La nebbia argentea dei racconti di Zija
Ottant’anni fa nel campo di concentramento di Jasenovac veniva ucciso Zija Dizdarević (1916-1942), uno dei più brillanti scrittori bosniaco-erzegovesi e jugoslavi
Tutti i racconti di Zija Dizdarević possono essere racchiusi in un unico volume, un volume di piccole dimensione, ma di grande ampiezza e profondità, dovute alla bellezza dello stile narrativo dell’autore. Nell’opus letterario di Dizdarević, morto a soli ventisei anni, spicca il racconto Majka [La madre]. Nessuno scrittore appartenente ai popoli slavomeridionali prima di Zija, ad eccezione di Cankar, è mai riuscito a realizzare un ritratto così suggestivo della propria madre, così come nessuno scrittore bosniaco-erzegovese, fatta eccezione per Andrić, ha saputo esprimere la propria visione della kasaba bosniaca – immersa in un’atmosfera stagnante, tanto che la vita sembrava essersi fermata su un binario morto – in modo così convincente coma ha fatto Zija. E nessuno meglio di lui (mi assumo il rischio di fare anche questa osservazione) ha saputo sintetizzare in un’unica frase la sensazione di dolore provata di fronte alla realtà della Bosnia Erzegovina tra le due guerre mondiali: “Mi addolorano le recinzioni, le cortine, i muri…”.
Anche oggi, se fosse vivo, Zija ripeterebbe quella frase sulle recinzioni, le cortine e i muri. Lui che, essendo cresciuto in una Bosnia attraversata da divisioni e dissidi interni, sognava una convivenza migliore, più solida e più normale. Furono proprio le divisioni e i dissidi interni a conferire alla Seconda guerra mondiale in Bosnia Erzegovina anche il carattere di una guerra civile e fratricida, una tragedia ripetutasi poi nei primi anni Novanta.
Nato nel 1916 a Vitina, nei pressi di Ljubuško, Zija trascorse l’infanzia nella città di Fojnica. Terminata la scuola elementare, si iscrisse alla Scuola di diritto islamico a Sarajevo, dove frequentò anche un istituto per la formazione degli insegnanti. Diplomatosi nel 1936, Zija non riusciva a trovare lavoro come insegnante: appena ventenne fu etichettato come “scomodo” a causa del suo carattere ribelle che lo spinse a partecipare a numerose proteste studentesche e scioperi completamente estranei a qualsiasi distinzione basata sull’appartenenza etnica (la polizia ha un secondo paio di orecchie. Ma l’unica giovinezza capace di andare oltre se stessa è una giovinezza ribelle!).
Non essendo riuscito a trovare un impiego, Zija decise di iscriversi alla Facoltà di Filosofia di Belgrado, dove studiò psicologia e pedagogia. Le prime opere letterarie di Zija, pubblicate in Bosnia, come anche le recensioni positive dei suoi esordi nel mondo della letteratura, avevano suscitato molto interesse anche nell’ambiente studentesco, assai dinamico, della capitale serba prima ancora che Zija vi giungesse. Zija si procurava i soldi necessari per vivere e studiare nella grande città scrivendo brevi racconti per i giornali Pregled e Politika e impartendo lezioni private. In quegli anni decise anche di impegnarsi politicamente, partecipando a varie attività messe in atto dalle organizzazioni studentesche a Belgrado e Zagabria. La polizia speciale di Belgrado era a conoscenza dell’impegno politico di Dizdarević, aprendo un fascicolo su di lui contrassegnato come “comunista”. In Bosnia, i fratelli di Zija decisero di seguire i suoi passi (sette fratelli, sette partigiani; Zija e due dei suoi fratelli non vissero abbastanza a lungo per vedere la sconfitta del nazismo). In un’occasione, Raif Dizdarević [1], uno dei fratelli di Zija, affermò che l’orientamento politico di Zija veniva tramandato “da fratello maggiore a fratello minore”.
