La Sapienza in bilico di Trebisonda
Trebisonda è una città estrema, millenario snodo di scambi e di passaggi. Tra i suoi dedali sorge la chiesa di Santa Sophia che in questi giorni sta vivendo una singolare vicenda parallela con la più famosa basilica omonima di Istanbul
‘Perdere la trebisonda’ è un modo di dire letterario, cui i dizionari attribuiscono il significato di ‘spazientirsi’, ‘confondersi’, ‘perdere la testa’. Incerta è la causa del sorgere della locuzione, ma sicuro ne è il riferimento geografico: Trebisonda, oggi Trabzon, è una città portuale turca di quasi 400.000 abitanti sulle coste meridionali del Mar Nero, non lontana dagli attuali confini con gli Stati caucasici e dirimpettaia delle regioni russe e ucraine di quel mare.
E’, se vogliamo, una città estrema, millenario snodo di scambi e di passaggi: uno di quei luoghi che gli incalliti viaggiatori vorrebbero, o dovrebbero una volta o l’altra raggiungere. Vi fece tappa Marco Polo nella sua spedizione in Cina; è stata per secoli il capolinea di una delle diramazioni della Via della Seta; e fu affacciandosi dagli altissimi monte alle sue spalle che, un bel giorno di 2400 anni fa, gli esausti mercenari greci guidati da Senofonte in un rocambolesco ritorno in patria, rivedendo per la prima volta quella distesa d’acqua ben nota gridarono il famoso ‘thàlatta! thàlatta!‘ (il mare! il mare!).
Una mattina d’agosto sono salito su quello stesso varco tra i monti, lo Zigana Geçidi (‘passo di Zigana’), provenendo però dalla città: nubi basse e gonfie di pioggia riempivano ogni cosa, impedendo la visuale non solo verso il mare lontano, ma anche sulle case e gli alberi più vicini. Perché – è bene dirlo subito – Trebisonda è affascinante, vivace e indimenticabile: ma il suo clima può lasciare l’amaro in bocca a noi mediterranei. Anche in piena estate i venti spiranti dal bassopiano sarmatico (l’antica Scizia) sorvolano veloci e senza ostacoli la steppa euroasiatica, spazzano il Mar Nero agitandolo e catturandone il vapor acqueo, s’innalzano e si raffreddano andando a incocciare sulle Alpi Pontiche (quelle tagliate dal Passo di Zigana), per ricadere infine sulle sottostanti città costiere turche: non necessariamente con piovaschi impetuosi, ma con uno stillicidio di goccioline; e, soprattutto, una forte umidità.
Può sembrare un difetto, ma è una benedizione: l’abbondanza d’acqua a questa latitudine (siamo sul parallelo di Napoli) rende le coste collinose del Mar Nero verdi e fertili, come è facile dedurre dall’abbondante produzione di nocciole e dalle onnipresenti piantagioni di tè. E comunque, quando il cielo di tanto in tanto si rasserena, l’intera città inizia a scintillare con le sue possenti fortificazioni, gli svettanti minareti, i tondeggianti hamam e le quiete chiese bizantine; mentre il mare sullo sfondo da nero si fa azzurro, un azzurro chiaro e luminoso per via delle acque insolitamente dolci. Trebisonda si manifesta allora in tutto il suo splendore: uno splendore imperiale. Poiché di un vero e proprio impero fu capitale questa città, sita ai confini estremi dell’Europa: del resto, parrebbe discutibile far terminare il nostro continente un migliaio di chilometri prima, sul Bosforo, se solo pensiamo che è qui che sorse l’ultimo dei palazzi della Roma imperiale.
Il perché è presto detto: se Costantinopoli fu per un millennio la ‘Seconda Roma’, sede degli imperatori romani d’Oriente, alcuni discendenti della dinastia regnante dei Comneni si insediarono a Trebisonda già prima che i crociati Latini si impadronissero temporaneamente della capitale bizantina nel 1204; per poi sopravviverle, anche dopo che il sultano Mehmet II la conquistò definitivamente con il memorabile assedio del 1453.
Rimasta così l’ultimo scampolo dell’impero fondato da Augusto e rifondato cristianamente da Costantino, Trebisonda, circondata ormai da tutti i lati dalla irresistibile potenza ottomana, tenne duro per altri otto anni. Finché lo stesso Mehmet detto il Fatih (Conquistatore) la prese nel 1461, destituendo e poi decapitando l’ultimo imperatore, Davide II Comneno.
