La società civile in Bosnia Erzegovina
Un testo d’approfondimento parte della "Guida Società Civile".
Il quadro legislativo
Due sono le leggi in Bosnia-Erzegovina che regolamentano l’attività delle associazioni: – Legge sulle associazioni dei cittadini che regolamenta le associazioni di tipo tradizionale che esistevano già prima della guerra.Legge sulle organizzazioni umanitarie del 1998 che regola la presenza e il lavoro delle ONG straniere e locali, che operano in campo umanitario e generalmente sociale.
La presenza internazionale e l’interpretazione della guerra
È inutile sottolineare che la Bosnia-Erzegovina sia stata invasa, sia durante il conflitto sia dopo Dayton, da centinaia di agenzie umanitarie governative e non governative internazionali. Questa forte presenza è stata caratterizzata – a parte qualche eccezione – dalla considerazione che la guerra nella ex-Jugoslavia sia stata un fatto inevitabile in quanto portato di odi secolari a cui il regime comunista aveva solamente imposto un freno repressivo. Questa lettura della guerra ha fatto sì che le grandi organizzazioni internazionali si siano sempre rapportate, nel loro lavoro, con le autorità istituzionali ai vari livelli, amministrativi e governativi, considerate legittime rappresentanti dei tre popoli costitutivi del paese. Per la comunità internazionale infatti la divisione fra i popoli costitutivi
della ex-Jugoslavia è stata la causa e non l’effetto di una guerra che, secondo noi, è stata invece il frutto di una strategia accuratamente studiata per dividere il paese ad uso delle élites nazionalistiche e affaristico-mafiose, che se ne sono poi spartite le spoglie. Quelli che nelle guerre tradizionali vengono considerati effetti collaterali, nelle nuove guerre sono dunque gli atti principali volti a fomentare l’odio e a proporre nuove forme di soggezione e di potere politico fondato sulla divisione etnica. La pulizia etnica, il saccheggio dei beni, la requisizione delle proprietà ed i campi di concentramento sono dunque gli strumenti di una precisa e razionale strategia. Non siamo infatti di fronte ad una guerra fra opposti nazionalismi, ma ad una guerra contro la popolazione civile e la società civile. Il non aver capito questo da parte della comunità internazionale ha significato il fallimento di tutti i tentativi di risoluzione del conflitto in Bosnia-Erzegovina. E’ interessante citare ciò che scrive a questo proposito Mary Kaldor, studiosa inglese e co-presidente della Helsinky Citizens Assembly, nel suo importante libro Le nuove guerre :
I nazionalisti avevano un interesse comune ad eliminare qualsiasi prospettiva umanitaria internazionale, sia all’interno della ex Jugoslavia che a livello globale. La loro guerra politica e militare non era contro gli altri nazionalisti, ma contro la popolazione civile e contro la società civile. La cosiddetta comunità internazionale è caduta nella trappola nazionalista perché ha fatto propria e ha legittimato la percezione del conflitto che gli stessi nazionalisti volevano diffondere. In termini politici i nazionalisti avevano tutti lo stesso obiettivo: ristabilire su basi etniche il tipo di controllo politico che era stato proprio in passato del Partito comunista. A questo fine, essi dovevano dividere la società in diverse comunità etniche. Dando per scontato che "paura e odio" fossero endemici alla società bosniaca e che i nazionalisti rappresentassero l’intera società, i negoziatori internazionali non potevano vedere altra soluzione se non il tipo di compromesso che gli stessi nazionalisti cercavano di raggiungere. Essi non riuscirono a capire che paura e odio non erano endemici, ma un prodotto della guerra e contribuirono di fatto agli obiettivi nazionalisti aiutando a indebolire la prospettiva umanitaria internazionale.
Nei colloqui politici si è avuto per lo più un approccio da "realpolitik", un approccio "dall’alto" in cui si dava per scontato che i leader dei partiti politici parlassero per conto delle persone da essi rappresentate. Il problema di come affrontare la disgregazione della Jugoslavia si è tradotto in questo modo nel problema di come raggiungere un compromesso tra i diversi leader. Sostanzialmente, si è concepito il problema come una questione di confini e di territorio, non come una questione di organizzazione politica e sociale. Dal momento che la pulizia etnica era vista come un effetto collaterale della guerra, la preoccupazione principale era fermare i combattimenti trovando un compromesso politico accettabile per le parti in guerra. Se i leader politici della ex Jugoslavia sostenevano di non poter vivere insieme, occorreva allora trovare un nuovo assetto territoriale per uno spazio politico post-jugoslavo. La risposta è stata dunque la divisione. Ma la divisione era anche una causa della guerra, non solo una soluzione. Ed era una causa destinata a perpetuarsi, perché – come tutti sapevano – non era possibile creare territori etnicamente puri senza ingenti spostamenti di popolazione. Se la pulizia etnica era l’obiettivo della guerra, l’unica soluzione possibile era accettarne i risultati. Le pretese nazionaliste hanno finito in questo modo per essere legittimate dal principio stesso della divisione territoriale.Questo tipo di approccio ha fatto sì che le organizzazioni internazionali presenti in Bosnia-Erzegovina, dopo la fine del conflitto, non abbiamo quasi mai privilegiato il rapporto con la società civile del paese, ma quasi sempre quello con le autorità statali e locali, espressione delle élites nazionalistiche e affaristico-mafiose.
