La diplomazia e la guerra in Ucraina

Nel dicembre scorso si sono incontrati il presidente ucraino Zelensky e quello russo Putin, sotto l’egida di Francia e Germania. Da allora però – nonostante di Ucraina si sia parlato molto per l’impeachment a Trump e per l’abbattimento del Boeing in Iran – poco è cambiato nel conflitto del Donbas

31/01/2020, Filippo Rosin -

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Donbas (Filippo Rosin)

Il Summit di Parigi del 9 dicembre 2019 del gruppo Normandia (formato da Ucraina, Russia, Francia e Germania) ha confermato che quella volontà di pace espressa da parte dei cittadini ucraini in diverse sedi – in primis quella elettorale – con il plebiscito riservato al presidente Zelensky, non è stata ricambiata da un’eguale enfasi delle parti sedutesi al tavolo organizzato da Emmanuel Macron.

Circa 3 milioni di persone attualmente residenti nell’est dell’Ucraina (Donbas) sia nelle repubbliche separatiste che nelle zone controllate dall’esercito ucraino, chiedono la fine del conflitto e che gli siano ridate opportunità di sviluppo sociale ed economico. In Donbas gli effetti diretti ed indiretti della guerra si vivono e vedono ogni giorno, siano essi dovuti ai colpi di mortaio e ai feriti che ne seguono oppure alle difficoltà nel muoversi per andare a trovare un parente o cercare un medico. La reazione della popolazione è in alcuni casi quella di resistere e rimanere, in altri di partire per altre città e villaggi ucraini oppure per l’estero. Alcuni si spostano nella Federazione Russa ed altri, la maggior parte, nelle zone della grande diaspora ucraina: Polonia, Italia, Germania, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Canada e Stati Uniti.

Ad una prima fotografia del post summit, i risultati non sembrano essere molto positivi, in quanto, mentre nel Donbas ogni giorno la guerra è “calda” (il sito liveuamap.com , manda aggiornamenti 24 ore su 24 del conflitto), la diplomazia è rimasta in punta di fioretto compiacendosi di una riunione tenutasi “dopo tre anni”, del buon umore di Vladimir Vladimirovich Putin e del “disgelo che possiamo dire in atto”.

Le decisioni comuni raggiunte a Parigi mirano comunque sia a reiterare gli accordi di Minsk del 2014 e 2015 sia all’adozione di nuove misure immediate per la stabilizzazione nelle aree di crisi. Queste ultime in sintesi stabilivano il cessate il fuoco prima della fine 2019, lo sviluppo di un piano di sminamento, l’aumento del numero delle così dette aree di disimpegno dove rilocalizzare armamenti di ambedue le parti, il rilascio e scambio di prigionieri di guerra garantendo accesso incondizionato ai detenuti da parte delle “organizzazioni internazionali inclusa la Croce Rossa Internazionale” ed infine la creazione di nuovi punti di attraversamento della linea di contatto (attualmente vi è un solo punto di attraversamento pedestre a Stanitsa Luhanska tra la repubblica di Lugansk ed il territorio sotto controllo ucraino e quattro per pedoni e veicoli a Mayorsk, Mariinka, Novotroitske e Gnutove tra repubblica di Donetsk e territorio sotto controllo ucraino).

Ad oggi l’unico punto che è stato implementato con successo è quello riguardante il rilascio dei prigionieri di guerra avvenuto poco prima del capodanno 2019 e che ha dato inizio ad un dialogo per ulteriori scambi.

Guardando non solo al documento finale di Parigi ma alle dichiarazioni dei due presidenti di Russia e Ucraina dopo l’incontro Putin ha affermato che i residenti del Donbas "hanno bisogno di migliorare le loro vite non da domani ma da oggi" mentre Zelensky ha ribadito che è in contatto quotidiano con molte persone che vivono in zone occupate e che vi è già un dialogo in corso con rappresentanti dei separatisti che avviene all’interno degli incontri del gruppo trilaterale Russia-Ucraina e Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (OSCE).

