La lingua della sofferenza

Le iniziative delle donne per sostenere il dialogo turco-curdo. La sintesi delle manifestazioni svoltesi nel corso dell’estate in Turchia e il punto di vista della giornalista e scrittrice Gönül Kıvılcım, nostra traduzione

15/09/2009, Redazione -

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(FotoRita, Flickr)

Mentre le associazioni di donne in Turchia stanno lavorando per prendere parte attiva nel processo di "apertura curda" del governo, la "Iniziativa delle donne per la pace" (Barış için kadın inisyatifi) ha organizzato nell’arco di tre mesi cinque manifestazioni a Diyarbakır, Ankara, Hakkâri e Istanbul per dare voce e visibilità alle donne che hanno preso posizione contro la logica della guerra impegnandosi per rendere il movimento più capillare. Nella notte dell’8 agosto duemila donne arrivate da ogni parte della Turchia hanno vegliato per la pace nell’altopiano di Berçelan, a Hakkâri, per anni luogo di scontri. Nella stessa notte, le donne che non hanno potuto andare a Hakkâri hanno vegliato a Istanbul in Piazza Taksim

Di: Gönül Kıvılcım, per Radikal 2, 16 agosto 2009 (titolo originale: "Acının Dilini Öğrendim", Ho conosciuto la lingua della sofferenza)

Quella sera sono rimasta seduta per ore sopra i sassi. "Le donne che non hanno potuto andare a Hakkâri fanno la veglia per la pace in Piazza Taksim", avevano scritto i quotidiani. Sono andata lì per sostenere le donne e anche per poter vedere a cosa somigliasse quella pace che come un fantasma da anni ci sfugge. Stavo quasi per non farlo, ma alla fine ci sono andata… Ho imparato a pazientare sopra i sassi di una piazza da cui forse molti di voi non sono mai passati. Ho imparato anche che le donne si tengono dentro un urlo da liberare. E ho ascoltato quell’urlo nonostante fosse in un’altra lingua.

Eravamo come dei dervisci che si ritirano per quaranta giorni e notti per dominare il proprio sé. A Taksim sulle pietre ci siamo ritirate negli angoli più remoti di noi stesse e siamo passate in una dimensione in cui le nostre ambizioni ci sono apparse brutte. Verso mezza notte il vento estivo soffiando dolcemente è passato tra noi e le donne curde dai turbanti bianchi. Abbiamo sentito freddo e ci siamo avvolte in coperte di lana. Le avevano portate le donne. Le donne come sempre erano belle quella sera.

Quando ormai a Taksim il mio corpo stava quasi per diventare un tutt’uno con le pietre riscaldate dal sole estivo, mi sono imbattuta nella lingua della sofferenza. La sofferenza aveva una propria grammatica, delle proprie note, uno stile e un ritmo propri… Mi sono accorta di questa cosa quando mi sono ritrovata a tenere il tempo con le mani al centro di un enorme halay curdo. Madri addolorate si sono unite a quell’halay, donne che avevano impugnato le armi, che avevano visto gli amici morire e si erano rifugiati nella pace, donne che invece di parlare di pace nei caffè a Taksim si divertivano a mormorare canzoni in curdo che non conoscevano. Eravamo come dei bambini che imparano appena a parlare. Stando sedute chi su un pezzo di giornale, chi su un pezzo di cartone, altre ancora sulle nude pietre, ci è stata insegnata una nuova lingua. Ed era una lingua che sapeva di sangue. Alcune di noi, quelle frettolose, impazienti, sono state estremamente disturbate da questo, dal sentire pronunciare la parola "guerrigliero" nelle canzoni. Non gli è neppure passato per la mente quanto le altre avessero atteso per quel momento. Non hanno voluto pensarci. Erano frettolose, e dicevano: "La pace ora, subito".

Ma quella sera ho capito che anche la pace ha un suo tempo. Così come ce l’hanno l’amicizia e l’amore… Il tempo della pace non arriva senza ricevere delle ferite, senza rimanere impigliato nei fili spinati, essere rinchiuso nelle famose prigioni del paese, e anche se ad agosto, con il vento estivo, senza sentire prima il freddo della notte addosso, senza rabbrividire di fronte alle sofferenze vissute.

Attenderemo, attenderemo tutte insieme e riscopriremo il senso della parola "pazienza" a cominciare dalla prima lettera.

Attenderemo come loro hanno atteso ai controlli dei documenti quando andavano nei propri villaggi, quando si irrompeva nelle loro case, quando i loro alberi e giardini si prosciugavano; così come loro hanno pazientato con il sogno di rivedere un giorno quegli alberi rinverdire e crescere, e come ancora stanno pazientando, pazienteremo anche noi.

Quando le madri curde ci faranno il nome del PKK, quando i bambini curdi ci lanceranno sassi e quando ci verranno riproposti i pilastri della loro resistenza, comprensione tolleranza o sopportazione, qualunque sia la parola corretta, la sceglieremo. Lo faremo per la giustizia e in nome della giustizia. In nome di quella giustizia che abbiamo dimenticato di pretendere, dell’uguaglianza e del rispetto di noi stessi. Abbasseremo la testa non con il vanto di proporre la pace a un popolo che abbiamo saputo torturare per anni nelle carceri, ma con la vergogna dei torti che la storia ci rende manifesti.

Per me si sono vissuti dei momenti indimenticabili durante la veglia delle donne per la pace. Una donna che si era unita ai combattenti delle montagne mi stava a tre metri di distanza. Ha preso il microfono e ha detto di aver lasciato le armi per la pace. Aveva visto il lato sporco della guerra, aveva perso 500 amici in questa guerra scellerata. In questa guerra orribile che ci ha prosciugato. Quella sera ho sentito che qualcosa in me stava risbocciando. I fiori del mio mondo interiore sono risbocciati grazie alle canzoni intonate dalle donne nell’arida piazza Taksim, grazie alla domanda di pace di donne comuni che una volta preso il microfono non volevano più lasciarlo. Loro erano comuni, però non lo erano le pene che avevano sopportato. Ce lo ha insegnato la lingua della sofferenza. Una madre che raccontava la sua esperienza con voce tremante, che gridava con una voce resa acuta dalla rabbia sia in turco che in curdo. Una madre che dopo aver pronunciato una dopo l’altra decine di frasi nella lingua della ribellione ha detto qualcosa in turco anche per noi e continuava "turco, curdo o arabo tutti sono esseri umani".

Non erano nemmeno le otto ancora mentre ascoltavo lei… Poi si è fatto buio e hanno preso la parola persone che non riuscivo più a distinguere bene nell’oscurità. Donne che dicevano: "Io sono curda ma porto la vergogna di parlare la mia lingua".

Quella vergogna la folla se l’è passata di mano in mano fino alle file in fondo… Tutte si sono prese una parte di quella vergogna. Poi i piedi e le braccia atrofizzate dall’immobilità hanno preso a muoversi. Donne giovani, curde, turche, femministe, casalinghe che non sono state femministe nemmeno alla lontana, donne che poco prima hanno fatto addormentare i figli nelle carrozzine, le donne tatuate di Istanbul, quelle arrivate da Diyarbakır, tutte hanno preso parte allo halay. Anche noi siamo rimaste là e abbiamo assistito a questo circolo di speranze che ci ruotava intorno. Per una volta avevano taciuto i manganelli, le armi, gli elicotteri da guerra, il sistema che alimenta la guerra. C’eravamo noi ora lì. Un brevissimo attimo, noi donne.

E poi di nuovo la lingua della sofferenza.

Traduzione per Osservatorio Balcani e Caucaso: Fazıla Mat

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