La Macedonia compie vent’anni
L’8 settembre 2011 la Macedonia ha festeggiato 20 anni di indipendenza. Le celebrazioni di Skopje fanno da cornice ad un bilancio di luci ed ombre. Se da una parte la Macedonia è riuscita in questi anni ad evitare conflitti etnici estesi e a garantire democrazia, dall’altra questioni irrisolte (soprattutto quella del nome con la vicina Grecia) tengono ancora il Paese al palo
L’8 settembre 2011, la Repubblica di Macedonia ha celebrato vent’anni di esistenza come stato indipendente. L’anniversario è stato festeggiato con un’ondata di inaugurazioni: nuovo aeroporto, nuovo asfalto sulle strade della capitale, nuovi e stravaganti autobus a due piani, nuovi monumenti, musei, un arco di trionfo e molto altro ancora, in un tripudio celebrativo che alcuni media nella regione hanno paragonato alle parate dell’era di Tito. I festeggiamenti però, boicottati dall’opposizione, non si sono svolti all’insegna dell’unità politica, ma questo è ormai parte del folklore politico del Paese.
Eredità scomoda
Nel 1991, la Macedonia fu la terza repubblica a dichiararsi indipendente mentre la Federazione jugoslava crollava, dopo Slovenia e Croazia (che avevano dichiarato l’indipendenza in giugno) e seguita in dicembre dalla Bosnia Erzegovina. Nel 2006, il Montenegro votò a stretto margine l’indipendenza da Belgrado, seguito dalla dichiarazione unilaterale d’indipendenza della provincia autonoma del Kosovo (riconosciuta dalla comunità internazionale al seguito degli Stati uniti, ma non dalla Serbia). Curiosamente, la Macedonia è l’unico Paese della regione a conservare un’associazione identitaria con la Jugoslavia.
Vista la disputa con la Grecia, che contesta l’uso del nome “Macedonia”, le Nazioni unite hanno ammesso inizialmente il Paese con il “temporaneo” nome di “Repubblica ex-jugoslava di Macedonia”. Il bizzarro prefisso rimane però tuttora in uso, e la disputa sul nome continua a pesare sulle vicende del Paese: all’inizio del 2008, nonostante la forte opposizione degli USA, la Grecia ha posto il veto sull’entrata di Skopje nella NATO. Atene continua anche ad ostacolare con successo l’entrata della Macedonia nell’Unione europea: pur essendo candidata dal 2005, Skopje non può cominciare i negoziati finché la disputa sul nome non sarà risolta.
Per quanto bizzarro possa sembrare, quindi, il nome rimane la questione più critica nelle relazioni internazionali del Paese, passato dall’avanguardia alle retrovie del processo di integrazione europea. Nel 2001, la Macedonia aveva firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione diversi mesi prima della Croazia. Ora la Croazia sta per diventare un Paese membro, mentre la Macedonia rischia di farsi superare dalla Serbia, che ha firmato l’Accordo solo nel 2008.
Tutto sommato, il problema sembrerebbe meno spinoso, ad esempio, della disputa territoriale fra Croazia e Slovenia che ha allungato di oltre un anno i tempi per l’integrazione europea di Zagabria, risolta solo dopo una grave crisi politica interna e le dimissioni del primo ministro Ivo Sanader. A succedergli è stata Jadranka Kosor, che ha trovato rapidamente un accordo con Lubiana ottenendo quindi l’entrata nell’Unione, prevista verso la metà del 2013. Molti concorderebbero inoltre che la Macedonia si trova di fronte ad ostacoli minori rispetto alla Serbia e al suo problema con il Kosovo, ora riconosciuto da 22 stati membri su 27. Si vedrà.
Ohrid e l’equilibrio etnico
Su questa linea di pensiero, alcuni direbbero che la Macedonia ha avuto vita relativamente facile nei turbolenti anni novanta della polveriera balcanica e dei conflitti etnici. Con una minoranza albanese oltre il 20% e forti tensioni etniche nei primi dieci anni d’indipendenza, il Paese è riuscito comunque ad evitare conflitti armati di larga scala ed era spesso definito “un’oasi pacifica” negli ambienti internazionali. Nel 2001, quando il conflitto arrivò (soprattutto come emanazione della guerra del 1999 in Kosovo), fu breve e fece relativamente poche vittime (60 sul fronte macedone, non ci sono dati su quello albanese). Questo avvenne grazie al pronto e decisivo intervento della comunità internazionale, ma anche al senso di responsabilità della leadership politica. Il trattato di pace che seguì ha cambiato il DNA politico della Macedonia, trasformata da stato-nazione (composto da un nucleo macedone e varie “minoranze”) in comunità multiculturale. Curiosità: nel trattato di pace di Ohrid (2001) e poi nella Costituzione, il termine “minoranza”, che urtava la sensibilità albanese, è stato sostituito dall’espressione “comunità non maggioritarie”.
