La poesia di Luzi, tra Firenze e Istanbul
Isil Saatcioglu, traduttrice e saggista turca, profonda conoscitrice della cultura italiana, ha scritto un commosso ricordo dell’amico poeta Mario Luzi. Parole che creano un ponte ideale tra Firenze e Istanbul
Kitaplik (Libreria ma anche "Librità") è una delle riviste letterarie più prestigiose del panorama editoriale turco. Pubblicata dalla banca Yapi Kredi, che costituisce uno dei motori delle attività culturali del paese, nel numero di Aprile accanto ad un dossier dedicato al rapporto tra romanzo e città e ad un’intervista ad Alain De Botton, ha presentato anche un omaggio di Isil Saatcioglu al poeta Mario Luzi, recentemente scomparso.
Di Isil Saatcioglu, Kitaplik (n.82), aprile 2005 (tit. orig.: "Si è concluso il viaggio mondano di Mario Luzi")
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Fabio Salomoni
Con la morte di Mario Luzi l’Europa della poesia ha perso forse la più grande e la più matura delle sue voci. Luzi si è silenziosamente separato da noi la mattina del 28 febbraio. Qui a Firenze ora è calato il buio. "Abbiamo perso un compagno di viaggio", commentano gli intellettuali fiorentini. E noi piangiamo non solamente un poeta ma soprattutto un uomo pieno di affetto e di rispetto, piangiamo perchè siamo rimasti orfani.
Nato il 20 ottobre 1914 nei pressi di Firenze, ha cominciato a farsi notare mentre era ancora studente con la raccolta La Barca. In quegli anni Firenze era un centro culturale capace di riunire nei caffè San Marco e Giubbe Rosse attorno agli "anziani" Gadda, Montale, Vittorini, Quasimodo, Landolfi, anche il giovane Luzi ed altri coetanei come Gatto, Bigongiari e Bilenchi. La prima raccolta di Luzi, in un clima fortemente influenzato dall’Ermetismo, si ispira al Platonismo arricchito dai contributi di Coleridge, Mallarmè, Nerval, Valery, Eliot e Rilke. Sono i classici italiani però, Dante, Leopardi, Foscolo,Pascoli, Onofri e Campana a costituire il suo riferimento principale (del Luzi critico e saggista rimangono alcuni scritti memorabili su Dante, Leopardi, Mallarmè, Novalis e D’Annunzio).
Dopo le raccolte degli anni ’40 ed inizi anni ’50, a partire da Dal fondo delle Campagne la poesia di Luzi comincia ad interrogarsi sulle relazioni umane e sul sublime segreto celato nella natura. Tra il 1965 ed il 1985, con le raccolte Per il Battesimo dei nostri frammenti, Su fondamenti invisibili, Luzi comincia ad immergersi più profondamente nel mondo interiore dell’Uomo. Anche la lingua abbandona le sue involuzioni e la parola ermetica scelta con la pignoleria di un orafo, per trovare un ritmo più scorrevole.
Il poeta ha imboccato una strada complessa ma coerente: un viaggio cominciato con l’aristocratica parola dell’ermetismo ma che, a partire dai Quaderni Gotici, ha perso lentamente la sua ricchezza criptica si è pian piano sciolta per lasciare il posto ad un discorso aperto e polifonico.
Una trasformazione che comincia con Magma e continua con Primizie del Deserto, Onore del vero, Il giusto della vita, opere nelle quali si ode la voce più autentica di Luzi. Questo è un nuovo Luzi di cui la raccolta Su Fondamenti invisibili ci lascia i segni di una bellezza fuori dall’ordinario. A quest’opera ne seguono molte altre fino ad arrivare alla piccola Le poesie ritrovate (2003), che contiene poesie degli anni ’30 che Luzi credeva perdute e che invece ha per caso ritrovato da un antiquario fiorentino. Al centro di tutte queste raccolte, alle quali va aggiunta la Dottrina dell’Estremo Principiante (2004), vi è la tensione tra visibile ed invisibile, tra il caso ed il destino. Una tensione che porta con sè un peso crescente e che col tempo costringe la parola poetica a farsi carico del compromesso. Mai però viene meno la fiducia del poeta per la parola. Per Luzi la poesia continua ad avere un’insostituibile ruolo nell’incessante processo di creazione del mondo. La poesia mantiene la funzione di dare vita a ciò che rimane inespresso.
In Viaggio Terrestre e Celeste di Simone Martini il poeta si avvicina, fino all’identificazione, a Simone, il suo pittore prediletto.