In quel periodo Zija conobbe Branko Ćopić, che ben presto diventerà il suo migliore amico. Alla fine degli anni Trenta, quando tra gli scrittori jugoslavi di sinistra iniziarono a emergere forti dissensi, Zija non si lasciò influenzare dagli scrittori comunisti dogmatici né tanto meno dall’ideologia del realismo socialista. Quando i comunisti dogmatici attaccarono Miroslav Krleža a causa della sua presa di posizione contro la malefica ingerenza dell’ideologia nell’arte, quando “ad avere un peso decisivo furono le parole di Zogović e Đilas”, Zija, da marxista e comunista, si schierò a difesa dello scrittore zagabrese, e quindi a difesa dell’arte intesa come esercizio creativo della libera volontà.
Ecco un frammento tratto da una lettera di Zija indirizzata a Krleža [2]: “Qui c’è un uomo di autentica grandezza (mi sembra stupido dovermi rivolgere a lei con toni elogiativi, vorrei proprio evitare di farlo) che crea, Krleža, e quegli spiriti miseri, non potendo affermarsi con la forza del proprio talento, vorrebbero riuscire se non altro a svilire quella grandezza, a ricondurla (se necessario perseguendo anche altre strade, quelle della morale o della politica) al loro livello mediocre, per poi sputarle in faccia e assoggettarla ai loro comandi. E se solo pensassimo a tutti i mezzi che hanno utilizzato per raggiungere questo obiettivo! In un primo momento si sono costantemente sforzati di emarginarla: ‘Nessuno rimprovera nulla a Krleža personalmente’, per poi precisare: ‘Anche la posizione di Krleža tra i trotzkisti è molto scomoda! Dovrà gettare la spugna!’. E via dicendo. No! Un individuo non deve e non vuole stare ‘sull’attenti!’ e obbedire ai soliti ordini…”.
Pur non essendosi ancora ripreso dalla tubercolosi, nel primo anno della guerra Zija aderì al movimento antifascista clandestino, partecipando a varie azioni a Sarajevo e Fojnica. Fu arrestato dagli ustascia a Sarajevo, nella primavera del 1942. Il giorno successivo si sarebbe dovuto unire ai partigiani. Gli ustascia non mancarono di sbandierare l’arresto di Zija, dandone notizia sulle pagine di un giornale sarajevese. Zija fu tradito da qualcuno, ma pur essendo stato sottoposto a tortura, non rivelò mai i nomi dei suoi compagni. Fu ucciso subito dopo l’arrivo a Jasenovac. La data esatta della sua morte resta sconosciuta.
Lo scrittore Rizo Ramić, anch’egli membro del movimento antifascista clandestino nei primi anni Quaranta, parlando del suo amico e compagno di lotta [3], disse: “Aveva una bella testa, la testa di un artista predestinato, incorniciata da folti capelli biondi. La testa di Zija rispecchiava il suo carattere tenero e al contempo focoso. Probabilmente rimase sfracellata sotto i colpi impetuosi e furibondi del maglio ustascia. E gli occhi? Quegli occhi che conferivano al volto di Zija un’espressione impossibile da dimenticare, impregnata della soave bellezza umana: i suoi occhi azzurri, limpidi, grandi e sorridenti, emanavano un caloroso affetto umano che li rendeva infinitamente belli. Gli aguzzini videro quegli occhi? Provarono un qualche sentimento umano davanti a quello sguardo?”.
Credo che, anche dopo la morte di Zija, Branko Ćopić avvertisse quotidianamente la sua presenza, come se il suo migliore amico non fosse mai stato ucciso. Anche negli anni Cinquanta, quando, criticato da Tito, Branko cadde in disgrazia agli occhi del regime, Zija gli stava accanto. Suppongo che anche Branko credesse che Zija, se fosse sopravvissuto alla guerra, si sarebbe rifiutato di volgere lo sguardo dall’altra parte e di ignorare le distorsioni della Rivoluzione e degli ideali antifascisti portati avanti durante la guerra. Anche quel giorno in cui Branko si tolse la vita Zija era accanto a lui? Branko dedicò al suo amico morto una lettera che apre la sua prosa più poetica, Bašta sljezove boje [Il giardino color malva], in cui intravedo lo spirito che permea la raccolta di racconti Prosanjane jeseni [Gli autunni trascorsi sognando] di Zija.
