La guerra in Karabakh non è mai finita

La politica azera ha intrapreso una strada oscura verso l’irredentismo. Non ci potrà essere una pace duratura finché non verranno superati i miti di vendetta e il nazionalismo violento

20/09/2022, Bahruz Samadov -

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Il presidente dell'Azerbaijan Ilham Aliyev © Drop of Light/Shutterstock

(Originariamente pubblicato da OC Media , il 14 settembre 2022)

Durante la guerra del Nagorno Karabakh del 2020, molti in Azerbaijan sostenevano che la guerra e la perdita di vite umane erano necessarie per prevenire ulteriori perdite in futuro. Secondo questa tesi, la guerra del 1988-1994 non aveva portato la pace e gli scontri e le vittime occasionali erano diventate una costante, quindi l’Azerbaijan aveva bisogno di una guerra su larga scala per porre fine al conflitto e raggiungere una pace duratura.

Questa argomentazione non è solo eticamente inaccettabile (che dire di coloro che muoiono durante il "male necessario" di una guerra su larga scala?), ma anche profondamente ingenua. Escalation dopo escalation, abbiamo assistito all’assenza di un processo di pace significativo e a una continuazione “a fuoco lento” della guerra. I combattimenti scoppiati martedì 13 settembre – i più sanguinosi dalla Seconda guerra del Nagorno Karabakh – dimostrano l’ingenuità dell’argomentare "prima una guerra e poi la pace".

Gli echi della lotta per l’indipendenza

Dopo la fine della Seconda guerra, la retorica dell’Azerbaijan è diventata più aggressiva: i suoi leader hanno avanzato rivendicazioni territoriali sulla provincia armena meridionale di Syunik e hanno rifiutato di dialogare in modo significativo con la leadership armena del Nagorno Karabakh. Queste rivendicazioni sono di natura irredentista – sostengono l’annessione di terre straniere sulla base di presunti legami storici o etnici.

Tali rivendicazioni fanno parte della nuova realtà post-bellica dell’Azerbaijan. Prima della guerra del 2020, la rivendicazione azera di avere diritto alla regione storica di Zangezur (di cui fa parte Syunik) era marginale e caratteristica esclusiva dei discorsi pan-turchi di estrema destra. Dopo la guerra, quando nel luglio 2021 l’Azerbaijan ha istituito la regione economica dello Zangezur orientale nella parte occidentale del paese e si è riferito al futuro corridoio che collegherà l’exclave di Nakhchivan con il resto dell’Azerbaijan come al "Corridoio dello Zangezur", è diventato chiaro che il discorso ufficiale si era spostato in una nuova direzione espansionistica. Se esiste lo Zangezur orientale, deve esistere anche lo Zangezur occidentale, ovvero l’odierna regione di Syunik, nel sud dell’Armenia.

Sorprendentemente per molti, i media ufficiali e filogovernativi hanno recentemente diffuso rivendicazioni anche sull’Azerbaijan iraniano, tornando ad un vecchio discorso panturco degli indipendentisti degli anni Novanta.

Le idee utopiche irredentiste di un "Azerbaijan completo" erano caratteristiche dei discorsi nei primi anni ’90 del secondo presidente Abulfaz Elchibay e del suo partito “Fronte Popolare”: paradossalmente, i principali antagonisti storici dell’attuale regime. Queste idee, che facevano parte del più ampio movimento pro-indipendenza, hanno influenzato la formazione dell’identità nazionale post-sovietica dell’Azerbaijan.

Il padre di Ilham Aliyev, Heydar Aliyev, non sosteneva queste rivendicazioni territoriali. Al contrario, egli immaginava l’Azerbaijan come una nazione costruita sull’inclusione, senza un irredentismo o nazionalismo aggressivo. Dopo la guerra del 2020, il culto della personalità di Heydar Aliyev è diventato meno visibile: il suo approccio, perlopiù favorevole ai negoziati, è ora in contrasto con l’attuale narrazione della vittoria a tavolino.

Dopo la fine della Seconda guerra, quando l’identità nazionale si è consolidata intorno all’idea di vittoria e al "pugno di ferro" di Ilham Aliyev, la necessità di "nuovi orizzonti" non è altro che un revival di idee espansionistiche dimenticate. E non si tratta solo di un cambiamento di narrativa: la recente escalation dimostra che l’Azerbaijan vuole costringere l’Armenia ad accettare una "pace" autoritaria. Una pace che soddisfi le richieste economiche dell’Azerbaijan, una pace senza riconciliazione.