Questo viaggio immaginario, l’ultimo di Simone, si carica del fardello di arrivare ad una resa dei conti interiore. Quello che dà peso al Poema è la vita, o meglio lo spazio che sta tra l’inizio e la fine, che fluisce come un fiume insieme silenzioso ed urlato e che ha come riferimento principale il verbo. La scelta del titolo della sua ultima opera, Dottrina dell’Estremo Principiante, rappresenta la conclusione di una ricerca di 70 anni nella quale però il poeta si sente ancora un apprendista alle prime armi.
Nella poesia italiana del ventesimo secolo pochi hanno vissuto un’attività intellettuale come Luzi. Una forza spirituale fuori dal comune, una sensibilità morale superiore, una delle rare persone che hanno saputo unire in uno spirito di grande forza i valori sociali e l’autentica dignità artistica e poetica, senza concessioni. Luzi ha cercato la propria verità nella vita, nella poesia, nell’ascolto delle cose e delle persone.Il suo messaggio è un’antidoto allo smarrimento quotidiano e alla crisi che avanza strisciando come un serpente nella cultura dei nostri tempi. Pensiamo ed ascoltiamo questo messaggio con un profondo sentimento di gratitudine. Non dimentichiamo quest’uomo che intraprendendo il suo viaggio nel cuore dei nostri dolori, nella sua poesia ha stabilito una relazione tra vita e parola; non dimentichiamo questo grande uomo che ha percepito come mutamento continuo, con l’ingenuità della parola poetica, i dolori della vita dell’uomo contemporaneo, sul pian individuale, sociale e cosmico. Lui è la voce della speranza che nonostante tutto alberga dentro di noi.
La sua grande ed universale spiritualità lascia a tutti noi un messaggio di pace, un’eredità di grandi valori. Mario Luzi aveva novant’anni ma era puro come un bambino di due. La sua poesia era in un luogo tra la Terra ed il Cielo dell’umanità.
Mario Luzi era il mio più caro amico a Firenze. Negli anni in cui ho cominciato a studiare al Dipartimento di Italianistica dell’Università di Ankara, sono andata per la prima volta a casa sua per un’intervista, mi tremavano le gambe.
Quel grand’uomo mi ha aperto la porta e con una voce morbida e vellutata che non posso dimenticare mi ha detto: "Cominciamo?". L’amicizia cominciata quel giorno è continuata per diciotto anni. Nel frattempo ho fatto il mio percorso di vita: la malattia, le paure, le ingiustizie che ho subito, le preoccupazioni, le lacrime e gli incubi… Ogni giorno veniva a controllarmi. Se non poteva mi faceva almeno una telefonata. In un periodo in cui ero malata sono stata anche espulsa dall’Università. Ero furiosa. Lui sorridendo mi ha detto "Non ti vogliono, ormai sei dei nostri" e poi ha aggiunto "Essere fiorentino è un privilegio". Ed è stato proprio così: mostre, conferenze, arte, cultura, teatro… Conserverò nella mia testa e nel mio cuore il periodo di amicizia con Mario che mi ha aperta all’estetica, all’intelligenza, al meraviglioso, al bello, al buono. Dopo essere stata esclusa dall’accademia turca, la libertà ed il rispetto che ho sentito nel mondo intellettuale, la vicinanza e l’attenzione mi hanno riscaldato il cuore.
Con Mario ci si incontrava spesso per mangiare insieme. Era anche l’occasione per lunghe chiacchierate. In questi diciotto anni abbiamo affrontato insieme molti dei temi della cultura e della letteratura che hanno attraversato il ventesimo secolo. Poi si usciva per le vie di Firenze, e mi svelava orgogliosamente gli angoli più segreti della città rinascimentale… Le case in cui si era nascosto durante l’occupazione tedesca, gli anni dei Quaderni Gotici, le riunioni al Giubbe Rosse, le discussioni, come hanno scoperto Dino Campana, come hanno premiato il primo libro di Calvino, le donne di Montale, mi raccontava poi la sua vita, le cose che amava, le amarezze. Di più, mi raccontava la storia di Firenze: le vicende che si nascondono dietro gli affreschi, i campanili. Cucinava e mi faceva gustare vecchie ricette della cucina toscana. Sedevamo a lungo con i suoi amici scrittori, che ricordavano con grande nostalgia i caffè del tempo, insieme osservavamo come la città si fosse consegnata al rumore ed alla sporcizia. E ascoltava, quanto ascoltava. Nella mia vita non ho mai conosciuto nessuno che sapesse ascoltare con tanto rispetto e con il cuore.
