzo dello scorso anno, ma che sin dal principio ha ricevuto forti critiche. Le immediate dimissioni di due dei suoi membri, la storica Latinka Perovic e il giurista Vojin Dimitrijevic, l’hanno privata di voci interne di critica radicale.(21)

La polemica condotta sulle pagine di "Vreme" inizialmente prosegue il dibattito aperto dalla Biserko sulle pagine del Feral croato, pubblicando una risposta di Dragoljub Zarkovic, direttore del settimanale, alle accuse contro "Vreme". Il titolo dell’articolo suona emblematico: "La dehelsinkizzazione della signora Biserko". Le accuse della Biserko vengono rigettate per intero, e si palesa un netto rifiuto del suo concetto di responsabilità collettiva, almeno per quanto riguarda la negazione dei crimini. (22)

Segue, due settimane dopo, una lettera-articolo di Latinka Perovic che prende le difese della Biserko. Nel testo la Perovic si chiede cosa significhi il termine "dehelsinkizzazione", avanzando argomentazioni per una sua decostruzione semantica. Infine la storica belgradese rammenta che già da dieci anni erano state previste le difficoltà connesse con il momento della "pace" e del relativo confronto col passato. Quindi ciò che sta accadendo sarebbe lungi dall’essere "inconcepibile e inatteso". "Oggi – conclude la Perovic – non è sufficiente parlare, occorre anche fare".(23)

Da qui in poi piovono una serie di lettere di reazione che toccano, durante i due mesi di polemica, i temi finora trattati. Diversi gli scambi tra Srdja Popovic, avvocato e già direttore di "Vreme", e Stojan Cerovic, amici e colleghi di un tempo. Le differenze emergono soprattutto sull’interpretazione del processo a Miloševic, sul ruolo e sul compito del Tribunale de L’Aja, ma anche sui crimini e sulla responsabilità. Il dibattito infine coinvolge il lavoro stesso della Commissione per la verità e la riconciliazione. Ed è il coordinatore della Commissione, l’avvocato Alexandar Lojpur, ad intervenire sulle pagine di "Vreme" con un articolo che cerca di analizzare il dibattito in corso dal punto di vista del lavoro della Commissione. Sottolinea in particolare che non c’è luogo migliore per affrontare tale dibattito della Commissione per la verità e la riconciliazione". (24)

Lo stesso Lojpur nel maggio di quest’anno, poco prima che iniziasse la polemica, aveva previsto lo sviluppo di un simile dibattito durante una delle tavole rotonde organizzate dalla Commissione. Egli ritiene che la discussione sulla responsabilità politica e morale collettiva della società serba – richiesta a gran voce da persone come Srdja Popovic, Sonja Biserko, Nataša Kandic, Petar Lukovic, ecc.- abbia senso se inquadrata nel lavoro della Commissione. Non tutti i suoi membri condividono le stesse idee, afferma Lojpur, ma ciò non le impedisce il lavoro. Lojpur infine è disposto ad ammettere anche una "colpa metafisica", per dirla con le parole di Karl Jaspers, ossia quella "enorme macchia sulla coscienza che non si può lavare".
Di parere contrario è invece un altro membro della Commissione, il professor Svetozar Stojanovic, che condividendo l’opinione di Stojan Cerovic e altri, non accetta l’idea di una responsabilità collettiva. Nel testo della lettera viene poi affrontata la critica mossa spesso alla Commissione di essere la "commissione di Koštunica". Secondo Lojpur, chi la pensa in questo modo (ancora Popovic, Lukovic, Biserko e Kandic) "commette un grosso errore, privo di valenza democratica".

Nel numero successivo di "Vreme" risponde Srdja Popovic, che rigetta l’accusa di Lojpur di non aver rappresentato in modo veritiero lo stato della Commissione, esortandolo a rispondere ai suoi rilievi, perché "su questa Commissione c’è veramente molto da dire".(25) Sul numero successivo del settimanale belgradese giungono le scuse di Lojpur, cui segue un altro intervento di Popovic e la sua definitiva conclusione sul numero del 7 novembre, con l’invito a Lojpur di proseguire il dibattito sulla Commissione ma "in un luogo migliore".