Una storia di negoziati

All’inizio dell’agosto 2022, l’Azerbaijan ha condotto quella che ha definito una "operazione di vendetta" nel Nagorno Karabakh a seguito di un incontro che si era tenuto a luglio tra i ministri degli Esteri armeno e azero a Tbilisi. Poi, il 31 agosto, Ilham Aliyev e Nikol Pashinyan si sono incontrati a Bruxelles. A seguito di entrambi gli incontri non sono stati fatti annunci sul destino del Nagorno Karabakh. L’idea di questi incontri era di "preparare le popolazioni a un trattato di pace". A meno di due settimane dal secondo incontro, i due paesi sono di nuovo in un violento conflitto, segno evidente che le parti non sono riuscite a trovare un accordo sulle questioni fondamentali.

Un mio recente tweet che chiedeva "dov’è la società civile dell’Azerbaijan?" non riguarda solo la situazione attuale, ma anche il ruolo della società civile nel processo di pace. Se i negoziati mirano a portare le nazioni alla pace, perché né la società civile né i partiti politici dell’opposizione partecipano agli incontri? Ancora peggio: perché né la società civile tradizionale né l’opposizione politica hanno proposto alternative all’approccio del regime al potere? Dopo i recenti scontri la società civile azera è diventata ancora più invisibile di quanto già non fosse prima del conflitto.

I negoziati sono interamente gestiti dal regime e gli altri attori sociali non sono interessati a proporre alternative. Questo non fa che rafforzare il potere del governo, nonostante le sfide economiche che si trova ad affrontare l’Azerbaijan e la questione dolente dell’ondata di suicidi tra i veterani della Seconda guerra del Nagorno Karabakh. Anche se ci sono ancora alcune voci che si esprimono contro la guerra, come la dichiarazione di NIDA a favore della pace, questi gruppi purtroppo deboli (ma coraggiosi) non hanno il peso necessario per offrire proposte alternative.

I partiti politici nazionali non hanno fatto nulla per instaurare un dialogo con i partiti e i gruppi politici armeni. C’è molto nazionalismo nell’opposizione e nella società civile e non mi aspetto nulla di costruttivo dai nazionalisti – anche se spesso vengono repressi dalle autorità – in quanto comunque condividono fondamentalmente i valori del regime.

Realtà nazionalista: c’è un’alternativa?

Per quei gruppi e individui progressisti che rimangono impegnati per la pace, non è sufficiente condannare la politica nazionalista del paese o i singoli incidenti, o addirittura rinnegare l’intero panorama politico dell’Azerbaijan. Un vero atto di coraggio consiste nel mettere in discussione i principi stessi dell’identità nazionale azera.

La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha dimostrato che l’"amicizia tra i popoli" era immaginaria. Gli orrori della Prima guerra del Nagorno Karabakh hanno creato un’identità nazionale basata sulla vendetta e sul rifiuto della coesistenza pacifica. La guerra ha contagiato l’intero spettro politico, nonostante l’inimicizia tra governo e opposizione. La Seconda guerra ha portato alla nazione un’identità incapsulata in nuovi simboli militanti, tra cui il monumento del “Pugno di Ferro” e il “Parco dei Trofei Militari” a Baku.

Gli azeri progressisti dovrebbero considerare la possibilità di aprire uno spiraglio per un’etica nazionale radicalmente diversa. A prima vista, non abbiamo molto da offrire. Dopo tutto, la nascita della nazione azera è storicamente legata alla violenza intercomunitaria con gli armeni all’inizio del XX secolo.

Tuttavia, se guardiamo agli scritti dei primi intellettuali azerbaijani, possiamo notare come almeno alcuni di loro fossero critici nei confronti del nazionalismo etnico. Queste narrazioni devono ritornare nella coscienza pubblica azerbaijana.

È vero che tali fonti sono rare e sono state successivamente screditate dagli autori dell’era sovietica. Tuttavia, questi scritti, siano essi antichi o recenti, come il romanzo di Akram Aylisli che affronta il tema tabù dei pogrom contro gli armeni in Azerbaijan, sono fondamentali per costruire un nuovo immaginario e etica nazionale.

Senza un obiettivo e una strategia di questo tipo, insieme al dialogo diretto con gli attori rilevanti in Armenia e nel Nagorno Karabakh, noi progressisti non saremo mai in grado di fornire un’alternativa significativa alla guerra.

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