Nella sua Lettera a Zija Ćopić scrisse anche queste parole, che sembrano scolpite nella pietra della memoria: “È notte inoltrata e io non ho sonno. Ad un’ora così tarda della notte si può parlare solo agli spiriti e ai ricordi, ed ecco che mi trovo a riflettere sulla ragnatela dorata e sulla nebbia argentea dei tuoi racconti, e sulla terribile sorte che ti è capitata nel lager di Jasenovac. Scrivo, caro Zija, eppure forse, un giorno, una simile sorte toccherà anche a me in questo mondo che è ancora attraversato dalla peste con la falce. Nelle tue notti più luminose, immerse nel chiaro di luna, hai intuito l’arrivo di questo drago apocalittico con la falce della morte e ne hai parlato per bocca del tuo personaggio Brka. Un giorno hai anche visto questo drago, nella sua incarnazione reale, terrestre, si è avverato il tuo sogno più terrificante, il tuo incubo. In quegli stessi anni io sono sfuggito, per puro caso, alla sorte da te subita, ma ecco che ormai da qualche tempo, mentre sto seduto alla mia scrivania, mi invade un cupo presentimento: vedo una notte fresca, cosparsa di stelle di ghiaccio, attraverso la quale mi portano via, non so dove. Chi sono quegli aguzzini oscuri dall’aspetto umano? Assomigliano a quelli che hanno portato vie te? Sono fratelli di quelli che hanno ucciso Goran? Non sono forse gli assassini oscuri di Kikić?”.
Durante la guerra fratricida in Bosnia Erzegovina, e poi durante la grottesca transizione post-socialista, a Zija, così come a tanti altri antifascisti jugoslavi che contribuirono alla lotta contro i nazisti e i collaborazionisti locali, toccò una sorte del tutto peculiare. Nonostante la perdurante diffusione del revisionismo storico, a Fojnica viene tuttora mantenuta viva la lunga tradizione di due eventi che rendono omaggio allo scrittore bosniaco, una manifestazione intitolata “Incontri di Zija Dizdarević” e un premio per il miglior racconto breve che porta il suo nome. Tuttavia, la statua di Zija che oggi si può ammirare a Fojnica è la terza versione del ritratto del grande scrittore posta in quel luogo. Il primo busto di Zija, opera dello scultore Ranko Milanović [4], “scomparve” nel 1993. La seconda statua, opera di Enes Sivac, rimase intatta per soli tre anni, “svanendo nel nulla” nel 2013. Al suo posto, nel 2018, fu eretta la statua che vediamo oggi, opera dello scultore Mensud Kečo.
Nonostante i deplorevoli tentativi di distruggere le opere ideate per rendere omaggio a Zija Dizdarević, nessuno è mai riuscito a cancellare i suoi racconti né a rendere meno forte la stima nutrita nei suoi confronti da quei lettori che credono ancora nell’importanza della letteratura e nella sua capacità di farsi portatrice di valori che travalicano i confini nazionali.
Stando ai dati riguardanti le traduzioni letterarie nei paesi della “vera” Europa, qualche frammento della produzione in prosa di Branko Ćopić è stato tradotto in alcune lingue europee. Nessuna traccia invece delle traduzioni delle opere di Zija. Ma non importa, ecco un piccolo regalo per i lettori pazienti di questo articolo commemorativo.
Madre di Zija Dizdarević
La sbiadita infanzia bosniaca è rimasta dietro di me, lontana, oltre quindici anni lontana.
Mi ricordo? C’era una scatola – stanza, attraversata da un volto magro e sofferente, i piedi nelle pantofole, le dimije scolorite [pantaloni tradizionali turchi, molto larghi] e uno sguardo mite e devoto. Mia madre! Da un muro all’altro, dalla porta alla stufa, dal pranzo alla cena, dall’autunno alla primavera, dentro le mura, intrappolata tra le quattro mura, trascorreva la difficile vita di una donna.
Mi ricordo: c’era il sole, tanto sole intorno a noi mentre i giochi fanciulleschi e le camicie nere e lacere dei contadini attraversavano il cortile e passavano davanti alle finestre. Mia madre stava seduta da sola nella penombra della “stanza verde” e rammendava.