Per tutto l’Occidente le conseguenze economiche e politiche del passaggio della città sotto il dominio dei Turchi furono ingenti. Quel porto era da sempre fondamentale per i commerci con l’Oriente, il suo faro un punto di riferimento indispensabile per le perigliose navigazioni sulle onde nervose del Mar Nero. Fu forse allora che ‘perdere la trebisonda’ iniziò ad assumere il suo senso traslato.
Ancor oggi, chi viaggia verso il Caucaso e poi l’Asia centrale non può che far tappa qui, nell’ultima grande città romano-bizantina sulla via dell’Oriente. Dismessa da alcuni anni la linea di traghetti che, balzando da un porto all’altro, vi approdava collegandola regolarmente con Istanbul, l’unico modo per giungervi senza ricorrere all’aereo è percorrere la lunghissima litoranea che segue la costa del Mar Nero: talora passando per gli operosi paesi di pescatori e le cittadine agricole, i cui abitanti l’attraversano perigliosamente e di corsa in mancanza di semafori; talaltra, scavalcando le città maggiori grazie ad una provvidenziale circonvallazione.
A Trebisonda, nulla di tutto questo: ti trovi da un momento all’altro al di sotto delle mura che ne serrano il cuore imperiale, oggi come al tempo dell’assedio di Mehmet. Quella che si chiama Orta Hissar (‘fortezza di mezzo’) racchiude infatti il tavolato naturale leggermente digradante sul quale la città fu fondata da coloni greci, nel lontano VIII sec. a.C.
A questa collocazione la città deve il suo nome, in antico Trapezunte (da trapeza, ‘tavola’ in greco). Due ponti in muratura, uno di età romana, l’altro bizantino, collegano ancora la trapeza ai quartieri esterni della città, mentre altri viadotti più larghi e moderni tentano di smaltire il traffico di camion, pullman, veicoli privati e strombazzanti taxi collettivi – i dolmuş – che tessono incessantemente i loro fili tra oriente e occidente.
A dispetto di qualche pubblicazione locale che si ostina a non citare esplicitamente il nome dei Greci quali antichi abitatori – chiamandoli in modo più criptico ‘Milesi’ (cioè provenienti da Mileto: peraltro colonia greca della Ionia) – o ad attribuire la sua fondazione a generiche ‘tribù turche’ che vi sarebbero giunte nientemeno che attorno al 2000 a.C. (cosa assai improbabile, poiché saremmo a tremila anni prima dell’effettivo arrivo dei Turchi in Anatolia), la duratura presenza degli Elleni del Ponto traspare continuamente dagli edifici di Trebisonda.
Eleganti dimore signorili, ristrutturate o in rovina, dipingono con uno sbiadito colore pastello le pendici delle alture di questa città dalla superficie sempre mossa e dalle irregolari pendenze, attraversata da un reticolo disordinato di vicoli e di strade. Qua e là resistono chiesette solitarie e dall’aria semiabbandonata, come la deliziosa Sant’Anna del IX secolo; oppure dall’aria solenne e ancor oggi molto frequentate, ma solo perché trasformate in moschee: come la cattedrale della ‘Madonna dal Capo Dorato’ (Panaghìa Krisokèfalos), ora dedicata al Fatih, nella quale per due secoli e mezzo vennero incoronati gli imperatori di Trebisonda.
Alcuni palazzi ben restaurati risalgono ai primi del Novecento e appartenevano ad imprenditori greci che magari li facevano progettare da architetti italiani: come quello che ospita l’attuale Museo archeologico. Quando si entra si è accolti da un affascinante Hermes in bronzo dalle dimensioni naturali, che ti guarda colle sue pupille immote, quasi incredulo d’essere racchiuso in una pesante teca di vetro. Tutto, insomma, fa sì che non sembrino fuori luogo i numerosi turisti greci che d’estate si riuniscono a chiacchierare ad alta voce attorno ai tavolini della centrale Atatürk Meydanı, mentre si riprendono con un tè saporoso dalle stancanti escursioni in città e nei dintorni: tra tutte, quella al venerato santuario della Madonna Santissima di Soumela, abbarbicato sui monti pontici.
