La realtà delle armi all’uranio impoverito

Molto di quello che non si conosce sull’uranio impoverito. Recentemente pubblicata una dettagliata ricerca curata da Dai Williams, psicologo specialista in condizioni del lavoro e ricercatore indipendente britannico

05/04/2002, Giuseppe Lauricella -

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Depleted uranium (MonsieurLui - Flickr)

Dai Williams, ricercatore britannico indipendente e psicologo specialista in condizioni del lavoro ha pubblicato lo scorso gennaio un rapporto titolato "Incubo da metallo misterioso in Afghanistan?". Il testo è il risultato di oltre un anno di ricerca sulla questione dell’uranio impoverito ed è un importante strumento per comprendere meglio quello che lo stesso Williams definisce "uno dei più grandi segreti militari degli anni ’90". Riportiamo qui di seguito un articolo pubblicato da Le Monde Diplomatique che presenta la ricerca di Dai Williams, a cura del giornalista ginevrino Robert James Parson. In calce all’articolo abbiamo inserito dei link ad alcuni dei documenti più rilevanti disponibili sulla questione.

«La preoccupazione immediata di medici, rappresentanti delle organizzazioni umanitarie e di chi dà lavoro agli esuli sul posto è la minaccia di una vasta contaminazione da uranio impoverito in Afghanistan.» Con queste parole si conclude un rapporto di ben 130 pagine intitolato Mystery Metal Nightmare in Afghanistan? – «Incubo da metallo misterioso in Afghanistan?» -, di Dai Williams, ricercatore britannico indipendente e psicologo specialista in condizioni del lavoro. Il testo è frutto di oltre un anno di ricerca tenace sulla questione dell’uranio impoverito (Ui), sugli effetti e le conseguenze del suo utilizzo sugli esseri umani.

Basandosi su siti web ufficiali e su quelli dei fabbricanti d’armi, Dai Williams ha potuto scovare informazioni preziose, analizzarle minuziosamente e infine metterle a confronto con le armi la cui utilizzazione è stata comunicata, anzi vantata, dal Pentagono. Ne emerge una visione della guerra – sia quella in Afghanistan che quelle prossime venture – sorprendente e spaventosa al tempo stesso.

Dal 1997, gli Stati uniti rielaborano e «migliorano» il loro arsenale di missili e di bombe guidate e «intelligenti». Già nel 1999 alcuni prototipi di queste armi sono stati testati sulle montagne del Kosovo, ma la quantità sperimentata in Afghanistan è ben più corposa. Il «miglioramento» di cui si parla riguarda in effetti la sostituzione di una testata convenzionale con una in «metallo pesante denso».

Calcolando volume e peso del misterioso metallo, si arriva a due possibili conclusioni: si tratta o di tungsteno o di uranio impoverito. Il tungsteno, tuttavia, pone alcuni problemi. Il suo alto punto di fusione (3.422°C) lo rende difficile da lavorare; costa caro; è prodotto soprattutto in Cina; non brucia.Da vero piroforo, l’Ui invece brucia con l’impatto o se gli si dà fuoco. Con un punto di fusione di 1.132 °C è molto più facile da lavorare. Trattandosi di uno scarto nucleare, è fornito gratuitamente ai fabbricanti d’armi. Inoltre, il fatto che lo si possa utilizzare in una vasta gamma di armi permette di ridurre sensibilmente il problema della conservazione dei rifiuti nucleari.

Questo tipo di arma può perforare, in pochi secondi, decine di metri di cemento armato o di roccia. Una testata all’Ui, munita di un detonatore regolato da computer in grado di misurare la densità del materiale penetrato, diventa una carica esplosiva che scoppia ad una profondità prestabilita o quando arriva nel «vuoto». In pochi secondi, tutto ciò che si trova in questo «vuoto» viene ridotto allo stato di fine polvere nera per la combustione dell’Ui. E questo si trasforma a sua volta in polvere di ossido di uranio. Mentre per un «penetratore» da 30 millimetri si ossida solo il 30% dell’Ui, nel caso di un missile l’ossidazione può arrivare al 100%. E la maggior parte delle polveri così prodotte misura meno di 1,5 micron: sono quindi respirabili.

