La Serbia immobile

Vuoti istituzionali, non definita divisione dei poteri, crimini irrisolti: la Serbia non si è mossa di molto nei tre anni successivi alla caduta di Milošević. Un commento

05/01/2004, Luka Zanoni -

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J-M. Cierniewski - Le voyage immobile

 

A qualche giorno dalla conclusione delle elezioni politiche parlamentari in Serbia, i commenti più diffusi sottolineavano il ritorno del paese agli anni ’90. "La Serbia volta a destra", "La Serbia torna indietro", "Come se fossimo all’inizio degli anni ’90", solo alcuni dei titoli o delle frasi apparse sui media in questi giorni.
Una domanda mi sia lecito sollevare: ma la Serbia è mai andata avanti? Vale a dire: se si crede che la Serbia abbia fatto un passo indietro, dopo l’attesa vittoria dei radicali, significa che si è creduto che la Serbia negli ultimi anni fosse andata avanti. Ma verso dove? Dove è andata la Serbia dopo il 5 ottobre 2000, data che tutti interpretano come la svolta storica del paese? E il 5 ottobre che tipo di cambiamento è stato per la Serbia?

Sono in molti, intellettuali liberali compresi, che hanno creduto alla possibilità di una svolta significativa. Buttare giù Milošević e ricostruire il paese, confrontarsi col passato e ridare speranza alla gente. Ahimè, tutto ciò è valso più come un anelito di cambiamento che come un’effettiva metamorfosi dal basso.
A tre anni di distanza da quella data, dalla sconfitta del potere del male e del satrapo che lo guidava, la Serbia si trova a fare i conti con la sua più grossa ipoteca: il nazionalismo.

Ma la Serbia in questi anni era guarita dal nazionalismo? era uscita dallo spirito della palanka, che il coraggioso Konstantinović aveva così ben delineato già sul finire degli anni ’60? Ossia da quell’ambiente gretto e conservatore, a metà tra il villaggio e la città, ma al contempo né villaggio né città, quale è appunto la palanka?
Se il 5 ottobre lasciava sperare ad un’uscita allo scoperto dell’Altra Serbia, di quella Serbia che – come ama sottolineare l’autore di Filosofija palanke – "non fa pace coi crimini", i fatti che gli sono succeduti hanno infranto tale speranza. La forza del nazionalismo, vero male mai tramontato di queste regioni, vibra ancora energicamente nella retorica politica e nella testa della gente, che a questa politica presta fede.

Nessun confronto col passato, poca voglia di entrare in un difficile processo di catarsi, che metterebbe in discussione la propria coscienza, le proprie credenze, ma innanzitutto imporrebbe di riconoscere il male che ha attraversato questi luoghi. Da questo punto di vista la Serbia non si muove.
Nonostante si possa affermare, coi numeri alla mano, che l’elettorato serbo ora si è meglio definito (i voti complessivi delle cosiddette "forze del vecchio regime" sono inferiori a quelli di un tempo: oggi poco più di 1.300.000 voti circa contro gli oltre 2,5 milioni degli anni ’90), e che quindi la vittoria dei radicali esprime più che altro, ma in modo inconfutabile, la loro leadership nello schieramento delle forze del vecchio regime, senza sottrarre gran che alle cosiddette forze democratiche che si sono affermate il 5 ottobre 2000.

Tuttavia, occorre guardare da vicino queste forze democratiche: una coalizione che ha puntato nella campagna elettorale sul ritorno della monarchia, un partito formato da esperti economisti di area liberista, un malconcio partito del premier morto nella difficile fase di repulisti interno, e un partito di "radicali coi guanti" per certi versi affine ai vittoriosi radicali, tanto da valergli un invito all’alleanza in un ipotetico nuovo governo.
Cosa hanno fatto le forze democratiche dopo il 5 ottobre 2000? Non possiamo nascondere la scena dei cambiamenti, ma nemmeno il suo retro. L’accoglienza nel Consiglio d’Europa, contro la morte del premier; le riforme dell’esercito, contro la persistenza di unità speciali di dubbio controllo e implicate in crimini di guerra; le migliorate relazioni economiche con gli USA, contro il commercio d’armi e i mancati pagamenti degli stipendi degli operai; la privatizzazione delle migliori industrie del paese, contro un milione di disoccupati; un paio di processi in patria relativamente a crimini di guerra consumati nel corso delle guerre degli anni ’90, contro la assenza di un processo di elaborazione della verità e della riconciliazione. Che fine ha fatto la commissione di Koštunica?

All’interno del blocco di partiti vincitori del 5 ottobre ci sono state le più feroci guerre e attacchi, colpi bassi e senza scrupoli, tanto da portare gradatamente alla morte della stessa Opposizione democratica della Serbia, da allora al governo.
Il paese procede senza istituzioni, senza una definita divisione dei poteri, con una forte criminalità e corruzione negli apparati dello stato, con la situazione dei media ancora da determinare, senza un presidente della repubblica, senza una legge sul terzo settore, e non da ultimo senza una nuova costituzione post Milošević.

Sensibile come altrove alla pesante insoddisfazione sociale (quasi un quinto della popolazione vive sotto la soglia di povertà), nazionalismo e populismo la fanno ancora da padrone, e su questo bisognerebbe interrogarsi a fondo. Chi lo ha fatto per diversi anni si trova ancora oggi a vedere una Serbia immobile. Nonostante la scomparsa del male peggiore, la Serbia non esce dal nazionalismo e dalle sue secche, vero habitat di un pensiero intento a produrre atti puramente egocentrici, malcelati da condizionate aperture verso l’esterno.
Secondo Filip David, uno dei protagonisti con Konstantinović di quell’Altra Serbia, "Il nuovo pragmatismo politico è pronto a riconoscere il nazionalismo come ideologia, ma il nazionalismo in senso politico ed etico è una forma dell’ideologia totalitaria. È assurdo che i partiti politici di orientamento democratico cerchino il consenso, sulle questioni importanti, dei partiti nazionalisti e di orientamento non democratico".

Ecco, forse è proprio questo il vero dramma della Serbia, cioè che i partiti democratici non abbiano saputo prendere definitivamente il largo dalle istanze nazionalistiche mai assorbite in questi anni.Piuttosto temono questo passo, per la connessa possibilità di perdere ulteriore consenso e relativi punti politici. Cosa, che con ogni probabilità, la cosiddetta comunità internazionale non solo non ha ancora capito, ma non sembra nemmeno capace di favorire.

Solo quando saranno portati alla luce i numerosi crimini, dagli omicidi politici alle fosse comuni, solo quando saranno costruite le istituzioni centrali del paese e quando esse permetteranno un confronto col passato, quando la politica sarà veramente democratica, allora sarà il tempo di un’altra Serbia. Per ora quella attuale procede immobile e c’è da chiedersi come ciò sia possibile.

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