E in effetti decine di migliaia di greci vivevano qui quando lo scambio di popolazioni, imposto dal Trattato di Losanna del 1923, svuotò praticamente Trebisonda, così come tutte le coste del Mar Nero e dell’Anatolia, di coloro che le avevano abitate da 28 secoli. Pare che in complesso i ‘Pontici’ che giunsero profughi nella penisola ellenica ammontassero a 350.000 persone.
L’odierna Trabzon pare immersa nel benessere, ricca com’è di mercanzie di ogni genere; e ha ripreso, specie dopo la caduta della ‘cortina di ferro’, un aspetto cosmopolita, determinato in gran parte dalla forte presenza di russi e caucasici venuti qui per affari o per passatempo, dediti alle compere o alle attività professionali più disparate, sempre fiorenti nelle città prossime a confini ben transitabili e dotate di porti di mare. L’atmosfera pare molto più laica rispetto a quella delle retrostanti città dell’altipiano anatolico: è raro qui vedere donne dal volto coperto; al massimo indossano con disinvoltura foulard multicolori e dai disegni alla moda. Forse anche questo clima disinibito e apparentemente tollerante sta alla base di alcune delle spiegazioni che furono date, pure in occidente, dell’assassinio del prete cattolico don Andrea Santoro, avvenuto in città il 5 febbraio del 2006: e cioè, che il ragazzo appena sedicenne accusato di quell’omicidio, compiuto a colpi di pistola, fosse stato manovrato da frange estreme nazionaliste, piuttosto che islamiste; e che, comunque, quello suo era ‘un gesto isolato’. Ma è bene non dimenticare che la Turchia è paese complesso e stratificato, animato dalle componenti più varie e disparate: se ciò da un lato gli conferisce enorme fascino, dall’altro apre la strada agli eventi più sconcertanti.
In fondo, da questa città dove i supermercati ti accolgono sotto la suggestiva insegna di ‘Eurasia’, sono venuti sia il Cardinal Bessarione, l’umanista greco fondatore della biblioteca Marciana di Venezia – uno dei padri del nostro Rinascimento -, sia Solimano il Magnifico – qui chiamato Kanuni, il ‘legislatore’ – sotto il quale l’impero ottomano raggiunse il suo apogeo espansionistico.
Chi volesse per qualche ora sfuggire al vivace ma caotico movimento di questa città dedalica, ma che non vorresti mai finire di girare a piedi in lungo e in largo, può recarsi a visitare una magnifica oasi di pace nella sua periferia occidentale, lungo la strada per Giresun. Qui, su un promontorio affacciato sopra il mare, sorge la chiesa più suggestiva e meglio conservata di Trebisonda: Aghia Sophia.
Fu costruita nel XIII secolo, quando questo scampolo d’impero era all’apice dello splendore e i Comneni si definivano ‘imperatori e autocrati dell’intero Oriente, dell’Iberia e della Perateia‘: cioè, oltre che della parte orientale dell’Impero, delle terre del Caucaso e di quelle ‘sull’altro versante’ del Mar Nero.
Come la sua più celebre omonima di Istanbul, anche la ‘Santa Sofia’ di Trebisonda fu utilizzata a lungo come moschea; e ciò sino al 1964, quando, a seguito di importanti restauri, vennero riportati alla luce alcuni begli affreschi bizantini che erano stati ricoperti di calce dagli ottomani: visto che, come è noto, nei suoi luoghi di culto l’Islam non tollera rappresentazioni figurative. Da allora l’edificio è stato trasformato in un museo, e come tale funziona.
Gruppi organizzati di turisti vi si recano a visitare i policromi interni, ma restano sorpresi dinanzi alle sculture della facciata meridionale dove scenette bibliche in rilievo della Genesi si associano a centauri e grifoni più consoni alla tradizione pagana. Alta, sopra il portale, domina l’aquila monocefala dei Comneni, certo meno pretenziosa di quella bicipite della Costantinopoli imperiale, ma dal cipiglio altrettanto fiero. Più prosaicamente la visita si conclude poi in un giardinetto da tè, affiancato dai resti riassemblati di un tempietto di marmo, e in una sosta ad una vicina gioielleria che vende bracciali e collane in fili d’argento lavorati come fossero una maglia tessuta all’uncinetto, specialità dell’artigianato locale.