L’ultima lettera di Popovic, significativamente intitolata "Fine", riprende le oltre dieci settimane di polemica, analizzando come essa si sia manifestata sul settimanale. Al centro della riflessione si colloca la critica della relativizzazione e della de etnicizzazione dei crimini, avanzata secondo Popovic in modo evidente dai redattori di "Vreme". "In altre parole, la redazione tenta di creare un’apparente discussione tra i lettori, mentre in realtà polemizza con loro". Molti interventi provengono dalla diaspora serba e condividono la tesi relativista, mentre altri lettori hanno preso a più riprese le distanze in modo critico dalla condotta editoriale del settimanale. (26)

Popovic conclude affermando che "la colpa collettiva non esiste, mentre esiste una responsabilità collettiva nella misura in cui la ‘collettività’ ha reso possibile, ha appoggiato e difeso la ‘liberazione delle terre serbe’". Continua dicendo che "benché non siamo colpevoli per le azioni concrete dei veri criminali, siamo responsabili nel senso che il regime criminale è stato a lungo (troppo a lungo) legittimato (ha avuto 2 milioni di voti nel settembre 2000), che molti di noi incitavano alle guerre e esultavano per esse, celebravano i criminali, si identificavano con essi, seguivano i carri armati con i fiori, e a tutto ciò davano il nome di patriottismo… Questa discussione ha avuto quindi un senso? – Si chiede in ultimo Popovic – Per coloro che nutrono opinioni basate sulla irrazionalità, prima di tutto sulla emozione di quanto è difficile assumersi le responsabilità per l’atteggiamento proprio, ma anche della comunità alla quale si appartiene – la risposta è probabilmente no. Non si possono influenzare le opinioni irrazionali con argomenti. Esistono però anche gli altri, le persone mature per le quali nella comprensione dell’auto rispetto è compresa anche la responsabilità. Per loro questa discussione è valsa la pena e i temi qui abbozzati sono i temi con cui la nostra società dovrà confrontarsi per lungo e lungo tempo".

Alcune considerazioni conclusive

In sede conclusiva cerchiamo di tirare le fila dell’acceso dibattito in corso in Serbia. Come abbiamo avuto modo di vedere sono stati toccati tutti i punti nevralgici relativi alla questione della colpa, la responsabilità dei crimini e il confronto col passato. Gli attori della polemica possono essere divisi, in modo forse riduttivo e semplicistico, in due schiere: da un lato quanti rigettano l’idea di una responsabilità collettiva, sostenendo al contempo una sorta di relativizzazione dei crimini e di loro de-etnicizzazione, di modo che la rosa delle argomentazioni possa includere anche il tu quoque, ossia ciò che hanno fatto gli altri. Dall’altro lato invece si trova quella fetta di società serba che richiede un’analisi e un’ammissione collettiva della responsabilità politica e morale. A questa schiera ci è sembrato di poter iscrivere la maggior parte dei membri di quella che in pieno regime degli anni novanta veniva definita l’"Altra Serbia", uno sparuto gruppo di intellettuali (nel senso più ampio del termine) che cercò di fare quadrato sulla logica di morte del regime, nel tentativo di salvare la dignità di una certa cultura serba. Il riferimento principale va ai membri del Circolo di Belgrado. (27)

Possiamo fare a questo punto un parallelo con le lezioni raccolte da Karl Jaspers nel suo "La questione della colpa". Si tratta di lezioni tenute nell’immediato dopo guerra, che hanno il merito, a nostro avviso, di anticipare e riflettere su tutta una serie di questioni affini a quelle sin qui trattate. In particolare merita un interesse specifico la classificazione che l’autore tedesco illustra all’inizio del testo sui quattro tipi di colpa: criminale, politica, morale e metafisica.

Per Jaspers si parla di colpa criminale quando "i delitti consistono in azioni, che si possono provare oggettivamente e che trasgrediscono leggi inequivocabili. L’istanza è il tribunale, il quale stabilisce precisamente con una procedura formale, gli stati di fatto, e vi applica le leggi".

La colpa politica invece, "consiste nelle azioni degli uomini di stato e nell’essere cittadini di uno stato, per cui si è costretti a subire le conseguenze delle azioni di questo stato, alla cui autorità si è sottoposti e al cui ordinamento si deve la propria esistenza. Ciascuno porta una parte di responsabilità riguardo al modo come viene governato. L’istanza è la forza di volontà del vincitore nella politica interna come nella politica estera".

La colpa morale: "uno ha la responsabilità morale per quelle azioni che compie come individuo. E questo vale per tutte le sue azioni, anche per le azioni di ordine politico e militare che egli compie. In nessun caso vale la scusa che ‘gli ordini sono ordini’. L’istanza è qui la propria coscienza e la comunicazione con gli amici e le persone più care, con coloro che ci amano e si interessano della nostra anima".