Le mura scure, all’ombra, succhiavano il sangue dalle guance della donna.
Mi ricordo: correvamo veloci sui covoni, inseguendo i cavalli, tra erba e pietre, tra vivaci spazi fanciulleschi, scordandoci di dover andare in moschea cinque volte al giorno e poi – arrivavano le botte di mio padre, ponendo fine alla felicità. Mia madre, cupamente docile e sbiadita come noi, piangeva: “È pur sempre vostro padre, anche quando vi picchia un po’… Baciagli la mano, poi vai a pregare, figlio”, e ad ogni botta e ad ogni grido il suo volto si contraeva e girava la testa dall’altra parte.
Un’infanzia frantumata, segnata dalle botte, i giochi mai giocati, una donna nascosta nell’oscurità e lo sguardo impietoso di mio padre. La sciabola del sorvegliante che ci inseguiva furiosamente per le viuzze… Crescevamo.
– Non ti venga in mente di allontanarti da casa. Hai capito? Non costringermi ad utilizzare una spranga per scoprire dov’eri! E ora – fai l’abluzione e poi la ṣalāt [la preghiera islamica obbligatoria].
Un muro davanti ai piccoli desideri di un bambino.
La spranga del maestro era ancora più lunga di quella di mio padre, e a scuola i ragazzi tacevano spaventati. Il mio pianto…
Ricordo mia madre: diventava sempre più pallida. Nascosta dietro ad un lugubre velo nero, “vala”, avvolta in un ampio telo, zar, si nascondeva dalle persone in quei rari giorni in cui doveva attraversare la strada. Dal nostro halvat [ampia stanza situata al piano terra, caratteristica delle tradizionali case ottomane, ndt] passavano zie, signore anziane, nonne, donne e donne, portando con sé i veli scuri che coprivano i loro volti e l’obbedienza che emanava dalle loro pupille. Bevevano un caffè dopo l’altro, parlavano di camicie e si coprivano umilmente il volto ogni volta che compariva mio padre.
Mi chiedevo meravigliato se anche loro avessero avuto un padre. Hanno mai saltato sui prati a piedi nudi?
In quelle occasioni potevamo uscire in strada, per non disturbare a casa. Giocavamo davanti alla casa, fissando con sguardi desiderosi le lontane cime dei monti che accarezzavano le nuvole.
E crescevamo.
Ogni due anni tra noi arrivava un altro bambino. In quei periodi mia madre di solito rimaneva a letto. Non capivo però perché venissi picchiato sempre più spesso, perché gli occhi di mia madre stessero diventando sempre più profondi e perché al mattino mangiassimo pane raffermo…
Le donne venivano lo stesso. E con loro i giochi. I giochi: klis,“top”, ćiza, prašina. Scappavamo dalle stanze per uscire in strada, utilizzando i sassi per costruire sogni. Oblii.
Sì. Da allora quei quattro alberi di melo nel nostro cortile sono fioriti quindici volte, eppure non sono mai riuscito a capire se la mia infanzia si fosse interrotta proprio in quel momento.
Mi ricordo: era l’estate. Mia madre si era affacciata alla finestra, sopra la polvere in mezzo alla quale stavamo seduti. La strada sinuosa, illuminata dal sole, gialla e deserta, si divertiva con noi. Un vecchio muro si era inclinato incombendo sulla torre di sassi che Fikret stava incollando con polvere bagnata. Silenzio e calura.
Poi si sentì un rumore forte e prolungato. Strano! Aspettavamo che ritornasse. E udimmo: tuuu-uu! tu-u-u! due volte.
– Proprio come la tromba di Ante Micin, – esclamò Bajro.
– Non è vero, è come quando Mešan canta. Ecco…
– Tu-uu-uu! tuu-uu!
Ci divertiva e si avvicinava sempre di più. Come se fosse dietro al muro del nostro cortile. Seduti in mezzo alla polvere, giravamo la testa in direzione del suono.
Perché mia madre batteva alla finestra con così tanta insistenza.
Fikret indossava un paio di pantaloncini verdi, corti, lacerati…
Improvvisamente davanti a noi comparve l’enorme corpo nero di un drago.
