La Jugoslavia che esiste ancora: intervista a Giacomo Scotti

Giacomo Scotti ritorna nelle librerie con il volume "Jugoslavia, il paese che non c’è più", continuazione del precedente “Si chiamava Jugoslavia”. A trent’anni dall’inizio della sua dissoluzione, un viaggio sentimentale attraverso un paese che pulsa ancora nei ricordi di chi l’ha vissuto

01/07/2021, Veronica Tosetti -

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Giacomo Scotti - Foto di Roberta F. - CC BY-SA 3.0

Lo scrittore e giornalista Giacomo Scotti (1928), figura ponte tra la cultura italiana e quella balcanica, è tornato in libreria con "Jugoslavia, il paese che non c’è più", per Besa Muci editore. Il volume raccoglie stralci di esperienze umane densissime di significato, ben espresse dalle poesie dei più disparati autori jugoslavi spesso citati: un viaggio sentimentale attraverso un paese che sulle carte non esiste più, ma che pulsa ancora fortissimo nei ricordi di tanti che come l’autore l’hanno vissuto.

Si tratta di un libro che si pone nel solco del precedente “Si chiamava Jugoslavia”, lo si può definire un continuum? Che cosa differenzia questi due volumi?

Diciamo subito che “Si chiamava Jugoslavia” e “Jugoslavia, il paese che non c’è più” li ho scritti come un unico volume. Per motivi tecnici l’editore lo ha diviso in due. Nella vostra domanda, dunque, c’è già la risposta: si tratta di un continuum. Anche nella cronologia dei viaggi. Dopo un percorso che mi ha portato dall’Istria alla Macedonia, ho ricostruito altri viaggi, ottenendo un giro completo della Jugoslavia zigzagando fra mare, monti e pianure: altri viaggi, altre scoperte in Serbia, Bosnia, Macedonia, Vojvodina, Kosovo e Dalmazia.

Sia nel primo che nel secondo volume, dunque, offro ai lettori la possibilità di viaggiare nel passato di quel paese che "non c’è più", frantumatosi in sette staterelli. Nei miei ricordi, però, resta quello che, prima della guerra fratricida del 1991-1995, era la patria comune di serbi, croati, bosniaci-musulmani, sloveni, macedoni, montenegrini e albanesi kosovari. Io li ho fraternamente amati tutti, ho viaggiato nell’ex Jugoslavia in lungo e in largo fin da quando, sul finire del 1947, vi misi piede e la feci mia, senza mai rinnegare la mia patria nativa. Anzi, ho sempre cercato di costruire ponti fra i due mondi affacciati sull’Adriatico. Tuttora, diciamo pure fino a qualche anno addietro, ho violato i confini.

Il racconto dei viaggi, usciti proprio in questo periodo di pandemia, ispira molto a visitare in prima persona quei luoghi. Come ha vissuto questo ultimo anno di immobilità? Sarebbe pronto a ripartire?

Avete indovinato: sognavo di riprendere il viaggio dal 2020 in poi, rivedere poeti, scrittori ed altri amici ancora viventi dai confini della Grecia e dell’Albania a quelli dell’Italia, dell’Austria, della Romania e Bulgaria, ma quel “sogno” ormai è svanito. La pandemia e l’età avanzata mi hanno incatenato a Fiume sul Quarnero. Ma continuo a scavare fra le carte e nei tanti libri che ho scritto per incontrare quei “mondi” al di là dei nuovi confini. Lo facciano almeno i lettori per me e con i miei libri in mano.

Il titolo può essere interpretato come una netta dichiarazione, un’ovvietà ma anche un’affermazione brutale e nostalgica per altri. Crede che il sentimento di Jugo-nostalgia la riguardi? Come si pone verso questa idea?

Domanda amara, come sono state amare per me, per i miei amici Izet Sarajlić, Matvejević e tanti altri, la dissoluzione della Jugoslavia e la semina dell’odio compiuta da certi vertici di Belgrado e Zagabria che continuano a costruire barricate. Comunque, di quella guerra fratricida, volutamente “ignorata” nei due volumi sul paese “che non c’è, ho già parlato in altri miei libri, fra i quali “Croazia, operazione Tempesta” (Roma, 1996), (per il qual subii un attentato, scampando per fortuna alla morte), “Storie di profughi e massacri. Un diario dall’ex Jugoslavia” (Trieste, 2001) e “Terre di guerre e viaggi di pace” (Roma, 2015). Come dicevo, sto scavando fra le carte e spero di poter scrivere ancora. È soltanto una speranza, ovviamente, per un ultranovantenne.               

Il libro è diviso nettamente in due parti di carattere temporale: una parte antecedente al 1981 e una successiva ai 2000. La parte della dissoluzione è stata saltata in toto: si è trattato di una scelta voluta? Perché?          

