La difficile strada
Altin Raxhimi, giornalista freelance albanese, ha intrapreso insieme ad alcuni colleghi la difficile strada alla ricerca della verità sui presunti campi di detenzione dell’UÇK in Albania e Kosovo durante il conflitto del 1999. Intervista esclusiva per Osservatorio Balcani e Caucaso
Il giornalista albanese Altin Raxhimi è uno degli autori del reportage che ha portato all’attenzione pubblica la storia di abusi perpetrati in campi di detenzione segreti dell’UÇK ("Ushtria Çlirimtare e Kosovës" in italiano "Esercito di Liberazione del Kosovo") in Albania e Kosovo durante il conflitto armato del 1999. In uno di questi, situato nella zona montuosa di Kukës, secondo i dati raccolti nell’inchiesta sarebbero stati recluse dozzine di civili, sopratutto albanesi kosovari accusati di collaborazionismo, ma anche serbi e rom. Molti dei prigionieri sarebbero stati picchiati e torturati, mentre alcuni sarebbero stati uccisi. L’indagine è stata condotta da Raxhimi insieme al collega Vladimir Karaj, del "Korrieri" di Tirana, in stretta collaborazione con Michael Montgomery del Center for Investigative Reporting, che ne ha tratto anche un documentario radio trasmesso sulle frequenze della BBC. Il reportage, pubblicato sul Balkan Investigative Reporting Network (BIRN) ha avuto molta risonanza nell’opinione pubblica kosovara. Secondo Raxhimi, infatti, è evidente che l’esercito albanese ha supportato l’UÇK nel 1999. Un’intervista esclusiva per l’Osservatorio sui Balcani e Caucaso.
Quando ha deciso di seguire la storia dei campi dell’UÇK? Ne aveva sentito parlare anche durante il conflitto del 1998-99, che ha seguito come reporter?
No, durante la guerra in Kosovo non avevo avuto notizie al riguardo. L’indagine è nata intorno al maggio 2008, dalla nostra curiosità personale. Si avvicinava il decimo anniversario del conflitto, e ci è parso interessante guardare indietro per capire meglio quanto successe allora. Abbiamo quindi pianificato un lavoro ad ampio raggio sui rapporti tra Albania e Kosovo durante l’escalation che portò alla guerra. Nella tarda estate del 2008, poi, siamo stati contattati da BIRN per sviluppare il progetto.
Un ulteriore stimolo è arrivato dalle accuse di espianti di organi che Carla del Ponte fa nel suo libro "La caccia", e dalle goffe reazioni di chiusura difensiva provenienti da Kosovo e Albania, i cui governi hanno reagito definendo le parole della Del Ponte come "pura invenzione", "propaganda di Belgrado" e così via.
Ritengo che sia Tirana che Pristina avrebbero fatto meglio ad impegnarsi in un’indagine accurata, e di procedere alle smentite nel caso in cui nulla fosse emerso. Invece, purtroppo, si sono impegnate nella vecchia tendenza balcanica di cercare "forze oscure" e "burattinai" dietro le affermazioni della Del Ponte. In ogni caso, le accuse sembravano essere piuttosto eccentriche.
Che impatto hanno avuto le affermazione contenute nel libro della Del Ponte sulla vostra indagine?
Come già detto "La caccia" ha senza dubbio stimolato la nostra curiosità, ma a parte questo non ha avuto un impatto diretto sul nostro lavoro, con un’eccezione, e cioè l’ipotesi che circa quattrocento serbi del Kosovo scomparsi e mai più ritrovati siano finiti in Albania.
Durante le nostre ricerche abbiamo raccolto moltissimo materiale sulle attività dell’UÇK in Albania, ma non abbiamo mai riscontrato indizi che supportassero questa ipotesi, che quindi non abbiamo riportato nella versione finale dell’inchiesta.
In precedenza avevamo già raccolto testimonianze su Burrel, incluse le attività investigative condotte nel 2004 dal team dell’Unmik e del Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia. Conoscevamo già quanto era emerso allora, e abbiamo continuato ad interrogare molti esperti autorevoli sulla possibilità che espianti potessero avvenire in una zona così povera e remota. Tra l’altro, voci simili erano circolate in Bosnia negli anni della guerra.