La polemica apertasi tra i pochi ricercatori specializzati in questo settore circa l’uso di armi all’Ui nel corso della guerra del Kosovo, nel tempo aveva finito col perdere di vista il suo obiettivo. Invece di chiedersi quali armi sarebbero state utilizzate sulla maggior parte dei bersagli (sotterranei in montagna) ammessi dalla Nato, era stata privilegiata la questione degli anticarro da 30 mm accettati dalla Nato, ma privi di effetto contro le installazioni sotterranee fortificate/rinforzate. Finché il dibattito si è limitato agli anticarro, si stava comunque parlando di ordigni di cui i più pesanti (da 120 mm) non superano i cinque chili. Ma le cariche esplosive all’Ui, dei sistemi di bombe guidate utilizzate in Afghanistan, arrivano fino ad una tonnellata e mezza di Ui nel caso del bunker buster (Gbu-28) fabbricato dalla Raytheon.

A Ginevra, dove sono concentrate le organizzazioni umanitarie attive in Afghanistan, il rapporto di Dai Williams ha suscitato reazioni molto diverse. Mentre i portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Acnur) e l’Organizzazione per il coordinamento degli aiuti umanitari si sono preoccupati di diffonderlo, i principali dirigenti non sono sembrati preoccupati. Solo Medici senza frontiere e il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep) temono, a lungo termine, una catastrofe sanitaria e ambientale.

L’Unep e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) hanno pubblicato, rispettivamente in marzo e in aprile 2001, importanti rapporti. A questi fanno continuo riferimento i sostenitori del carattere inoffensivo dell’Ui, primo fra tutti il Pentagono, il quale sottolinea l’indipendenza e la neutralità delle due organizzazioni. Ma lo studio dell’Unep è quanto meno incompleto, mentre quello dell’Oms decisamente poco affidabile.
Il sopralluogo in Kosovo a partire dal quale l’Unep ha elaborato la sua analisi è stato organizzato sulla base di carte fornite dalla Nato, le cui truppe accompagnavano i ricercatori per proteggerli dalle munizioni inesplose, incluse le parti residue delle bombe a frammentazione. Con ogni probabilità, erano queste – ha scoperto Dai Williams – a contenere cariche vuote all’Ui. Le truppe Nato, impedendo ogni contatto dell’équipe con questi residui, non le avrebbero dunque permesso di scoprirne l’esistenza.

Tanto più che – come si è saputo – nel corso dei sedici mesi precedenti la visita dell’Unep, il Pentagono aveva inviato nella zona almeno dieci équipe di controllo, che avevano lavorato duramente per fare pulizia. Sugli 8.122 «perforanti» anticarro tirati sui siti visitati, l’Unep ne ha recuperati solo undici, malgrado un tasso piuttosto elevato di esplosioni mancate. E la quantità di polveri prelevate direttamente nei punti che si riteneva fossero stati colpiti da queste armi, a diciotto, venti mesi di distanza dalla loro utilizzazione, è risultata molto scarsa. «Zone di sacrificio nazionale» Quanto all’Oms, non ha condotto alcuno studio epidemiologico degno di questo nome, ma una semplice ricerca accademica. Cedendo alle pressioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, si è limitata a studiare l’Ui come metallo pesante chimicamente contaminante.

Informata, nel gennaio 2001, dell’imminente pubblicazione di un articolo di fondo che metteva in discussione il suo silenzio, l’Oms ha organizzato una conferenza stampa per annunciare la creazione di un fondo, dotato inizialmente di due milioni di dollari – e a breve termine di venti milioni – , per la ricerca sull’Ui. Secondo il dottor Michael Repacholi, il rapporto sull’argomento, in cantiere dall’agosto 1999 e affidato al geologo britannico Barry Smith, si sarebbe esteso al problema della contaminazione radioattiva. Gli studi preliminari, a suo dire, avrebbero comportato analisi delle urine di persone esposte all’Ui, condotte in modo da stabilire il livello di esposizione.