A questa domanda ho già indirettamente risposto. Posso solo aggiungere che se in me è rimasta una qualche nostalgia, essa riguarda soltanto valori e conquiste sociali del passato. Oggi, purtroppo in quasi tutti i nuovi stati dell’ex Jugoslavia l’antifascismo viene soffocato, la miseria dilaga…                 

In un passaggio del libro lei esplicita la divisione tra la sua natura di poeta e quella di giornalista, definendosi anche “cronista di fatti curiosi”. Come è riuscito nella sua “carriera” a conciliare questi due aspetti? In che modo ha risolto questo dualismo nel libro?    

Sono per natura un uomo che si moltiplica. Ho fatto il giornalista, reporter e cronista del quotidiano italiano di Fiume “La Voce del Popolo”, ho collaborato a tutte le pubblicazioni della Piccola Italia rimasta nelle terre dell’Istria e del Quarnero (il quindicinale “Panorama”, il mensile per ragazzi “Arcobaleno”, la rivista trimestrale di cultura “La Battana”); ho collaborato a giornali e riviste in Italia, non ho mai deposto la penna, neppure di notte. Fin dall’inizio ho coltivato la poesia, ho spaziato nella narrativa e nella saggistica storica. In tutti questi campi sono stato un ficcanaso alla ricerca della verità e della giustizia. Quindi anche lo stile della scrittura è rimasto al tempo stesso vivace e comprensibile. Anche nei volumi di cui parliamo il viaggiatore resta un poeta e un cronista. Con l’anima di poeta guarda al mondo che lo circonda, con la cocciutaggine del cronista cerca di scoprire e vivere la vita. Una vita fatta di girovagare e di avventurose ricerche.                 

Di poesia ce n’è tanta, ma è soprattutto quella del passato. Ci sono poeti dell’area balcanica odierna che raccomanderebbe? O scrittori?              

Di poesia e narrativa ce n’è tanta anche oggi, ma io conosco soltanto la letteratura croata. Che cosa succede al di là dei nuovi confini lo ignoro. In Croazia non circolano giornali, riviste e libri di scrittori e poeti serbi, macedoni, sloveni, montenegrini, bosniaci. Non ci conosciamo più, di loro i critici e studiosi in Croazia non ci dicono nulla. Ci affligge, ecco, anche questo dolore. In Croazia si fanno particolarmente notare, fra quelli che non hanno cambiato casacca, i poeti Marija Čudina, Branko Maleš e Miljenko Jergović, quest’ultimo poeta, giornalista e soprattutto romanziere. Nato a Sarajevo, classe 1966, si trasferì a Zagabria nel 1989 e da allora opera in Croazia, viaggiando spesso anche in Italia, da lui tanto amata. Alla festa organizzata dal Comune di Fiume nella sala consiliare del Palazzo di città per il mio ottantacinquesimo compleanno, Miljenko mi lasciò un foglio con questo messaggio: “È trascorso troppo tempo da quando, spostandoti dalla terra dei più bei sogni, ti stabilisti nella terra dei tuoi sogni (…), una terra scomparsa. Nel frattempo sono scomparsi anche tutti i nostri sogni… Grazie, Giacomo per averci ospitato nei tuoi sogni, grazie per aver seguito i nostri sogni. Il tuo Miljenko”.

Il libro si conclude con la visita al Parco nazionale di Sutjeska, un luogo dove la natura è incontaminata e pura, ma legato anche a una battaglia cruciale per la creazione della Jugoslavia di Tito. Cosa rappresenta per lei questo luogo?                   

Il Parco nazionale del Sutjeska, deriva il nome da un fiume che attraversa l’Erzegovina orientale, e si estende su una superficie di diciassettemila ettari di boschi. È un monumento della natura, ma è soprattutto uno degli incancellabili simboli della storia jugoslava, della lotta contro il nazifascismo per la libertà e la creazione di una migliore società nuova che si è sbriciolata. Resta dunque il simbolo di un sogno per i figli e nipoti dei combattenti dell’Esercito di Liberazione caduti nella battaglia cruciale di fine maggio-inizio di giugno 1943 che vide quattro divisioni proletarie e d’assalto guidate da Tito in persona: combatterono strenuamente contro le truppe tedesche, italiane, ustascia e di altri quisling, spezzando l’accerchiamento del nemico e mettendo in salvo gran parte dei feriti e ammalati dell’Ospedale centrale e la popolazione che seguiva i partigiani fin dal Sangiaccato e dal Montenegro. Purtroppo non tutti si salvarono. I tedeschi massacrarono circa mille feriti ed ammalati rimasti accerchiati durante il passaggio del fiume. Dal cerchio uscirono circa mille combattenti… Si potrebbe scrivere un libro con quelle interminabili pagine insanguinate dell’inizio d’estate di settantotto anni addietro.

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