La Macedonia tra NATO e UE

Una tesi di laurea che indaga nella storia della Macedonia e nelle sue relazioni regionali nell’ultimo secolo. Ne pubblichiamo il testo integrale ed un reportage introduttivo

28/09/2005, Redazione -

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Skopje, piazza Macedonia

Di Michele Rumiz

Proprio qui in Piazza Macedonia, nel cuore della Skopje ricostruita dopo il terremoto degli anni sessanta, sopravvive un vecchio ponte ottomano sopra il fiume Vardar. Testimonianza di un dominio secolare. Ancora nei primi del ‘900, mentre gran parte dei Balcani si era liberata da tempo del giogo ottomano, la Macedonia continuava a far parte integrante della "Turchia europea", ultimo residuo di un dominio che prima si estendeva sino al Danubio, e oltre ancora, arrivando alle porte di Vienna.

Ne ha viste di cose questo ponte. Le insurrezioni filo bulgare dei primi del ‘900, la fine del dominio ottomano per mano dell’incalzante pressione del nazionalismo greco, bulgaro e serbo. E poi ancora i Giovani Turchi, gli ufficiali dell’esercito che si battevano per trasformare il vecchio "malato d’oriente" in moderno Stato-nazione, cominciarono proprio dalla Macedonia la loro lotta contro il sultano.

Oggi questo ponte non è solo una testimonianza storica, ma è un simbolo dall’importanza concreta. Attraversa un fiume che taglia la città da ovest a est e tiene insieme due sponde: Dietro di me, a sud, la città slava macedone, davanti a me il vecchio bazar e la zona albanese. Decido di percorrerlo.

Lascio alle mie spalle i caseggiati socialisti, le birrerie affollate, la musica dei locali alla mtv e dei tacchi a spillo. Davanti a me, oltre il ponte, il paesaggio cambia bruscamente. Le case si fanno basse, disegnano un reticolo irregolare in cui è facile perdersi. Odore di agnello allo spiedo e fagioli al tegame. Minareti e uomini agli angoli delle strade. Poche donne, nascoste dal velo e dallo sguardo chino.

Strana la presenza albanese in Macedonia. Una minoranza cresciuta con gli anni, grazie a una transizione demografica di fatto mai avvenuta nella popolazione skipetara. Il 25 % secondo le recenti stime dell’OSCE, appena il 12, 5% negli anni cinquanta. Il problema è che questa minoranza è estremamente solida, si concentra in aree ben precise, dove la loro percentuale balza al 80, anche al 90. Non basta. Gli Albanesi abitano le aree a ridosso della loro madrepatria, l’Albania, e insieme ai loro fratelli maggiori sin dai tempi del regno di Jugoslavia: i Kosovari. Da questi confini i villaggi albanesi si susseguono in un continuum che giunge fino a questo ponte.

Quando nel 1999 è incominciata la guerra nel Kosovo, le notizie dell’accaduto sono rimbalzate di villaggio in villaggio, di clan in clan, hanno superato un confine che non era esistito sino al ’91 e che proprio dal ’99 i caschi blu dell’ONU non pattugliavano più. Notizie che parlavano di pulizia etnica, di stragi e di case in fiamme. Poi è arrivata la Nato. Per gli albanesi Kosovari e i loro fratelli della Macedonia un segnale inequivocabile della volontà americana di concedere loro l’indipendenza. La guerra in Kosovo era vinta. Bastò poco, un anno soltanto, perché i militari dell’UCK cercassero di fare altrettanto anche in Macedonia.

Mi incammino lungo il ponte, a ben guardare assomiglia allo Stari Most di Mostar. Non per forma. Quello che ho davanti non si eleva su una gola, non è così elegante e neppure così fragile. Non disegna un anello perfetto specchiandosi sul fiume. E’ invece più solido, quasi tozzo se vogliamo. Le sue fondamenta sono larghe epossenti. Tuttavia sono entrambi di epoca ottomana, entrambi legame indelebile e punto di incontro tra culture e religioni, entrambi scomodi simboli di convivenza.

Eppure il loro destino è stato diverso. E non a causa delle solide fondamenta del ponte di Skopje. È stato necessario l’intervento di Stati Uniti ed Unione Europea. Per meglio dire, è stato il senso di colpa dell’opinione pubblica "occidentale" ad obbligare Solana, Robertson e Patten a comunicare alle parti in guerra che la comunità internazionale non avrebbe riconosciuto loro nessun risultato ottenuto con la forza. Le ostilità si sono concluse in pochi mesi, con gli Accordi di Ohrid. Adesso gli Albanesi hanno ottenuto tutti i diritti di minoranza che un Paese può concedere mantenendo la propria sovranità, persino l’uso della bandiera albanese. In cambio la Macedonia ha mantenuto l’integrità territoriale.

