La repubblica delle trombe

La Serbia raccontata da un osservatorio del tutto particolare. Il paesino di Guča, nel sud del Paese, e il suo festival di strumenti a fiato. Il documentario ”Trubacka Republika” ad anni dalla sua uscita continua a riscuotere successo. Un’intervista agli autori

16/12/2008, Nicola Falcinella -

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Luna Park Underground - foto di Severine Petit

Dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti (a Portland e Washington) nelle ultime settimane. E poi Repubblica Ceca, Romania, Russia e ancora tanti appuntamenti in Italia. Il successo del documentario "Trubacka Republika – La repubblica delle trombe" (informazioni www.alessandrogori.info/larepubblicadelletrombe/, www.docume.org) di Stefano Missio e Alessandro Gori continua. La Serbia attuale raccontata dal punto di osservazione di Guča e del suo Sabor, l’annuale raduno delle trombe che richiama nella Serbia centrale mezzo milione di persone. Una manifestazione legata alla tradizione e alla parte rurale del Paese che i due autori fanno entrare in dialogo con Belgrado con le immagini della capitale e le voci di Radio B92. Ne abbiamo parlato, separatamente, con Missio e Gori.

Stefano Missio, il vostro documentario continua a essere richiesto, in Italia e molto all’estero. Come spiegate tanto interesse?

Due anni e mezzo dopo averlo realizzato il documentario continua a girare per festival, è una cosa che ci sorprende e ci rende molto contenti. Subito dopo averlo terminato eravamo presi in altri progetti e non abbiamo potuto seguirlo molto, poi ce l’ha chiesto un festival russo e da lì, come a volte accade, si è innescato un interesse e un meccanismo che l’ha portato in tante parti del mondo. Sicuramente uno degli elementi di forza è il fatto che sia legato alla musica: sulla musica balcanica c’è un forte interesse. Noi abbiamo cercato di dare una visione non stereotipata della Serbia e approfondirle anche gli aspetti sociali e antropologici".

Nel documentario mostrate anche Belgrado, una Belgrado che a volte prende le distanze dalla Serbia rurale di cui Guča è una delle massime espressioni.

Le giovani generazioni di Belgrado dicono: quella non è la Serbia. Vogliono che si sappia che il loro paese è anche qualcos’altro. Prendono le distanze da Guča, ma spero sia una cosa transitoria, perché perdere i legami con le radici non è mai un bene. Al contrario può essere una ricchezza. In altri paesi dell’ex Jogoslavia c’è nostalgia per certe cose, in Slovenia il film è piaciuto molto. Spero che i serbi difendano le loro tradizioni, non lascino sparire certi loro prodotti che sono una delle cose che attraggono gli occidentali. In Italia c’è stata un’ecatombe di prodotti e l’ho raccontato in altri miei documentari.

Com’è nata l’idea?

Alessandro Gori, che è un grande esperto di Balcani e di Serbia in particolare, per un lungo periodo mi ha proposto dei temi ma per varie ragioni erano difficili. Quando mi ha parlato di Guča mi è sembrato interessante, Guča e la tromba potevano essere un modo per raccontare la Serbia. Non è una tradizione molto antica, risale all’800, ma è entrata nell’animo delle persone. Da strumento militare è diventato popolare e tradizionale. Servì alla normalizzazione dei soldti dopo le guerre contro i turchi e in qualche modo anche in questi anni c’è stato un ritorno dei soldati alla vita civile. Conosciuta Guča e l’ambiente, abbiamo cercato una storia perché senza una storia da seguire il tutto sarebbe stao poco comprensibile.

Quando avete girato?

Il primo viaggio è stato nel 2001 e le ultime riprese sono del 2004

È stato in Serbia a presentare il film? Quali sono state le reazioni?

Sono stato nelle principali città. Le reazioni del pubblico serbo sono state molto interessanti. A Nis e altre città gli spettatori l’hanno vissuto in modo diverso che a Belgrado. Mentre ci lavoravo sentivo che per me era fondamentale farlo veddere là, confrontarmi con loro. Ho ricevuto qualche critica, ma nell’insieme il giudizio è stato molto positivo. L’ho portato anche a Bruxelles e là i serbi sono stati molto contenti perché hanno avuto l’occasione di rivivere il loro paese.

Come avete scelto il protagonista?

All’inizio abbiamo filmato due orchestre, poi dopo circa un anno abbiamo scelto Gvozden Rosić come protagonista. Aveva vinto Guča nel 2001, ce l’hanno presentato e l’abbiamo trovato interessante. Forse non è un grande campione ma suona una musica molto tradizionale e ha un forte legame con la terra. Abbiamo filmato vari funerali anche se ne abbiamo montato uno solo che è molto coinvolgente. Fu una situazione particolare, una persona molto conosciuta, vi partecipò tutto il paese. Fu una situazione arcaica, che inevitabilmente trasforma il filmato in antropologico. L’idea di tutte le famiglie che rendono omaggio al morto è eccezionale. Nei centri più grossi questo si è perso.

Guca – foto di Severine Petit

Cos’è cambiato a Guča in questi pochi anni?

E’ cambiato molto, il festival è più organizzato, ci sono più bancarelle. Ci sono molti più stranieri, la macchina organizzativa è più forte. Lo spaccio statale che mostriamo è stato chiuso, molte strade sono state asfaltate.

Nel film si sente radio B92. E c’è pure l’omicidio Djindjic.

