“La Scelta”
Intervista a Marco Cortesi, attore e regista de “La Scelta. E tu cosa avresti fatto?” tratto dal libro di Svetlana Broz “I giusti nel tempo del male. Testimonianze dal conflitto bosniaco”, Edizioni Erikson
Sette testimonianze di atti di coraggio e solidarietà durante il conflitto bosniaco: a cavallo tra documentario e teatro narrazione per uno spettacolo che è la seconda opera sui diritti umani, dopo “Le donne di Pola”, messa in scena da Marco Cortesi e Mara Moschini. Lo spettacolo è in tour per l’Italia, nei teatri e nelle scuole, e sarà in scena a Milano presso ZonaK, via Spalato 11, il 26 novembre alle 20.30 in collaborazione con Amnesty International – Gruppo94 (www.amnesty94.it) all’interno della campagna “Per un’ Europa senza discriminazione”.
Marco, che fa della sua arte una forma di attivismo, ha risposto alle nostre domande su scelte, messaggi e riflessioni rispetto a quest’opera e a ciò che vi sta dietro.
Marco Cortesi, attore e regista: guardando il tuo sito il sottotitolo è “Raccontare storie che aprano gli occhi alla gente, che la scuotano dal torpore di una quotidianità dove tutto è come sempre”. Cosa vuol dire per te “raccontare storie”?
Raccontare storie per risvegliare coscienze risponde all’esigenza di utilizzare il mio mestiere, quello dell’attore, per comunicare qualcosa che faccia riflettere e che faccia diventare prezioso il tempo. Infatti, il grande contrasto che ho sperimentato nel mio lavoro è che l’obiettivo è intrattenere e far passare il tempo e il messaggio che tutto vada bene. Da questo deriva il bisogno di contrastare l’annullamento delle coscienze e, per cercare di farlo, ho scelto il teatro di narrazione: sostanzialmente senza niente, al massimo una sedia o poco più, viene raccontata una storia che, senza mezzi né effetti speciali, assume un forte potere evocativo. E’ una forma di teatro molto intensa e, grazie alla fantasia, i messaggi diventano spesso autoreferenziali.
Come sei arrivato a parlare di Bosnia e di ex-Jugoslavia?
Avevo poco più di 19 anni quando sono andato a Sarajevo e, prima ancora, in un campo profughi che si chiamava Kamp Kamenjak a Pola, in Croazia, da cui è nato lo spettacolo “Le donne di Pola”. Come esperienza è stata un pugno nello stomaco: ricordo che eravamo su un Ducato Fiat e io discutevo con un mio amico il regalo che avrei chiesto ai miei genitori per il mio compleanno; poi siamo arrivati in un paese devastato dalla guerra e tutto quello che sembrava importante prima, ora non lo era più. Il paradigma di valori si ribalta e si cambia. E adesso, ritorno a raccontare queste storie perché, anche se sono di altre persone, io vedo i volti di quelli che mi hanno raccontato storie molto simili a queste dello spettacolo raccolte invece da un’altra autrice che è Svetlana Broz.
Hai citato Svetlana Broz, autrice del libro “I giusti nel tempo del male. Testimonianze dal conflitto bosniaco” da cui è tratto lo spettacolo. Hai avuto modo di confrontarti con lei in merito alle testimonianze che ha raccolto?
Con Svetlana ci siamo sempre scritti. Lei aveva già pubblicato questo libro “I giusti nel tempo del male” e io da tempo ero in contatto con questa sorta di mecenate che aveva promosso i miei lavori, Prof. Andrea Canevaro, pedagogo e scrittore dell’Università di Bologna. Lui stava curando la prefazione del libro di Svetlana e io venni contattato per una lettura pubblica di alcune storie tratte da questo libro, ancora non pubblicato in Italia, e rimasi scioccato. Quando finalmente il libro uscì anche nel nostro paese, grazie alla casa editrice e a Svetlana che ha rinunciato ai diritti, siamo riusciti a portare alcune di queste testimonianze in uno spettacolo teatrale.