Infine la colpa metafisica. "C’è tra gli uomini come tali una solidarietà la quale fa sì che ciascuno sia in un certo senso corresponsabile per tutte le ingiustizie e i torti che si verificano nel mondo, specialmente per quei delitti che hanno luogo in sua presenza o con la sua consapevolezza. Quando uno non fa tutto il possibile per impedirli, diventa a che lui colpevole. Chi non ha messo a repentaglio la propria vita per impedire il massacro degli altri, ma è rimasto lì senza fare nulla, si sente anche lui colpevole, in un senso che non può essere adeguatamente compreso da un punto di vista giuridico, politico o morale. Il fatto che uno è ancora in vita, quando sono accadute delle cose del genere, costituisce per lui una colpa incancellabile (…). L’istanza è solamente Dio." (28)

Vediamo quindi che Jaspers negli anni ’45 e ’46 aveva delineato tutta una serie di problemi e questioni relative alla Germania, che ben si possono applicare al recente dibattito in Serbia. A più riprese abbiamo visto infatti affiorare i concetti di colpa politica, morale, criminale e metafisica. Certo le indicazioni di Jaspers non devono essere prese per dogmi incontrovertibili, anzi lo stesso autore all’inizio del testo invita alla libera e ragionata discussione, al fine di svelare la verità, concetto che a nostro parere va anteposto a quello di riconciliazione, pena la perdita di tempo e l’inconcludenza del lavoro di qualsiasi commissione riconciliatrice.

L’impressione che abbiamo avuto seguendo l’intero dibattito per tutti questi mesi è che non solo sia stato di enorme interesse, pur con i limiti che può avere un dibattito concitato condotto sulle pagine dei media, ma abbia in qualche modo contribuito a rendere ragione delle differenti posizioni dell’élite culturale serba nel dopo Miloševic, periodo da molti considerato come il più difficile da metabolizzare.

note

(1)Questo tipo di divisione è stato evidenziato dallo scrittore Filip David durante un incontro organizzato dall’Helsinki Odbor za ljudska prava u Srbiji nel quadro di un ciclo di conferenze dal titolo "la Serbia al confronto col passato". Filip David ritiene che in Serbia sia in atto uno scontro tra due modelli culturali, uno è il modello della palanka (concetto derivato dal noto libro di Radomir Konstantinovic "Filosofija palanke", che significa generalmente "villaggio" e ambiente culturalmente chiuso e principalmente ripiegato su se stesso) in cui predomina la paura dell’altro e la xenofobia, dall’altro lato abbiamo un limitato modello filo occidentale. Istina poput teške kamenice, in "Danas" 7 novembre 2002.

(2)Così scrive Latinka Perovic: "I cambiamenti del 5 ottobre hanno significato per alcuni la resa dei conti nei confronti del recente passato. Per altri accettare le conseguenze di tale passato e l’inizio di una sua interrogazione, nel nome della identità democratica". In "Vreme" n. 614, 10 ottobre 2002.

(3)Cfr. L. Perovic, Oslobadjanje od mitološke svesti, in "Danas" 7 novembre 2002.

(4)L’appello è stato ripubblicato da "Vreme" nel numero 615 del 17 ottobre 2002. Tra i 27 firmatari dell’appello si trovano i nomi di: il fumettista Corax, Voijn Dimitrijevic, Stojan Cerovic, Zagorka Golubovic, Sonja Liht, Ljubomir Madzar, Veran Matic, ecc.

(5)Cfr. N. Kandic, Serbian media shame, IWPR , No. 365, 6 settembre 2002.

(6)Cfr. Kolektivno nevini, "Nin", 31 ottobre 2002.

(7)Interview: Petar Lukovic, "Magazin Start", 1 novembre 2002.

(8)Ibid.

(9)Questi ultimi si sono di recente riuniti in una tavola rotonda organizzata dalla SANU (Accademia serba delle scienze e della arti), per ribadire che Miloševic ha sfruttato l’idea nazionalista solo come "tattica politica", ma anche per sostenere che il famoso Memorandum non conteneva affatto l’esplicitazione di alcuna logica di dominazione da parte della Serbia. Si tratta di intellettuali come Mihajlo Markovic e Dobrica Cosic, il quale ha anche affermato che la realizzazione della Grande Serbia non era lo scopo della politica serba negli ultimi quindici anni. "Sulla Grande Serbia hanno parlato solo i nazionalisti estremi, che nella politica serba non hanno avuto un grande peso". In sostanza una negazione del ruolo avuto dagli intellettuali che hanno scelto l’opzione nazionalista, che hanno contribuito alla creazione della guerra, adducendo quindi una sorta di riabilitazione di se stessi. Cfr. tra gli altri, G. Tarlac, Velika Srbija – Istine srpskih akademika. Za sve su krivi Hrvati, Sloveni i Vatikan, in "Reporter" 5 novembre 2002.

(10)Sonja Biserko e Nataša Kandic, sono direttrici rispettivamente dell’Helsinki Committee di Belgrado e del Fond za humanitarno pravo (Fondo per i diritti umani). Da sempre sono impegnate in campagne e azioni concrete a favore dei diritti umani.

(11)Secondo Petar Lukovic – che cita un sondaggio della società Strategic Marketing – "una grande maggioranza dei cittadini intervistati sono in grado di dire l’ele

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