Ma la «monografia» in questione, resa pubblica una decina di settimane più tardi, non era altro che una panoramica di una selezione della letteratura esistente. Delle centinaia di migliaia di monografie, pubblicate dalla fine della seconda guerra mondiale, che avrebbero dovuto essere studiate, il rapporto prendeva in considerazione – con poche eccezioni – solo quelle riguardanti la contaminazione chimica. Sulla contaminazione radioattiva erano stati consultati pochissimi articoli e tutti provenienti dal Pentagono o dalla Rand Corporation, fonte ispiratrice del Pentagono. In queste condizioni, non stupisce che il testo non abbia suscitato alcuna preoccupazione.

Le raccomandazioni dei due rapporti, poi, si limitavano a richiamarsi al buon senso, senza discostarsi dai consigli già formulati dall’Oms dopo la fine della guerra – e ripetuti costantemente dalle organizzazioni umanitarie attive sul campo. Si raccomanda, per esempio, di marcare i siti conosciuti, di raccogliere nella misura del possibile i perforanti anticarro, di stare particolarmente attenti ai bambini per evitare che si avvicinino ai siti contaminati, di sorvegliare, eventualmente, l’acqua di alcuni pozzi, ecc.

L’essenza del problema si riassume in due punti chiave: la radiazione emessa dall’Ui costituisce una minaccia per l’organismo in quanto, una volta inalate le polveri, diventa una fonte interna. Ma le norme di protezione internazionale contro le radiazioni – a cui fanno riferimento gli «esperti» per affermare che l’Ui è inoffensivo – trattano solo di radiazioni di provenienza esterna; la questione dell’«uranio sporco», che il rapporto dell’Unep ha il merito di avere sollevato. In effetti, l’uranio delle centrali nucleari, ritrattato per essere utilizzato come munizione, contiene molti elementi altamente tossici come, per esempio, il plutonio.Con 1,6 kg di questa sostanza si potrebbero uccidere otto miliardi di persone. Più che di uranio impoverito, sarebbe quindi più giusto parlare di «uranio plus».

In un documentario presentato da Canal + nel gennaio 2001, un’équipe di ricercatori francesi ha presentato i risultati di un’inchiesta condotta nella fabbrica di ritrattamento di Paducah, nel Kentucky. Secondo l’avvocato dei circa 100.000 querelanti, operai in servizio e in pensione, tutti contaminati per flagrante inosservanza delle più elementari norme di sicurezza, l’intera fabbrica e tutta la sua produzione è irreparabilmente contaminata. Secondo gli investigatori, proprio da questa installazione proverrebbe l’Ui dei missili lanciati su Jugoslavia, Afghanistan e Iraq.

Queste armi rappresentano molto più che un nuovo strumento per guerre moderne. Il programma di riarmo americano, lanciato dal presidente Ronald Reagan, si basa sulla convinzione che il vincitore dei nuovi conflitti sia quello che distrugge più efficacemente i centri di comando e di comunicazione del nemico. Ma questi si trovano quasi sempre sotto terra, in bunker rinforzati. Certo, un bombardamento nucleare potrebbe avere ragione del cemento armato, ma produrrebbe radiazioni che lo stesso Pentagono definisce spaventose e avrebbe poi pesanti ricadute sulle relazioni pubbliche, in un mondo sempre più sensibile ai pericoli di una guerra nucleare. Appare allora più consono il ricorso ad una testata all’Ui, dal momento che scatena solo un incendio, incomparabile con le conseguenze di un’esplosione nucleare, ma con una potenza distruttrice altrettanto forte.

Le informazioni raccolte da Dai Williams dimostrano che gli Stati uniti, dopo aver compiuto test su computer nel 1987, hanno sperimentato per la prima volta questi ordigni nel 1991, contro Baghdad. La guerra nel Kosovo ha poi dato loro la possibilità di provare le armi all’Ui, prototipi o già in produzione, su bersagli di estrema durezza. L’Afghanistan permetterà di estendere e prolungare questi studi.