Fa caldo. Vengo inevitabilmente rapito dal rumore dell’acqua che scorre sotto di me, in tumulto, quasi il Vardar fosse ancora un torrente. La osservo fluire verso est e mi ricordo che qui, in Macedonia, abbiamo già scollinato lo spartiacque danubiano. Ogni goccia se ne va verso l’Egeo e la Grecia. Capisco molte cose.

Un piccolo popolo, un milione e trecentomila anime appena, con il conseguimento dell’indipendenza si è riscoperto ancora più in bilico tra Bulgaria e Serbia. Una nazione troppo simile ai propri vicini slavi, da costringere le Istituzioni ad evitare l’avvicinamento culturale ed economico con Belgrado o con Sofia, per scongiurare che il loro abbraccio si trasformi in una morsa asfissiante. I Macedoni hanno così rispolverato le proprie origini ellenistiche, primo fra tutti il mito di Alessandro il Grande, anche per cercare di differenziarsi da Bulgari e Serbi.

Ma la Grecia non ha gradito. Invece di proteggere la nuova Repubblica, conducendola sotto la propria sfera di influenza (geopolitica ed economica), il governo greco e l’ipocondriaca opinione pubblica ellenica hanno percepito l’uso del nome "Macedonia" e l’adozione della stella a sedici punte nella bandiera macedone come una possibile minaccia alla sicurezza e all’integrità territoriale della Grecia. Atene si è quindi prodigata sin dal ’91 affinché la comunità internazionale non riconoscesse la Repubblica di Macedonia. Ha rifiutato il risultato della Commissione Badinter, ha posto il veto alla volontà europea di riconoscere la nuova repubblica e ha persino protratto per più di un anno un embargo dalle tragiche conseguenze per la già traballante economia macedone. Cosa ancor più preoccupante, ha rallentato e rallenta l’evoluzione dei rapporti tra l’Unione Europea e la Repubblica di Macedonia. Così, ancora adesso, mentre gli Stati Uniti riconoscono il Paese con il proprio nome costituzionale, Bruxelles si vede costretta ad usare la formula di Former Yugoslav Republic of Macedonia. Obbrobrio diplomatico che nega alla Macedonia non solo il proprio nome, ma addirittura la sua forma di Stato.

Già, sono proprio i tentennamenti europei ad aver consegnato questo Paese, il più filo-europeo dei Balcani, nelle mani degli Stati Uniti. Basta poco per accorgersi di quanto qui la politica a stelle e strisce faccia il bello e cattivo tempo. "Qui comanda l’ambasciatore americano" si sente dire dalla gente. E come pensare il contrario, quando ad ogni solenne manifestazione pubblica troviamo l’onnipresente ambasciatore Butler a fianco delle più alte cariche dello Stato?

Chiedo a un mio caro amico macedone cosa ne pensa a riguardo. Lui non mi risponde, alza il braccio e mi indica le rovine della vecchia fortezza di Skopje. Dal ponte si vedono benissimo. Proprio sopra di noi, occupano l’unica collina nel centro di Skopje. Dominano la città. Non è un caso che gli ottomani avessero li il proprio quartier generale. Vengo a sapere che il governo macedone ha appena permesso agli Stati Uniti di costruire in quel luogo la nuova ambasciata. Un lusso che non viene concesso nemmeno al Presidente della Repubblica.

Continuo il mio cammino, ai lati del ponte venditori ambulanti vendono di tutto, dai telefonini alle bambole agli arachidi tostati, rigorosamente di Strumica, tra i più buoni al mondo. Questo mercatino improvvisato mi ricorda quanto profonda sia la crisi economica macedone. Il tasso di disoccupazione si mantiene costantemente a livelli superiori al 30%, e la gente è più povera oggi che durante il periodo iugoslavo. Una popolazione a pancia vuota è una bomba sempre sul punto di esplodere, e l’altra sponda del fiume sempre un facile bersaglio su cui scaricare le proprie responsabilità. Spendiamo milioni di euro per aiutare terre lontane come Afghanistan e Iraq, perché ci dimentichiamo di risollevare le economie di Paesi che di fatto sono i nostri vicini di casa?

Pochi passi ancora ed eccomi arrivato in zona albanese. Tutto è radicalmente diverso qui: gli sguardi e gli odori, la lingua e la musica, i vestiti e la fede. Ho percorso pochi metri, sembrano centinaia di chilometri. Una ricchezza inestimabile. Una rogna per la comunità internazionale. Miope, oggi come durante la guerra nella ex-Iugoslavia. Incapace di comprendere e preservare questa diversità, proprio adesso che rischia di scomparire in un mondo sempre più globalizzato eppure sempre meno cosmopolita.

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