O era un mostro. Il sole splendeva negli occhi di vetro che si dirigevano verso di noi. Molto vicino… sempre più vicino.
Tremendamente veloce! Tuu!
– Un’automobile! – disse Bajro, facendo un balzo spaventato.
Non ero sicuro se da dietro la finestra provenisse un urlo forte e disperato. Non sapevo nemmeno che fine avesse fatto la torre di sassi. Fikret e Bajro stavano con me o no? Solo quando mi appoggiai al muro e lo sentii sotto le unghie, le mani irrigidite, allora mi ricordai…
Tutto accadde in un attimo. Mi voltai indietro. Riuscii a vedere solo una piccola mano che si mosse faticosamente sotto la ruota. Era come se un grido penetrante e interrotto risuonasse nelle mie orecchie.
Avvertii un nodo in gola. Di chi era quel cuore che batteva così forte.
Un’automobile aveva investito Fikret, per poi fermarsi. Tra la polvere scorgevo i verdi… qualcosa di verde.
Adulti e bambini. Bisbiglio. Orrore.
Mia madre uscì correndo con la bocca semiaperta e contorta, senza vala né zar, e si fermò con le mani giunte davanti al corpo schiacciato che aveva smesso di contorcersi. Io non so… guardavo solo lei, senza muovermi, e volevo, volevo disperatamente fuggire da quel terribile momento e profondamente, profondamente dentro di me stava nascendo un’idea folle: forse tutto questo non è come appare… forse non è vero*
Gli occhi di mia madre erano spalancati. Lo sguardo impietrito abbracciava dall’alto la terra polverosa e insanguinata e anch’io, così come tutto intorno a me, venni assorbito da quello sguardo intriso di dolore. Non ricordo più se c’erano il sole, la polvere, le automobili e le persone, ma so che c’era, e giace ancora dentro di me, come un fardello, l’immobilità infinitamente espressiva degli occhi di mia madre.
Poi arrivò mio padre. Se ne stava lì, sconcertato, rimanendo in silenzio per un po’, poi avendo visto mia madre col volto scoperto, si accigliò:
– Ma non vedi che la gente ti sta guardando? Perché sei uscita senza velo? Entra.
***
Mi ricordo: stavo per iniziare “gli studi”. Mia madre piangeva mentre si accomiatava da me: “Stai attento, figlio mio, la città è una brutta bestia. Non camminare in mezzo alla strada, finirai per essere spazzato via, ma non andare nemmeno troppo vicino al bordo della strada, se dovesse cadere qualcosa dal tetto potrebbe colpirti, tu piuttosto cammina così, così…”.
Non sapeva come proseguire. O non ci riusciva?
——
[1] Raif Dizdarević (1926), il penultimo presidente della Presidenza della Jugoslavia (1988-89). L’edizione italiana del suo libro Od smrti Tita do smrti Jugoslavije [La morte di Tito, la morte della Jugoslavia] uscì 2001 per i tipi della casa editrice Longo Angelo, nella traduzione di Alice Parmeggiani Dri. [2] “I documenti e i carteggi che ho conservato sono relativamente pochi, ma in mezzo ad una pila di fogli ho trovato una lettera di Zija Dizdarević del 1939 […] Spiega con precisione l’effettivo stato di salute del nostro movimento e della nostra vita culturale nel periodo immediatamente precedente all’ultima guerra” (tratto da un’intervista rilasciata da Krleža a Enes Čengić). [3] Frammento di un discorso tenuto da Ramzić ad una conferenza dedicata alla figura e all’opera di Zija Dizdarević, organizzata a Fojnica nel 1976. [4] Ranko Milanović (Sarajevo, 1935 – Visoko, 2012), scultore, uno dei tanti artisti le cui opere sono state denigrate e rimosse dopo il 1992. Per un approfondimento sull’attuale stato delle cose riguardante l’eredità antifascista nell’area di Visoko, che rappresenta un esempio paradigmatico della tendenza a ricorrere al revisionismo storico, diventata dilagante nella Bosnia Erzegovina post-Dayton, vi invito a consultare questo sito .