L’ennesima occasione mancata
Alla fine del conflitto, nel 1995, chi avesse visitato le città della Bosnia e dell’Erzegovina poteva respirare un clima di grande fermento sociale e civile. Tale clima era dovuto al fatto che la fine della guerra aveva suscitato grandi speranze nella popolazione civile, vittima e protagonista della vita cittadina sotto le bombe. Erano nati infatti durante la guerra molti leader popolari, si erano sviluppate molte idee nell’emergenza e molti gruppi informali di aiuto ed assistenza si erano creati. Quella dell’autunno 1995 (primavera 1994 per Mostar, dove la guerra era finita un anno e mezzo prima di Dayton) era quindi una situazione di grande interesse per chi cominciava ad intervenire. Purtroppo quasi nessuno seppe valutare tale situazione e non venne quindi dato credito ai fermenti sopra descritti. Quasi tutte le agenzie internazionali, governative e non, si affidarono infatti alle élites nazionalistiche al potere che, in breve tempo, anche con l’aiuto dei donatori internazionali, soffocarono i fermenti di rinnovamento nelle città per chiuderle sempre più nella cappa del nazionalismo etnico e del controllo politico e clientelare di ogni aspetto della vita nelle città. Si attuarono così progetti che in nessun modo tennero conto dei desideri della popolazione e che non sfruttarono quindi le energie positive dei leader popolari nati durante la guerra – soprattutto donne -. Questi ultimi ben presto furono liquidati dalle élites politiche nazionaliste, che occuparono tutto lo stato ad ogni livello, generando così corruzione, soffocamento di ogni istanza democratica e mantenimento delle città sotto la cappa della paura del nemico dell’opposta nazionalità.
Il proliferare di ONG in Bosnia-Erzegovina
È vero che a partire dalla fine del 1995 sono sorte molte ONG in Bosnia-Erzegovina, ma questo fenomeno deve essere interpretato alla luce del grande afflusso di finanziamenti nel paese. Molte ONG sono infatti nate ad hoc proprio per intercettare tali fondi. Spesso abbiamo assistito quindi alla nascita di soggetti senza alcun radicamento sociale e dediti ai temi "politicamente corretti", cari ai donatori occidentali: diritti civili, ambiente, stampa indipendente, prevenzione dell’AIDS ecc… I progetti finanziati sono stati per lo più campagne di informazione e sensibilizzazione tramite depliant, manifesti o spot televisivi, che però non hanno mai intercettato sul territorio i problemi e le sacche di emarginazione e forte degrado sociale create dai problemi stessi. A questo dobbiamo aggiungere il fatto che le stesse organizzazioni internazionali hanno ben poco affrontato i problemi sociali e culturali del territorio bosniaco, sia per non essersi mai veramente rapportati direttamente con la popolazione civile, sia per il fatto che nei riguardi della stessa popolazione si sono posti sempre con un atteggiamento di superiorità politica e intellettuale. Spesso l’intervento non ha quindi tenuto conto delle più normali regole di rispetto della diversità culturale, della specificità del contesto
sociale e della situazione reale, che vedeva milioni di persone distrutte, fisicamente e psicologicamente, dalla guerra e dagli odi interetnici. Sarebbe stato necessario calarsi realmente nella società bosniaca, in ogni città, e prima di tutto ascoltare e rispettare il dolore ed anche le difficoltà a riprendere il dialogo interetnico, senza atteggiamenti di superiorità culturale, che spesso sono diventati vere e proprie pratiche neocolonialistiche. Tali pratiche hanno visto complici anche le ONG locali che, per ottenere fondi, si sono adeguate alle idee e alla cultura dei donatori internazionali. Questo fatto ha creato diffidenza nella popolazione bosniaca nei confronti di molte ONG del proprio paese, considerate al soldo della comunità internazionale, che così poco stava facendo per capire i reali problemi del paese.
Tracce di speranza
Sono sostanzialmente tre gli elementi positivi del quadro bosniaco che oggi ci inducono a guardare con speranza allo sviluppo della società civile in Bosnia-Erzegovina. Prima di tutto in Bosnia, più che in ogni altro paese balcanico, si è sviluppata molto la stampa indipendente: radio, quotidiani e soprattutto settimanali di ottimo livello, come Dani o Slobodna Bosna. La stampa indipendente è oggi in grado di offrire una valida sponda alle attività delle associazioni bosniache, che possono finalmente affrancarsi dalla sudditanza culturale dei donatori internazionali e immergersi nella realtà socio-politica del loro paese. Ricordiamo infatti che la diffusione dei settimanali in Bosnia è oggi notevole.