Leggendo il libro emerge una questione che potremmo definire di scelte linguistiche e di punti di vista: molto spesso, parlando delle guerre in ex-Jugoslavia, è difficile definire cose, avvenimenti e persone con le parole giuste. Questo libro ha un punto di vista completamente diverso: il focus tematico sul coraggio e la solidarietà, se pur in mezzo alla guerra, è forte e positivo. In che modo hai affrontato questo cambio di prospettiva rispetto al conflitto? Ti ha aiutato raccontarlo ma in termini positivi?
Per rispondere a questa domanda ritorno un attimo all’opera “Le donne di Pola”: quando mettevo in scena lo spettacolo la gente si alzava devastata perché raccontavo di un viaggio all’inferno. Volutamente, in quel caso, inserii alla fine un accenno di speranza vaga perché le cose sarebbero andate meglio. Mi rendevo però conto che si trattava di una semplificazione: io dicevo che le persone avevano perdonato, e questo è vero, solo in parte. Secondo me l’opera di Svetlana rappresenta un passo in quella direzione: lei afferma e soprattutto testimonia la presenza di persone giuste in mezzo all’odio. Questo spettacolo, che è un documentario in forma teatrale e per questo ha una carica di realtà significativa, cerca di far capire che esiste e può esistere il bene in mezzo al male; non per qualche fortuita ragione ma se qualcuno ha scelto di fare A e non B. Il messaggio è universale e per questo alla fine dello spettacolo c’è un pezzo dal titolo “Non posso” che ha alla base il senso che non esiste un potere che conduce le azioni ma è sempre e solo volontà. La domanda è “Non puoi o non vuoi?”. Se queste persone, con tutto ciò che gli andava contro, hanno scelto di rischiare la vita per aiutare un altro essere umano che sulla carta era un nemico, hanno scelto di fare la cosa giusta, noi non abbiamo scusanti per dire “non posso farci niente”.
Quindi speranza e umanità al centro dello spettacolo…
La forza di questo spettacolo, e lo confermano i commenti dal pubblico, è che le storie sono trasversali e universali e, secondo me, questa è anche la ragione per cui il libro è stato tradotto in così tante lingue e ha ricevuto molti riconoscimenti. Sono storie di coraggio in tempo di guerra ma anche coraggio nella quotidianità di ognuno: è un invito ad un coraggio alla Mark Twain “resistenza alla paura e dominio della paura, non assenza di paura” per seguire i propri ideali e principi in nome di quello che deve essere fatto. L’invito alla scelta spinti dalla vocina che dice “voglio questo”. Devo dire che abbiamo avuto prova dell’universalità del messaggio soprattutto presentandolo alle scuole e ai ragazzi nati dopo la guerra e il discorso sui Balcani: ricordo un ragazzo che mi ha detto “noi siamo sempre lì a dire che tanto ci penserà qualcun altro ma, hai ragione, di fronte ai problemi possiamo fare qualcosa” ed ha colto esattamente quello che volevamo comunicare, un po’ come fa Amnesty.
Rispetto alla tua scelta di prendere contatti con Amnesty International e di proporre ai gruppi la tua forma individuale di attivismo: come hai preso contatti e perché?
La collaborazione con AI è nata qualche anno fa con “Le donne di Pola”. Mandai una mail ad un gruppo Amnesty in Puglia mettendo come oggetto “Mi piacerebbe darvi una mano”. Organizzammo lo spettacolo e ci furono varie repliche in Veneto, Emilia, Lombardia, Toscana tant’è vero che mi dissero “volevi darci una mano e abbiamo preso anche il braccio”. L’aiuto e la collaborazione con i gruppi di Amnesty sono fantastici e mi piace che questo spettacolo possa essere un palco, anche per AI, per parlare e raccontare. In più è una formula dove vincono tutti: senza diritti e senza scopo di lucro ha come fine quello di essere utile agli utenti finali, a chi ascolta. Tutto parte con la logica dell’entusiasmo, del fare qualcosa per gli altri ed è incredibile come tutto torni indietro. Io sono legato ad Amnesty da un debito di gratitudine perché fu la prima associazione a credere e a organizzare uno dei miei spettacoli. Improvvisamente ho visto che la mia arte, il mio mestiere, poteva essere utile. Alcune scelte sono obbligate e io non potrei fare altro che questo. È quello che dà il senso e la luce a tutto.
*Chiara Moscardo è membro del Gruppo94 – Amnesty International