La fioraia di Sarajevo
"L’ho incontrata la prima volta al mercato di Markale nel centro di Sarajevo, nel febbraio 1992. Poi altre volte nel pieno dell’assedio. Un giorno mi ha detto il suo nome e mi ha dato una prima lezione". Un ricordo del fotoreporter e giornalista Mario Boccia
Un giorno, di febbraio 1992, prima dell’inizio della guerra in Bosnia, passando tra le bancarelle del mercato di Baščaršija, conobbi una fioraia di una certa età.
Forse si incuriosì nel vedere qualcuno con due macchine fotografiche che si aggirava tra i banchi e mi offrì una tazza del caffè che stava prendendo con una sua vicina di banco. Comunicammo poco con le parole, ma mi rimase impresso il suo sguardo.
La riconobbi al suo posto a dicembre dello stesso anno. Era dimagrita molto, come i fiori che vendeva. Per essere esatti, quelli non erano più fiori veri ma piccoli mazzetti di fiori di carta, che assomigliavano a quelli delle bomboniere.
Trovavo sorprendente che lei fosse lì a venderli, ma anche che qualcuno potesse pensare di comprarli. In quel mercato affollato ma pieno di banchi semi vuoti, un chilo di zucchero costava 80 marchi tedeschi, la sudjukica (una specie di salsiccia, non di maiale) 100, come una stecca di Marlboro o un litro d’olio.
Qualcuno cercava di vendere qualcosa della sua razione alimentare per comprare qualcos’altro. Molti guardavano, senza comprare niente. Lei seguitava a vendere fiori assolutamente superflui.
Dopo qualche chiacchiera elementare, le feci la domanda più stupida, chiedendole quale fosse la sua “etnia”. Mi rispose subito: “Sono nata a Sarajevo”. Credendo di essere furbo (oltre che stupido) le chiesi quasi subito quale fosse il suo nome. E lei mi disse qualcosa che annotai su un foglietto.
La fotografai e ci salutammo. Più tardi, chiesi a un amico se quel nome che avevo scritto era serbo, croato o musulmano. “Quale nome?” rispose, “Qui c’è scritto solo – fioraia – ” (ndr: cvjećara). Avevo ricevuto la prima lezione.
Da allora, quando potevo la andavo a salutare. Mi rilassava incontrarla.
Pochi giorni dopo la strage del mercato del 5 febbraio 1994 (avevo paura ad andare), la trovai al suo posto. Il suo banco era relativamente lontano dal segno lasciato dalla granata e non era ferita. Nel tempo aveva affinato la tecnica di costruzione dei fiori di carta, che erano diventati grandi e da lontano sembravano veri. La fotografai con i fiori in mano.
Tornai a Sarajevo con la foto da darle, a marzo o aprile, se ricordo bene. Non c’era e sul banco c’era altro. Mostrai la foto alla donna che era al suo posto, che mi raccontò com’era andata. Colpita alla testa da un cecchino, mentre andava al mercato a lavorare, come sempre.
Seconda lezione: se non lasci alla guerra il potere di cambiare la tua identità e il tuo ruolo, allora hai vinto. Se muori, almeno sei rimasta quella che hai scelto di essere, perché l’identità è una scelta, non una casualità anagrafica, e sei riuscita a difenderla.
** Mario Boccia è fotoreporter e giornalista professionista. Collabora con diverse testate e ha inoltre realizzato mostre fotografiche e pubblicazioni cartacee in collaborazione con soggetti della società civile e della cooperazione internazionale italiana
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