Altri direbbero che, più semplicemente, la Macedonia è uscita dal conflitto come stato bi-nazionale. Questa interpretazione è probabilmente limitata e, come del resto l’UE, tralascia un punto importante: il maggior merito conquistato dalla Macedonia è quello di essere una democrazia multiculturale che funziona, fenomeno raro nell’ex-Jugoslavia. In tema di diritti delle minoranze etniche, si potrebbe perfino considerare più avanti di alcuni stati membri dell’UE. Non si è trattata di una conquista facile, né dovuta ad una particolare natura cosmopolita dei macedoni che anzi, negli anni novanta, si erano fatti una cattiva fama negando il diritto all’istruzione ai compatrioti albanesi. È stato proprio finire sull’orlo del baratro che ha portato un po’ di buon senso nel Paese.
Eppure, molti concorderebbero che la Macedonia ha un problema di fragilità, legato soprattutto ai rapporti di vicinato e a questioni identitarie. Quando dichiarò l’indipendenza, si pensò che questa sarebbe durata pochi mesi. La Grecia non riconosce il nome del Paese, ma questa è solo la più nota delle questioni. La Bulgaria considera i macedoni bulgari convertiti sotto il comunismo e non ne riconosce la lingua. La Serbia non ne riconosce la Chiesa. Con l’Albania ci sono tensioni legate alla numerosa comunità albanese in Macedonia. Un altro fattore di fragilità è interno: la composizione demografica del Paese è destinata a cambiare nei prossimi vent’anni, modificando l’equilibrio fra i due maggiori gruppi etnici (Samuel Huntington, in “Who Are We”, discute la stessa prospettiva negli Stati uniti). A quel punto, secondo alcuni, il bi-nazionalismo e una confederazione saranno prospettive molto più concrete. Alcuni politici albanesi in Macedonia non nascondono che già ora preferirebbero una confederazione o un’organizzazione di tipo cantonale. Queste prospettive a lungo termine si intrecciano con i rischi che arrivano dalla regione. Gli sforzi di partizione sul nord del Kosovo, dominato dai serbi, finirebbero inevitabilmente per produrre pressioni sulla Macedonia. Lo stesso potrebbero fare le spinte secessioniste della Republika Srpska in Bosnia Erzegovina.
Democrazia e futuro
Forse il fatto che la Macedonia sia arrivata ai vent’anni, e con una seconda decade più stabile della prima, è un segno che la fragilità convive con la forza, o forse persino ne deriva. I partiti politici macedoni e albanesi sembrano aver imparato a condividere il potere. Anche i gruppi etnici più piccoli, come i valacchi, godono dei diritti politici e culturali.
Qui il proverbiale calderone del “melting pot” multiculturale assomiglia di più ad un’insalata (in italiano come in francese, “macedonia” è anche il nome di un’insalata di frutta), in cui gli ingredienti si mescolano, ma non si fondono. Per tenerli insieme ci vuole un buon succo, e questo sarebbe la democrazia. Il modo migliore per esplorare la forza della Macedonia sarebbe quindi consolidare il suo tessuto multiculturale. Per quanto acerbe e imperfette le sue dinamiche politiche, la Macedonia è un Paese libero. Non ci sono però garanzie sul futuro, e alcuni segni di regressione democratica sono già visibili.
In un’ipotetica divisione dei Paesi ex-jugoslavi sulla base delle prospettive di stabilità politica, la Macedonia rientrerebbe fra quelli più travagliati. Slovenia e Croazia sembrano al sicuro in virtù della relativa omogeneità culturale (anche se la Croazia non può che risentire di quanto succede in Bosnia), e così il Montenegro. La Macedonia, insieme a Bosnia, Serbia e Kosovo, non può dire altrettanto. La Bosnia, purtroppo, è un caso disperato. Il futuro della Serbia dipende da cosa succede in Kosovo (e in Bosnia). La Macedonia avrà un bel daffare per gestire la sua pluralità interna e al contempo reagire alle dinamiche regionali.