La radio è una voce, uno sguardo per raccontare la Serbia dall’alto. L’omicidio Djindjic mentre giravamo ci ha toccato, è entrato prepotentemente nella storia. Abbiamo cercato di non cambiare troppo la storia che avevamo in mente ma non potevamo non tenerne conto, era importante per raccontare il Paese. Soprattutto perché c’è stato uno spiazzamento generale, un timore di un ritorno al passato.

Alessandro Gori, come siete partiti?

L’idea iniziare era far capire di riflesso la situazione attuale in Serbia. Queste musiche sono note in occidente grazie ai film di Kusturica e a Bregovic, ma non si sa da dove provengano o cosa ci sia dietro. Volevamo far passare dei messaggi su ciò che il Paese sta vivendo e senza limitarci alla parte folkloristica.

Quanto Guča rappresenta l’anima della Serbia?

La struttura della società serba è molto complessa, per cui vi si ritrovano diverse componenti, anche contraddittorie, allo stesso tempo. Alcuni di questi aspetti emergono nelle persone che si incontrano alle presentazioni del nostro documentario. A Praga una ragazza mi si è avvicinata dicendo che non le era piaciuto, perché non si limitava alla musica, ma proponeva anche aspetti politici e delle immagini qualche volta forti che, viste dagli stranieri, potevano portarli a un’immagine distorta della Serbia. È capitato alcune volte di sentire questo commento, ed è interessante notare che di solito proviene da belgradesi appartenenti a un certo ceto sociale, o per lo meno culturale, che non vede di buon occhio certe immagini forti, che sono parte integrante della cultura del paese. La ragazza in questione era cresciuta a Praga, per cui è probabilmente ancor più sensibile alle critiche che vengono spesso addossate ai Serbi e avrebbe preferito non vedere le immagini di maiali roteanti e di primi ministri uccisi. Nella stessa sala c’era anche un’altra belgradese che invece ha apprezzato moltissimo il nostro film, anche per quelle immagini che riguardano la vita quotidiana in alcuni angoli della Serbia rurale e profonda.

Qual è l’importanza della tradizione della tromba nella cultura serba?

Fino a pochi anni fa, prima della guerra, spesso questo tipo di musica non era ben considerato, specie dalle élites intellettuali belgradesi che lo vedevano come espressione di un mondo rurale al quale non appartenevano. Era percepito come negativo, portatore di valori culturali lontani dai loro. La frattura si è acuita durante i conflitti, che hanno spesso evidenziato un contrasto tra città e mondo rurale. Allo stesso tempo la società serba visse una profonda chiusura, a causa dell’embargo (anche culturale e sportivo) e dei conflitti degli anni Novanta, che si risolse anche nell’isolamento fisico del paese e dei suoi abitanti. In questo contesto, nel 1995 Emir Kusturica vinse la "Palma d’Oro" a Cannes con "Underground", un film le orchestre e la musica sono protagonisti assoluti. L’impatto fu notevole e lo si notò anche in Europa occidentale, dove le trube ebbero uno straordinario successo, testimoniato dai concerti di Goran Bregović e successivamente della No Smoking Orchestra di Kusturica.

Ottoni – Foto di Severine Petit

E in Serbia cos’è successo?

Durante le lunghe e oceaniche proteste contro Milošević dell’inverno 1996/97 (che in Occidente vengono spesso dimenticate) si ebbe la sublimazione di queste musiche (soprattutto Kalašnjikov e Mesečina), che erano ballate in piazza dagli studenti e dalle altre centinaia di migliaia di persone che protestavano quotidianamente contro Slobo. Quelle manifestazioni evidenziarono ancor più la profonda spaccatura tra città e campagna, una delle molte ragioni per cui le proteste fallirono. Ma per molte persone, anche delle città, le "trube" non erano ormai relegate a un passato da rimuovere. Costituivano forse l’unico aspetto culturale serbo non solo conosciuto ma accettato in modo estremamente positivo all’estero. Il rigoroso regime di visti (che continua tuttora) faceva sì che se la musica attraversava facilmente le frontiere, ma non si poteva dire lo stesso delle persone. Contemporaneamente, l’immagine dei Serbi presentata dai mezzi di comunicazione occidentali era (e lo è tuttora) estremamente negativa. Si è registrata una ridefinizione di una parte dell’identità culturale nazionale serba, che ha acquisito alcuni aspetti del mondo rurale.

Intanto il festival di Guča attrae sempre più pubblico, anche straniero.

Sì, Guča negli ultimi anni ha assunto un posto centrale nell’immaginario culturale serbo, aumentando a dismisura le presenze fino alle 4-500mila persone attuali, con decine di migliaia di stranieri il cui numero è in continuo aumento. Non è un caso che ora l’evento venga trasmesso in diretta dalla televisione serba e che nei giorni del Sabor giornali, radio e tv coprano esaustivamente l’avvenimento. Come non è un caso che anche l’Ente del Turismo Serbo promuova soprattutto le due manifestazioni che sono più conosciute all’estero e che fanno più presa sugli stranieri: Guča ed "Exit", il bellissimo festival rock di Novi Sad a luglio. Due anime, secondo me complementari, della Serbia di oggi. Però vorrei contrastare gli articoli dei pochi stranieri (anche italiani) che vengono a Guča con la puzza sotto il naso e che poi ritraggono il Sabor come un ritrovo di nazionalisti. Sicuramente a Guča l’elemento nazionalista è presente, ma è da contestualizzare con un’analisi che vada leggermente oltre le poche magliette con Karadžić e Mladić (sempre di meno in verità) che si possono vedere tra mezzo milione di persone.

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