La mela di Jovan
Un tempo nella Jugoslavia si regalavano mele in segno di gratitudine, poi si passò a costosi cioccolatini, per poi ritornare alle mele, in tempo di guerra: bene ambito e prezioso, tanto da essere ricordato in molti aneddoti
Mi ricordo i tempi in cui ci regalavamo una mela come massimo segno di gratitudine, attenzione, amore, cura, o per farci gli auguri.
A ripensarci ora mi sembra strano, perché tutti noi avevamo dei frutti in giardino, e un albero di mele di certo non mancava. I meli crescevano anche spontaneamente, nella terra di nessuno, quindi chi non aveva il suo albero poteva rifornirsi lì.
Ma non era una questione di avere o non avere. La mela rappresenta il nostro frutto nazionale – e molto prima che Steve Jobs la scegliesse come logo della sua Apple Computer. La mela era il nostro frutto preferito e darla in dono aveva vari significati.
Pare un’usanza antica perché anche nelle tante canzoni tradizionali, cosiddette narodne, popolari, di cui non si conosceva o forse non esisteva l’autore, la mela è presente come dono tra gli innamorati, come simbolo di benvenuto, di salute o prosperità.
Con lo sviluppo della società e del nostro benessere questa abitudine è cambiata, dimenticata o sostituita.
Così quando si andava a far visita a qualcuno si regalava il rahatlokum, un dolce di origine turca fatto di amido e zucchero, che si serve tutt’oggi con il caffè.
Poi si è passati alla cioccolata. Il massimo, negli anni Settanta e Ottanta, erano le confezioni di cioccolatini e tra esse una speciale: la “Bajadera”.
Costava di più e i cioccolatini erano buoni, qualcosa di molto simile ai Gianduiotti italiani. Ma questo paragone ho potuto farlo solo dopo essere giunta in Italia.
Quando qualcuno ti regalava la “Bajadera”, di solito la scatola non veniva aperta, si metteva da parte, si custodiva per poi portarla come regalo a qualcun altro: a un medico, per esempio, a un malato, a una persona speciale o a qualcuno che ti aveva fatto un favore.
Queste confezioni giravano di casa in casa, finché i cioccolatini non diventavano vecchi, cambiavano addirittura colore, diventavano color caffelatte, s’indurivano. Ma continuavano a girare.
In famiglia c’era una delle mie sorelle che si era specializzata ad aprire le confezioni, a prendere i cioccolatini senza lasciare il segno. La mamma custodiva la scatola convinta che fosse integra, e chissà quante confezioni manomesse sono passate a qualcun altro.
Noi sorelle siamo cresciute con il ripetuto monito della mamma di non accettare dai fidanzati nulla di più di un mazzo di fiori o una confezione di cioccolatini.
Solo anni dopo l’adolescenza ho capito il perché. Se avessimo accettato un dono più costoso questo, per nostra madre, poteva significare che nei rapporti eravamo andati oltre a un bacio o un abbraccio.
In Jugoslavia, dove sono nata e cresciuta, era proibito fare regali di ringraziamento ai pubblici ufficiali, e ancor più proibito era “ringraziare con i soldi” per qualche favore, anche piccole somme erano considerate tangenti.
Ma si trovava comunque il modo per farlo. Uno era quello di incartare la confezione di cioccolatini, preferibilmente “Bajadera”, con all’interno una, due o tre banconote, meglio se marchi tedeschi.
E capitava che quelli che non aprivano i pacchetti e li regalavano poi a qualcun altro, passassero, a propria insaputa, oltre che i cioccolatini anche i soldi.
Con la prosperità le nostre possibilità cambiavano e facevamo regali via via sempre più costosi.
E chissà fin dove saremmo potuti arrivare se non ci fosse capitata la guerra. In brevissimo tempo, in un mese, non solo non si poteva regalare una scatola di cioccolatini, ma ci mancavano le materie prime per mangiare: farina, riso, zucchero, olio.
Durante la guerra se qualcuno ti regalava due patate, una carota, una fascina di rami secchi per accendere il fuoco, ti commuoveva fino alle lacrime.
Una mia amica, la giornalista Gordana Knežević, tuttora si ricorda di una cipolla che le fu regalata nel dicembre 1993. Una cipolla significava dare un po’ di gusto al riso bianco ricevuto come aiuto umanitario.
E una mela, nella Sarajevo assediata, molti se la potevano solo sognare.
Lo sapeva un certo Meho, in tempi di pace un ingegnere, diventato per forza soldato.
A una riunione dove si discutevano faccende di guerra aveva portato: “Una bella, grossa mela rossa per rendere l’atmosfera più allegra”, diceva.
L’aveva messa nel centro del tavolo. Discutevano su quello che dovevano o non dovevano fare, ma tutti fissavano la mela.
A riunione finita Meho la regalerò al generale Jovan Divjak, non per il suo grado militare, ma perché già allora Divjak era una persona speciale e molto cara ai cittadini di Sarajevo.
Il giorno dopo Meho partecipò alla distribuzione di alcune stufette a legna, mandate a Sarajevo con gli aiuti umanitari. In quell’inverno di guerra a Sarajevo c’erano venti gradi sotto zero.
A distribuzione quasi finita arrivò un hodža, un prete musulmano, a chiedere una stufetta per sé.
Qualcuno sussurrò all’orecchio di Meho che il giorno prima l’hodža aveva perso in un bombardamento la moglie e una figlia.
Gli diedero l’ultima stufa, ed egli, in segno di gratitudine, tirò fuori da sotto la giacca una mela.
Meho riconobbe subito che era la mela che aveva regalato il giorno prima al generale Divjak.
“Dove hai preso quella mela?”, domandò sospettoso.
E l’hodža, con un filo di voce: “Me l’ha regalata Jovan Divjak”.