A volte tacevamo per lunghi minuti. Ho raccontato di come cercasse di farmi avvicinare alla sua città. Non voleva che vivessi Firenze con il sentimento dell’esiliato. Non era giusto nè per me per Firenze. Spesso ripeteva: "La fiorentinità è un privilegio". Ha saputo intuire la mia nostalgia, il mio essere divisa tra due paesi con la poesia Isil (Luce) (Sotto specie umana, Garzanti, 1999, p.117-119). In realtà di questa poesia mi aveva parlato molto prima in un afoso pomeriggio fiorentino, mentre insieme aspettavamo l’autobus: "Credo di aver scritto una delle più belle poesie della mia vita". In realtà molto tempo era passato da quando l’aveva scritta ma quell’anno l’aveva ritrovata casualmente, dopo averla perduta, mentre si ridipingeva la sua casa. Mi ha dato il manoscritto che ho conservato.
Questa poesia intitolata Isil è stata recitata in molte parti d’Italia da attori famosi. In realtà a Firenze pochi conoscevano il significato del mio nome e Mario, scrivendo tra parentesi Luce, lo ha messo al centro del testo. Questa poesia io per molti anni non l’ho tradotta ma adesso credo sia arrivato il momento di farlo.
Con Mario si lavorava spesso insieme: ero io a trascrivere al computer i suoi manoscritti quando non voleva usare la sua Olivetti 43, e poi discutevamo a lungo. C’è molto di Mario anche nel mio lavoro: leggeva ad alta voce le poesie che traducevo in turco, soppesava la loro musicalità interna e poi, per mostrarmi la sua approvazione e la sua soddisfazione, mi accarezzava la testa. Dopo aver ascoltato con affetto e rispetto la presentazione al monastero di Pienza del mio saggio, La poesia di Mario Luzi: L’Unità ed il Molteplice, in una calda giornata d’agosto, mi ha detto: "Forza adesso andiamo a bere e mangiare qualcosa in onore di questo libro".
Dopo la pubblicazione sono usciti molti articoli sul mio libro. A Stefano Verdino, il suo più caro amico ma anche il curatore delle sue opere per la Mondadori, un giorno ha detto: "Stefano ma ci credi, una delle persone che meglio ha capito ed interpretato la mia poesia è un’intellettuale turca!". Non ho mai pensato di tradurre quel libro in turco, così come non l’ho usato per avere l’abilitazione alla docenza. Nella nostra amicizia non c’è mai stato un secondo fine commerciale. Avevo la sua considerazione ed il suo affetto, lo sapevo e mi bastava. A tutti diceva "Parla italiano meglio di noi". Mi insegnava alcune espressioni usate nella vita quotidiana della Firenze del diciannovesimo secolo. Mario aveva un grande potere nel mondo intellettuale e dell’editoria; nonostante questo non ho mai scritto poesie, nè chiesto pubblicazioni a mio nome, non ho voluto nè applausi nè premi.
Quando ho ricevuto il premio Circe Sabaudia per la traduzione, con quei soldi ho pagato il biglietto aereo per un caro amico. Nella cerimonia di premiazione Mario ha fatto un discorso per me. Ancora oggi conservo il ricordo dell’orgoglio che ho provato. In quell’occasione ho preso il microfono ma non ho parlato di me: ho scelto di leggere una traduzione di un poeta turco: per il mio paese, per far sapere che ci sono grandi poeti nel mio paese. A Mario ho chiesto una cosa sola, di aiutarmi a pubblicare la traduzione di Imago Mundi del poeta Enis Batur, cosa che ha fatto.
Quell’estate Mario scriveva molte poesie: "Queste poesie saranno le tappe di un viaggio". Un giorno è venuto da me e ha lasciato fogli dattiloscritti sul mio tavolo: "Leggili e dimmi cosa ne pensi". Ho letto per tutta la notte Viaggio Terrestre e Celeste di Simone Martini. Ha dato questo nome al viaggio immaginario di Simone ma in realtà si trattava del suo viaggio personale. Tutti noi conoscevamo la sua passione per Siena, per la pittura di Simone. Sapevamo anche che dalla sua poesia arrivava la voce di Dante. Ma la voce polifonica di Mario faceva scorrere insieme due elementi, una coppia di estremi, la vita e la morte, il certo e l’incerto, la luce e la tenebra, la speranza e la disperazione. Li faceva scorrere come correnti di un unico fiume che condividono armoniosamente lo stesso letto nel viaggio verso la luce abbagliante.
Ho compreso immediatamente che questa raccolta rappresentava l’approfondimento di tutta la sua poesia. Ho voluto che raggiungesse anche altre lingue, altre persone. Per me è cominciato un duro periodo di traduzioni. Del resto tradurre la poesia di Luzi era impresa impossibile. Il traduttore di Luzi è messo duramente alla prova perchè a dispetto della loro purezza, le parole di Luzi contengono un campo semantico molto ampio, nonostante la loro apparente libertà poggiano su di una semantica molto rigorosa. E’ particolarmente difficile riprodurre le risonanze delle immagini e delle rime interiori della lingua di Luzi, soprattutto quando si tratta di una lingua come il turco che si nutre, dal punto di vista culturale e religioso, di immagini e di fonti molto diverse.