Ma anche all’interno del Pentagono non tutto è chiaro. Dai Willliams cita molti articoli usciti sulla stampa all’inizio di dicembre che parlano di équipe Nbc (nucleare-biologico-chimico) mandate sul campo per verificare eventuali contaminazioni. Queste, secondo gli Stati uniti, sarebbero imputabili ai taliban, ma, sin dall’ottobre 2001, i medici afghani, di fronte ad alcune morti rapide, apparentemente dovute a disturbi interni, accusano la coalizione di utilizzare armi chimiche. I sintomi evidenziati (emorragie, difficoltà respiratorie, vomito) fanno pensare ad una contaminazione radioattiva. Il 5 dicembre 2001, quando una bomba colpisce malauguratamente alcuni soldati della coalizione, tutti gli inviati dei media sono immediatamente prelevati e rinchiusi in un hangar. Secondo il Pentagono, si trattava di una Gbu-31 armata con una testata Blu-109. Nel documentario di Canal +, viene intervistato il rappresentante di un fabbricante d’armi presente alla fiera internazionale delle armi tenutasi a Dubai il 14 novembre 1999, dopo la guerra del Kosovo. Costui presenta la testata Blu-109 e descrive le sue capacità di penetrazione contro bersagli sotterranei fortificati e rinforzati, precisando che l’arma era stata appena testata in una guerra…

Il 16 gennaio scorso, il segretario americano alla difesa, Donald Rumsfeld, ha ammesso che gli Stati uniti hanno trovato tracce di radioattività in Afghanistan. Ma ha garantito che si trattava solo di testate all’Ui, senza dubbio appartenenti ad al Qaeda, senza tuttavia spiegare come questa organizzazione, sprovvista d’aerei, abbia potuto lanciarle. Su questo punto Dai Williams conferma che, anche se la coalizione non si fosse assolutamente servita di armi all’uranio impoverito, quelle utilizzate dal gruppo di Osama bin Laden rappresenterebbero da sole una notevole fonte di contaminazione, soprattutto se provenienti dalla Russia: in questo caso, l’Ui potrebbe essere addirittura più «sporco» di quello di Paducah.

A seguito delle sue inchieste nei Balcani, l’Unep ha creato una unità di valutazione dopo – conflitto, il cui direttore Henrik Slotte si dichiara pronto ad intervenire sul campo in Afghanistan appena possibile, a condizione che la sicurezza sia sufficientemente garantita, l’accesso alle zone interessate assicurato e l’operazione convenientemente finanziata. L’Oms, al contrario, si è chiusa in mutismo totale. Alle domande rivolte a Jon Lidon, portavoce della direttrice generale Gro Harlem Brundtland, sullo stato del fondo per la ricerca sull’Ui, l’organizzazione non si è degnata di rispondere. Secondo Dai Williams, però, gli studi epidemiologici dovrebbero cominciare immediatamente, per evitare che chi ha subito esposizioni massicce muoia e il suo decesso sia attribuito al rigore dell’inverno in un paese appena uscito da due decenni di guerre.

Nella contea di Jefferson (Indiana), il Pentagono ha chiuso un poligono di tiro di circa 80 ettari dove un tempo testava obici all’Ui. Il preventivo più basso per bonificare la zona ammonta a 7,8 miliardi di dollari – senza contare lo stoccaggio perenne di uno spessore di sei metri di terra e la vegetazione da eliminare. Ritenendo il prezzo troppo alto, l’esercito ha cercato altre soluzioni e ha infine deciso di offrire il terreno al servizio dei parchi nazionali per crearvi una riserva naturale, offerta che è stata rifiutata. Ora si dice che l’ex poligono di tiro sarà riconosciuto «zona di sacrificio nazionale» con conseguente divieto di accesso in eterno! Ecco una notizia che chiarisce quale sarà il futuro delle diverse zone del pianeta in cui gli Stati uniti hanno utilizzato e utilizzeranno armi all’uranio impoverito.

di ROBERT JAMES PARSON

Dai Williams, Mystery Metal, Nightmare in Afghanistan?, gennaio 2002

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