La divisione delle poltrone
Il Daghestan afferma il proprio diritto esclusivo a determinare composizione del governo e distribuzione dei poteri. Fallisce il tentativo di interferenza da parte di Mosca
Separatismo fiscale
In Daghestan è esploso uno "scandalo nazionale" causato dalla decisione di Mosca di sostituire il responsabile dell’agenzia fiscale regionale. Dopo le dimissioni del precedente capo di dipartimento Nazim Apaev, presentate alla fine del 2008, il direttore dell’agenzia fiscale federale Mihail Mokrezov aveva utilizzato le proprie prerogative per assegnare a questa funzione Vladimir Radčenko, che fino ad allora aveva ricoperto una posizione analoga in Karačaj-Circassia. Quello che potrebbe apparire un comune avvicendamento istituzionale è sfociato in un acceso conflitto: al suo arrivo a Machačkala, capitale del Daghestan, Radčenko è stato accolto da affollate manifestazioni di protesta, gruppi di daghestani scontenti hanno occupato la strada federale "Kavkaz". Il tutto si è concluso con il sequestro di Radčenko, per giunta non ad opera di guerriglieri o criminali, ma del suo stesso vice Gadžimurat Aliev (figlio del presidente del Daghestan Muhu Aliev). Come dichiarato dallo stesso Radčenko, lo hanno portato fuori dalla città e gli hanno consigliato di lasciare volontariamente il paese per evitare maggiori spiacevolezze.
La reazione delle autorità
Logica avrebbe voluto che almeno il presidente Aliev – o perfino il Cremlino – fermasse questo disastro annunciato. Eppure, nulla di simile è accaduto. Il Cremlino non ha reagito alle accuse di provocazione avanzate da Aliev, che ha dichiarato che né Radčenko né nessun altro come lui avrebbe mai messo piede in Daghestan. Secondo fonti del Cremlino, il presidente russo Medvedev, dopo aver ricevuto e ascoltato il leader daghestano, ha deciso di mettere il freno alla questione. Nulla di fatto quindi per la nomina di Radčenko, che è stato costretto a lasciare il paese.
Un conflitto di nazionalità
Perché Vladimir Radčenko non andava bene ai daghestani? Solo per il fatto di essere russo, sembrerebbe. Il Daghestan è sì una delle repubbliche più multietniche della Federazione Russa, ma le popolazioni più rappresentate sono avari (29,4%), darghini (16,5%), kumiki (14,2%), lezghi (13%), laksi (5,4%) e russi (4,7%). Come spiegano le autorità repubblicane, da molto tempo è in vigore nel paese un sistema di spartizione etnica dei posti chiave, mirato a evitare un monopolio che incrini la pace tra le varie nazionalità: attualmente il presidente Aliev è avaro, il capo del governo Šamil’ Zajnalov kumyk, il portavoce del Parlamento Magomed Sulejmanov darghino. Nazim Apaev è lezghino, e lezghino sarebbe dovuto essere anche il nuovo responsabile della raccolta fiscale: non certo il russo Radčenko, quindi. Secondo questa teoria, negli ultimi anni i lezghini erano già stati penalizzati: nel 2006, infatti, il procuratore della Repubblica Imam Jaraliev, lezghino, era stato sostituito dal russo Igor Tkačev.
Questo sistema, che potrebbe sembrare folle per il ventunesimo secolo, resiste imperturbabile dal 1921. In questi 89 anni, i rappresentanti di una stessa nazionalità non hanno mai ricoperto due né, tantomeno, tre posizioni chiave – presidente della Repubblica, primo ministro e portavoce del Parlamento. Le quote nazionali non determinano solo la composizione del governo, ma anche del Parlamento, come sintetizzato qualche tempo fa dal quotidiano "Kommersant" nel tentativo di sistematizzare la politica delle poltrone in Daghestan.
Conseguenze
A Mosca non potevano certo essere all’oscuro dell’esistenza di una suddivisione così rigorosa degli incarichi. Si pone quindi un interrogativo sul perché della nomina di un russo all’incarico della discordia, nonché sulle possibili conseguenze della sua clamorosa defenestrazione – conseguenze che potrebbero essere le più imprevedibili. Per la prima volta da molto tempo, le autorità regionali si sono opposte violentemente ad una decisione del governo centrale e la questione rischia di sfuggire di mano – com’era abitudine negli anni Novanta, quando in Cecenia si combatteva con le armi per l’indipendenza, e molte regioni, dal Tatarstan alla regione di Sverdlovsk, discutevano sul fronte diplomatico della propria sovranità. Quei tempi erano però finiti con l’arrivo al potere di Vladimir Putin, ed ecco che il modello fortemente autoritario impostosi da allora sembra aver dato segni di cedimento.
E adesso? Se altri leader locali dovessero captare e capire questo segnale, potrebbe riemergere il problema del separatismo regionale, con l’ulteriore impulso del riconoscimento da parte russa di Abkhazia e Ossezia del Sud. Dopo la guerra con la Georgia, il Cremlino, riconoscendo queste repubbliche, sembra aver lasciato intendere che il diritto di un popolo all’autodeterminazione può essere – in alcune circostanze – più importante del diritto dello stato all’integrità. Le conseguenze del conflitto daghestano possono quindi diventare molto più ampie di quanto appaiano al momento. In tal caso, la Russia si troverà di nuovo di fronte allo spettro della disintegrazione: rimane da vedere se il Cremlino riuscirà a farvi fronte tenendo conto della catastrofica situazione economica causata dalla crisi finanziaria mondiale.
*Giornalista di "The New Times", Mosca