Macron e la Merkel sono stati attenti invece a non irritare Vladimir Putin con il presidente francese esultante della sua nuova strategia di apertura verso la Russia e la Cancelliera timorosa per le ripercussioni che questo potrebbe avere sui rubinetti del gas russo. Macron infatti aveva già incontrato Putin pochi giorni prima del G7 francese dell’agosto 2019 ribadendo la comunanza di valori europei con la Russia ed aveva – ed ha – un forte interesse a creare un dialogo privilegiato con la Russia sulla Siria e soprattutto sulla Libia. La Germania a sua volta rappresenta il principale paese d’esportazione di gas naturale russo che viene acquistato direttamente attraverso il gasdotto “Nord Stream” costruito sotto il mar Baltico. La Merkel è determinata ad aumentare ancora la copertura del fabbisogno di gas con quello russo, attraverso la costruzione del Nord Stream 2 sempre nel mar Baltico, i cui lavori, però, si sono temporaneamente interrotti dopo la minaccia di sanzioni da parte degli Usa.

Il punto cruciale, emerso in maniera molto assertiva da parte del Presidente Putin, ha riguardato ancora una volta la necessità di cambiamenti legislativi e costituzionali necessari per dare alle regioni di Lugansk e Donetsk un autogoverno tramite uno statuto speciale “come stabilito negli accordi di Minsk”. Il dialogo tra Zelensky e Putin si è bloccato però nel momento in cui il presidente ucraino ha espresso come pre-condizione alle elezioni e allo statuto speciale, quella di avere il completo controllo del confini Ucraina-Russia. Anche volendo considerare come autentica l’interpretazione del presidente russo ci chiediamo però se non sia il caso che egli stesso intervenga sulla polizia e sull’esercito delle repubbliche separatiste affinché permettano agli osservatori internazionali dell’OSCE di accedere e monitorare i movimenti al confine russo-ucraino. L’OSCE, di cui sia l’Ucraina che la Federazione Russa fanno parte, ha infatti dispiegato sin dal 2014 una missione sul suolo ucraino e nelle due repubbliche separatiste. Nonostante il mandato della Missione OSCE stabilisca libertà totale di circolazione e il monitoraggio della sicurezza, al personale internazionale non è mai stato permesso di avvicinarsi al confine russo né di procedere a rilevare i passaggi di entrata e uscita di persone e merci.

Esaminando di nuovo le sopracitate decisioni comuni del Summit era apparso chiaro subito come la misura più semplice da implementare fosse quella dello scambio di prigionieri. Ad una prima lettura si capiva come sotto l’aspetto logistico, politico e militare fosse quella di più semplice attuazione e con effetti immediati positivi sugli esecutivi della due parti in conflitto. Era tra l’altro l’unica che presentava un riferimento esplicito alle “organizzazioni internazionali”. Vogliamo in questa sede riaffermare come la presenza di istituzioni internazionali debba essere rafforzata sia sul territorio ucraino che ai tavoli di pace; ciò porterebbe forse a mettere sullo stesso piano le relazioni internazionali ed il diritto costituzionale con le misure umanitarie e le misure di ripristino economico e sociale per le popolazioni colpite dalla guerra in corso.

L’Ucraina è stata ed è da mesi al centro delle notizie sulle testate internazionali. Ci riferiamo alla procedura di impeachment contro il Presidente Trump che nasce dalle trascrizioni di una telefonata dello stesso al Presidente Zelensky e soprattutto ai 176 innocenti morti nel Boeing ucraino abbattuto, a quanto pare per []e, nei cieli di Teheran l’8 gennaio 2020. Nonostante questa eco internazionale la crisi ucraina rimane in una situazione di stallo che non sembra realmente evolversi verso soluzioni concrete e durature.

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