Le basiliche omonime delle due città, la Santa Sofia di Istanbul e quella di Trebisonda, stanno vivendo in queste settimane una sintomatica vicenda parallela. Si tratta di progetti che hanno sollevato qualche preoccupazione e un dibattito a livello internazionale.
Ma prima di parlarne è bene ricordare che Sofia non è qui il nome di una santa: è piuttosto la stessa ‘Sapienza Divina’. Come tale, non è legata a dei luoghi specifici da determinate vicende, e difatti le chiese ad essa dedicate furono innalzate ovunque: ovunque purché, ovviamente, si trattasse di siti o città di particolare rilievo.
Il grandioso edificio sacro dell’antica Costantinopoli fu non per nulla sede del Patriarcato Ortodosso per ben 916 anni, mentre per altri 482 dopo la conquista ottomana venne usato come moschea; poi anch’esso, come la chiesa di Trebisonda, fu trasformato in museo sempre aperto alle visite di tutti. E ciò accadde nel 1935, addirittura ‘per ordine di Atatürk’ (come ricorda il sito internet del governo dedicato all’Ayasofya Muzesi).
Ora, la notizia che ha scosso il mondo greco-ortodosso è stata quella della proposta, rivolta al governo turco da un gruppo di fedeli islamici, di trasformare nuovamente la basilica di S. Sofia a Istanbul in moschea aperta al culto. E questo mentre, con curioso tempismo, una stessa decisione pare sia sul punto di essere presa dalle autorità competenti anche per l’Aghia Sophia di Trabzon.
Gli affari religiosi in Turchia non sono gestiti da una gerarchia religiosa indipendente, ma trattati da un apposito dicastero statale: è un lascito del controllo imposto da Atatürk su questo fondamentale aspetto della vita del paese. Fondamentale perché proprio sulla religione islamica si reggeva il Califfato ottomano abbattuto nel 1924 a seguito del successo della sua rivoluzione nazionalista. Il ‘Padre dei Turchi’, che riformò radicalmente la Turchia degli anni Venti e Trenta del secolo scorso facendone un paese laico, voleva così contrastare possibili risorgenze islamiste. Paradossalmente, ora che al governo della Turchia c’è invece un partito di ispirazione islamica, è ai suoi dirigenti, a quelli del ministero della Cultura in particolare, che spetta la decisione se accogliere o respingere le richieste di una base di fedeli (quanto effettivamente ampia non si sa) che vorrebbe di nuovo destinare alla preghiera questi due edifici simbolo per l’Europa orientale.
Insomma, a Istanbul come a Trabzon in ballo non c’è solo la destinazione d’uso di due capolavori – uno dei quali paragonabile, per importanza storica e religiosa, alla Basilica di S. Giovanni in Laterano – ma anche la sopravvivenza di due casi paradigmatici di quella laicizzazione avviata dal fondatore della Turchia moderna.
Come si comporterà il governo islamico moderato guidato da Recep Tayyip Erdoğan? Da un lato sono giunte le prevedibili opposizioni pubbliche del Patriarcato Ortodosso del Fener, erede morale del tramontato impero bizantino e a tutt’oggi il più prestigioso rappresentante della Cristianità d’Oriente, il quale, con un certo understatement, osserva che ‘a Trebisonda non vi è alcun bisogno urgente di nuove moschee’. Per non parlare poi di Istanbul.
Ma, d’altro lato, è chiaro che la richiesta non è stata certo presentata per effettiva esigenza di nuovi spazi di culto. E infatti i commenti sulla rete alla notizia, ripresa anche dai giornali turchi di lingua inglese, vedono incrociarsi gli argomenti di chi rivendica il diritto di tornare a pregare in luoghi sacri secondo lui ingiustamente sottratti ai fedeli, con quelli di chi paventa il giudizio dell’opinione pubblica internazionale – che accuserebbe in tal caso la Turchia di essere ripiombata nel conservatorismo illiberale – e perciò preferisce veder mantenuta intatta la ‘neutralità’, e quindi il carattere di monumenti appartenenti all’intero genere umano, di quelle che furono, non a caso, dimore di una trascendente ed imparziale ‘Sapienza divina’.
C’è da augurarsi che chi dovrà prendere la fatidica decisione si lasci ben ispirare da quest’ultima. E che nessuno, come si suol dire, ‘perda la trebisonda’.
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa.