La Serbia dopo lo status di candidato UE

Svanite le prime reazioni alla decisione del Consiglio europeo di accogliere la candidatura della Serbia a membro dell’UE, sia i politici che i cittadini prendono coscienza degli impegni che li attendono. Quali lezioni si possono trarre dai precedenti allargamenti UE?

15/03/2012, Aleksandra Mijalković - Belgrado

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Porta dell'Europa, Belgrado (2009) - foto Limbic

L’acquisizione dello status di Paese candidato UE per la Serbia è un grande risultato ma non è di certo epocale. Epocale sarà quando la Serbia diventerà membro dell’Unione europea. E anche diventare membro non è che un obiettivo formale, perché il vero obiettivo è una vita migliore per tutti i cittadini.

Queste parole del presidente della Serbia Boris Tadić illustrano forse più di ogni altra il sentimento che regna in Serbia dopo la lunga attesa di buone notizie. Dopo tutte le richieste, obiezioni e avvertimenti indirizzati dall’UE e da alcuni suoi membri sul conto di Belgrado, lo status di candidato, benché giunto in ritardo, è la prima conferma ufficiale che questo Paese è sulla buona strada, che può essere considerato un luogo di libertà, di democrazia e di valori europei accettati, che si è spinto verso le riforme e (soprattutto) che ha migliorato la sua immagine internazionale, ha rinforzato le buone relazioni tra i vicini regionali, e infine ha ottenuto una possibilità in più per un maggiore sostegno dell’UE verso un ulteriore sviluppo economico e politico.

I partiti di governo su questo costruiranno la loro campagna alle imminenti elezioni politiche e amministrative (6 maggio prossimo), anche perché non hanno molto altro di che essere orgogliosi. Per i cittadini della Serbia che devono fare i conti quotidianamente con aumenti dei prezzi, disoccupazione e corruzione, la lontana prospettiva di diventare membro UE è vista sempre più come “qualcosa di cui occuparsi domani”, se e quando avranno superato le difficoltà dell’oggi. Alle domande dei giornalisti che chiedevano cosa si aspettano dallo status di paese candidato all’UE, la maggior parte ha risposto sorridendo che è una buona cosa, che sono orgogliosi e felici, ma non vedono alcun guadagno da questa decisione.

Alcuni hanno espresso il dubbio che, indebolita dall’attuale crisi economica, l’Unione europea non sarà più la stessa una volta che entrerà la Serbia, considerando a che punto è del processo di adesione (una barzelletta molto in voga in questi giorni dice che la Serbia entrerà nell’UE quando sarà il turno di presidenza della Turchia).

Altri invece sobriamente ritengono che è più importante quello che si fa per se stessi, sfruttando l’aiuto e l’esperienza dell’UE, per poter diventare una vera società democratica ed economicamente sviluppata.

Altri ancora, la minoranza, ritengono che lo status di candidato sia solo una concessione per fare in modo che i serbi rinuncino al “loro santo Kosovo”.

Speranze: migliori standard e più investimenti

Quali sono stati i commenti dei politici di governo?

La presidente del parlamento serbo Slavica Đukić Dejanović crede che la Serbia con lo status di candidato UE abbia ottenuto la possibilità di poter offrire ai propri cittadini un migliore standard di vita, un’economia più florida e la soluzione ad alcune questioni nazionali.

Per il presidente del parlamento della Vojvodina Bojan Pajtić lo status di candidato è un segnale forte che indica che la Serbia è un Paese pronto dal punto di vista formale e giuridico per attrarre investitori stranieri, che è in grado di salvaguardarli e offrire loro le condizioni per avere successo. All’agenzia Tanjug ha precisato che in Vojvodina oltre l’80% degli investitori stranieri già proviene dai Paesi UE. Pajtić ha inoltre aggiunto che questo passo formale verso l’UE apre la porta ai fondi di adesione europei, soprattutto per le infrastrutture e l’agricoltura, quindi su settori particolarmente importanti per la Serbia.

Secondo il ministro serbo per il Kosovo e Metohija Goran Bogdanović “l’ottenimento della candidatura UE dimostra che si può condurre allo stesso tempo una politica pro-europea e una politica che difenda gli interessi statali e nazionali senza rinunciare a parti del proprio territorio”.

Condizioni: Kosovo e avanti con le riforme

Dopo le prime reazioni in cui, comprensibilmente, il governo ha dimostrato più entusiasmo dei cittadini, è seguito un attento esame di cosa deve aspettarsi la Serbia dopo l’ottenimento della candidatura, che non è nient’altro che un passo in più verso un radicale cambiamento dello stato e della società, e di questo sono consapevoli sia i politici che tutti quelli che hanno a che fare con l’integrazione europea, ed anche gli stessi cittadini. Con sempre più interesse si guarda infatti a come sono riusciti gli altri Paesi a fare questi cambiamenti coniugandoli con gli impegni dell’”agenda europea”.

Quale sarebbe allora la condizione più importante per l’avvio dei negoziati di adesione tra la Serbia e l’Unione europea? “Un ulteriore miglioramento delle relazioni con il Kosovo”, risponde la direttrice dell’Ufficio governativo per l’integrazione europea Milica Delević in un’intervista per il portale EurAktiv .

“La Commissione ha definito prioritario l’avanzamento delle relazioni tra Belgrado e Pristina e credo che esaminerà l’applicazione di quanto concordato, il raggiungimento di nuovi accordi nei settori dell’energia e delle telecomunicazioni oltre alla creazione delle condizioni affinché la missione Eulex possa svolgere il proprio mandato su tutto il territorio del Kosovo”, ha precisato Delević.

Ritenendo che i negoziati prendano il via a breve, Delević afferma che l’UE aspetta dalla Serbia il proseguimento delle riforme e l’avanzamento delle relazioni con i Paesi membri dell’UE, e aggiunge: “È importante  continuare la comunicazione e la costruzione della fiducia e comprensione presso i membri UE, perché il loro obiettivo finale, a prescindere dalla differenze tra di loro, resta l’integrazione di tutta la regione nell’Unione europea”.

Ma che lezioni può trarre la Serbia dagli ultimi allargamenti?

Insegnamenti: prima cosa, sradicare corruzione e criminalità

Nel manuale sulla politica dell’UE, pubblicato di recente dal Movimento europeo in Serbia in collaborazione con il centro studi slovacco Associazione per lo sviluppo della collaborazione, intitolato “Libertà, sicurezza, giustizia” a firma di Tanja Miščević e Nataša Dragojlović si indicano sei insegnamenti. 

Il primo dice che uno degli ostacoli principali ai negoziati è la cattiva immagine che l’opinione pubblica europea ha dei Balcani come fonte di instabilità, oltre che “esportatori” e via di transito di criminali dall’Asia verso l’UE. Ecco perché servirebbe convincere i ministri degli Interni e degli Esteri dei membri UE ad appoggiare la Serbia perché si impegni nella lotta contro la criminalità transnazionale. 

Il secondo ci insegna che la condizionalità relativa all’adeguamento agli standard per diventare membro cessa di funzionare appena viene confermata la data di ingresso. L’esperienza della Romania e della Bulgaria ha mostrato che è stato più facile condurre una riforma economica e adottare l’acquis comunitario (cosa che fu fatta prima della certezza dell’adesione all’UE) piuttosto che  introdurre lo stato di diritto, ossia sgominare la corruzione e la criminalità organizzata (processo che non è terminato nemmeno dopo l’adesione all’UE). Difficilmente Bruxelles ripeterà lo stesso errore con gli altri candidati dei Balcani.

Il terzo insegnamento, collegato al precedente, dice che il capitolo negoziale più difficile (quello che riguarda la magistratura e gli affari interni), che negli altri paesi è stato trattato come ultimo, da ora  in poi sarà il primo ad essere aperto, secondo quanto confermato dalla nuova Strategia di allargamento UE.

Il quarto insegnamento è che i meccanismi di controllo sui progressi raggiunti nell’integrazione europea (con possibilità di “sanzione” in caso di abbandono delle riforme) dovrebbero essere mantenuti anche dopo l’ingresso nell’UE. Questo è stato applicato nel caso della Romania e della Bulgaria (uno dei criteri era il successo delle indagini sulla corruzione di alti funzionari), una simile prassi è stata introdotta anche per la Croazia (durante il monitoring di preadesione, e questa clausola di salvaguardia farà parte anche dell’Accordo di adesione), mentre la Serbia e la Macedonia sono state minacciate con la reintroduzione dei visti Schengen se non si ferma il flusso di richiedenti asilo proveniente da questi due Paesi.

Il quinto insegnamento si riferisce alla richiesta della Commissione europea secondo la quale anche i paesi che hanno adottato l’acquis comunitario nell’ambito degli affari interni e della magistratura devono dimostrare di metterlo in pratica e avere risultati tangibili (in Romania e Bulgaria erano gli arresti, le accuse e le sentenze di primo grado contro funzionari di governo corrotti e leader di gruppi criminali, laconfisca dei loro beni, mentre in Croazia è stata l’accusa contro l’ex premier Ivo Sanader, e in Montenegro l’arresto del gruppo guidato dal fratello del presidente Marović).

Il sesto insegnamento è che una severa condizionalità può esserci anche là dove non esistono standard unici all’interno dell’UE, diciamo per esempio quando si parla della democratizzazione della polizia, ossia dei meccanismi  interni ed esterni di controllo da parte del parlamento, che si differenziano da paese a paese membro UE. Il parlamento della Serbia potrebbe attivare questo controllo  chiedendo al ministero degli Interni e a quello della Giustizia rapporti sui risultati raggiunti, le risorse spese e i piani di riforma. In questo senso è particolarmente importante la collaborazione con il Comitato per la difesa e la sicurezza e il Comitato per l’integrazione europea.

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