Il secondo elemento positivo è dato dalla costituzione di forum e coordinamenti di ONG in tutto il paese. Questo significa che sta aumentando la consapevolezza politica delle ONG bosniache che cominciano a pensarsi come un vero e proprio soggetto di società civile, che ha intenzione di radicarsi nella realtà politica del proprio paese e di confrontarsi col potere politico su piattaforme sociali condivise da più soggetti associativi. Proprio il cambiamento del quadro politico – ed è questo il terzo elemento di speranza -almeno nelle grandi città, fa sì che ci sia una classe dirigente disposta a confrontarsi con la società civile su temi sociali concreti, al di là delle appartenenze etniche e oltre il controllo poliziesco e clientelare esercitato finora delle élites politiche nazionaliste croate, musulmane e serbe.
Bibliografia
R. IVEKOVIC, Autopsia dei Balcani, CORTINA EDITORE, 1999
In questa seconda raccolta di brevi saggi Ivekovic riprende la riflessione de "La Balcanizzazione della ragione" (Manifestolibri, riedizione 1999), dimostrandosi ancora più dura nell’analizzare le vicende balcaniche, tanto che pare non salvare nulla dell’esperienza jugoslava. L’elemento che sostiene la riflessione di tutti i saggi è quello della rottura epistemologica, che sarebbe alla base della dissoluzione della Jugoslavia, cioè lo scarto profondo tra la realtà e l’immagine che dava di sé quella società. La Jugoslavia di Tito era per Ivekovic una società fondata sulla guerra al nazifascismo e sulla rivoluzione socialista. Era quella la narrazione che fondava la nazione. Ai cittadini e alle cittadine del dopoguerra non restava altro che godere dei frutti di quella libertà conquistata dai padri, di cui si poteva essere, nel dopoguerra, solamente figli, senza preoccupazioni, né responsabilità. Grande è per Ivekovic la responsabilità degli intellettuali che non hanno saputo nel tempo proporre una nuova immagine della società jugoslava, più adeguata ai cambiamenti del mondo circostante, in cui tutti e tutte, con le loro differenze potessero specchiarsi e assumere finalmente responsabilità oltre la grande narrazione della grande patria e del grande padre socialista.
G. MARCON, Dopo il Kosovo, ASTERIOS, 2000
Dopo il Kosovo ripercorre i dieci anni di guerre jugoslave, dal punto di vista di coloro che hanno lavorato per la pace e contro i nazionalismi nei Balcani. Il libro è quindi anche il racconto di una storia collettiva, la storia di quei movimenti e di quelle associazioni che in questi anni hanno sperimentato nuove pratiche del pacifismo e della solidarietà nei Balcani. Dopo il Kosovo è anche un ottimo strumento didattico in cui possiamo trovare un’eccellente sintesi degli avvenimenti politici e militari degli ultimi anni nei Balcani, delle politiche messe in campo dalla cosiddetta comunità internazionale e delle risposte date alla guerra e ai nazionalismi dalla società civile italiana e jugoslava.
M. KALDOR, Le nuove guerre, CAROCCI, 1999
Lo Stato-nazione non è più il signore assoluto della guerra. Nell’epoca della globalizzazione lo Stato non ha più il monopolio della guerra, soprattutto nei paesi più deboli, pesantemente indeboliti dalle politiche di aggiustamento strutturale. La guerra non è più quindi sotto il controllo degli Stati né dell’ONU. La deregulation è arrivata a destrutturare anche il monopolio della violenza e della guerra: "i campi di battaglia non sono più monopolizzati dagli Stati, ma attraversati da una miriade di protagonisti, truppe regolari, milizie private o mercenarie, TV, organizzazioni non governative".
Le nuove guerre sono quindi per Kaldor il portato della crisi dello Stato nell’età della globalizzazione. Questo le permette di presentare all’interno della stessa analisi sia le guerre che hanno sconvolto i Balcani, sia quelle che hanno causato il massacro di milioni di uomini e donne nelle repubbliche centroafricane negli anni Novanta. I processi di deregolamentazione della guerra e privatizzazione della violenza riguardano, inoltre, anche i paesi più ricchi dell’Occidente.
Link a risorse in rete
Bosnet
Portale bosniaco sul paese: notizie, cultura, politica, costume e società (in inglese e serbo-croato).
Soros Foundation
Open Society Fund Bosnia-Erzegovina, è il sito sulle attività finanziate dalla Fondazione Soros in Bosnia-Erzegovina.
Associazione di cittadini per la protezione dei diritti umani
Associazione multietnica di Mostar che fornisce informazioni gratuite a profughi e sfollati che vogliono ritornare in possesso delle loro abitazioni.
Settimanale bosniaco
Settimanale bosniaco indipendente di Sarajevo con prestigiose firme del giornalismo.
Dani
Settimanale bosniaco con sede a Sarajevo. Si avvale di firme prestigiose del mondo della cultura. Molto letto dai giovani. È forse il settimanale più importante nel panorama bosniaco.
Reporter
Settimanale indipendente di Banja Luka.
Oslobodjenje
Il mitico quotidiano di Sarajevo, uscito per tutta la durata della guerra sotto l’assedio.
Bosnia on-line
Portale bosniaco su politica, cultura, salute, tempo libero, informatica, associazionismo, etc.