Nelle notti in cui ero particolarmente in difficoltà lo chiamavo per chiedergli alcune spiegazioni. Mostrava per i traduttori un rispetto straordinario, faceva il possibile per aiutarli. Sono stata personalmente testimone delle occasioni in cui, a casa sua, sedeva con loro e lavoravano insieme. Ha seguito passo per passo la mia traduzione. Mi faceva leggere in turco le parti che avevo tradotto e ascoltava la loro musicalità. Era felice. Il libro era ormai finto quando è scoppiata la crisi della prefazione. Mario l’aveva promessa ad Enis Batur, raccontava a tutti orgogliosamente che sarebbe stato quel grande poeta a scrivere la prefazione. Lo ha atteso a lungo, paziente e silenzioso. Non ricevendo poi notizie, Mario si è trovato costretto ad affidarmi la penna. La traduzione è uscita in Turchia solo nel 1997, in ritardo perchè ho dovuto dedicare molto tempo a fare ricerche sulla pittura italiana del quattordicesimo secolo. Con questo libro la Turchia aveva la seconda opportunità di ascoltare la voce di Luzi. La prima volta era coincisa con la pubblicazione di un’antologia a cura del mio professore, Cevat Capan. In occasione dell’uscita del libro Mario era stato invitato dalla Yapi Kredi alla Fiera del Libro di Istanbul. Per lui il viaggio ad Istanbul ha rappresentato una grande emozione. Ha visitato la fiera con grande rispetto, attenzione e curiosità. Santa Sofia, Suleymaniye, Dolmabahce, il Gran Bazar, Kanlica, il Bosforo, le gite in vaporetto, era come incantato. Al suo fianco sempre camminava leggera mia figlia Ruya (che Mario chiamava Sogno). Percepiva tutto quello che vedeva come un miracolo. In occasione di ricevimenti ha poi conosciuto molti intellettuali, poeti ed artisti. Il suo unico problema era il fumo di sigarette. La sera quando tornava nella sua camera gli davo delle gocce per gli occhi. Siamo rimasti tre giorni ad Istanbul poi siamo passati ad Ankara, a casa mia. Dopo essere stati in un ristorante italiano, ho accompagnato Ruya e Mario alla partenza per il loro viaggio in Cappadocia. Li ho seguiti passo per passo con il cellulare di Ruya. La sua salute era precaria, aveva avuto numerose crisi cardiache ed anche i polmoni avevano dei problemi. Ero costantemente preoccupata, ci telefonavamo spesso. Mario è stato straordinariamente impressionato da quel viaggio. Per anni ho ascoltato gli echi di quel viaggio in Turchia dalle parole di altri. Bisanzio e la Cappadocia: quando ne parlavamo nei suoi occhi brillava una luce speciale. Questa era il suo modo di mostrare riconoscenza. (Di quel viaggio testimonia anche una poesia contenuta nella raccolta Sotto specie umana, Lo sfolgorio del Bosforo).
Mario sapeva che stavo lavorando ad un nuovo libro, che avevo quasi terminato. Lo aveva letto e lo aveva molto apprezzato. Se ne era addirittura parlato con la Mondadori. Tutto sembrava pronto ma all’improvviso il mio entusiasmo si è esaurito e non sono riuscita a concluderlo (forse al di fuori di Mario solo un’altra persona ne conosce la ragione). Mario non mi ha mai fatto domande: mi ha detto solo di avere un grande rispetto per me, non ne abbiamo più parlato. Se eravate feriti non faceva assolutamente domande, sapeva e taceva. Se invece eravate furiosi, parlava, discuteva. In questo senso era un autentico fiorentino.
Forse sarebbe meglio dire un senese fiorentino. Dalla città in cui era nato aveva preso finezza, autenticità, una bellezza gotica e spinosa ma anche una rabbia misurata. Di Firenze invece la capacità di scandagliare anche gli angoli
più remoti della persona umana. E’ naturale, una lunga vita trascorsa in una sola città produce un’intimità speciale tra il poeta e la città. Per molti aspetti Mario era figlio di Firenze. In senso più ampio però Mario era un ragazzo toscano: "Credo fortemente che ci sia ancora molto da dire sulla cultura di Firenze, a patto che apra il tuo cuore non all’uomo mitico del Rinascimento e dell’Umanesimo ma all’uomo puro e nudo creato da Dio".
Il mio dolore, il dolore di tutti noi è immenso. Molto mi mancherà questa persona rispettosa, autentica, affettuosa, questo maestro. L’unica mia consolazione è che la sua lunga vita, nobile come l’arte, costituisce un esempio che fino all’ultimo istante non ha mai vacillato. Anche in questo il destino ha saputo mostrargli rispetto.