Alla fine, però, non abbiamo scritto ulteriormente sull’argomento, perché, in mancanza di prove concrete, non avremmo fatto altro che contribuire alle allusioni già in circolazione, soprattutto sulla stampa serba e su siti "anti-imperialisti", ma anche su quotidiani mainstream, che ne parlano come se si trattasse di fatti accertati.
Spero che il team investigativo del Consiglio d’Europa riesca ad arrivare a fondo, e a dare una parola definitiva sulla questione.
La vostra indagine è stata pubblicata alcuni giorni prima che Kosovo e Serbia inviassero i propri dossier alla Corte Internazionale di Giustizia, che dovrà pronunciarsi sulla legalità della dichiarazione di indipendenza di Pristina. Perché avete scelto di uscire proprio in questo momento?
Si tratta di una pura coincidenza, non c’è alcuna relazione tra le due cose. Innanzitutto, l’indagine è stata pensata col pensiero rivolto al decimo anniversario del conflitto del 1999, e non verso la Corte Internazionale. In seconda battuta, è piuttosto ridicolo collegare il reportage al lavoro della Corte, che non si pronuncerà prima di qualche anno, e che in realtà sta dibattendo ben altro, e cioè se la ferma volontà degli albanesi del Kosovo di avere un proprio stato sia legale o meno.
Non credo quindi che questa indagine indebolisca la posizione del Kosovo nel giudizio finale. L’indipendenza del Kosovo dipende dalla volontà della maggioranza della sua popolazione, e non da quanto si asserisce sia successo a Kukës.
Le autorità di Pristina hanno smentito chi afferma che ufficiali dell’UÇK fossero al corrente dei campi di tortura. Nel vostro reportage, però, si afferma che proprio ufficiali dell’UÇK dirigevano queste strutture…
Sì, questo è quanto emerge dalle nostre fonti. Non avremmo inserito tali affermazioni se non fossero basate su testimonianze che abbiamo raccolto.
Gran parte dell’opinione pubblica kosovara ha reagito negativamente alla vostra indagine. In molti hanno messo in dubbio proprio le fonti da voi utilizzate. Cosa ci può dire a riguardo?
Non posso svelare l’identità di persone che hanno acconsentito a raccontare la propria versione dei fatti solo in condizione di anonimato. Abbiamo deciso di pubblicare l’indagine perché abbiamo riscontrato un forte grado di convergenza di diverse fonti, supportate anche da altri indizi.
So che molti lettori in Kosovo non hanno apprezzato il reportage, ma ce ne sono altri che l’hanno letto per quello che è, e cioè un tentativo di fare luce su cosa siano state le prigioni dell’UÇK in Albania. Sinceramente, mi aspettavo reazioni ancora più negative, e mi hanno sorpreso alcuni commenti molto positivi arrivati dalla comunità albanofona.
Attivisti per i diritti umani hanno fortemente criticato le istituzioni di Pristina per non aver condotto una loro inchiesta sulle accuse della Del Ponte, così come sulle altre accuse rivolte alla leadership militare dell’UÇK. Pensa che la ricerca della verità sarebbe sufficiente a soddisfare tutte le parti in campo?
Credo che sia un processo auspicabile. Se le autorità mostrassero la volontà di impegnarsi seriamente nelle indagini in questo settore, raggiungendo risultati concreti, credo che molti sarebbero disposti a chiudere il "vaso di Pandora", e a ricominciare a vivere la propria vita.
Un ottimo esempio è dato dalla famiglia di Burrel e da tutta la loro comunità, che hanno chiesto di avere un’indagine perché si metta fine alla ridda di accuse, diventate per loro un vero incubo. Sono perfettamente d’accordo col loro punto di vista.
E’ difficile per un giornalista albanese scrivere su questo tipo di temi?
Sì, certamente. Io sono al tempo stesso un albanese e un reporter, come il mio collega Vladimir Karaj. Credo che entrambi abbiamo dovuto affrontare una piccola "guerra interiore" per affrontare questa indagine.
Tra l’altro, in Albania ci si chiude a riccio quando qualcuno, da fuori, critica il paese o gli albanesi del Kosovo. Per questo motivo buona parte della stampa albanese ha evitato la nostra inchiesta. Non credo sia un atteggiamento salutare, e sono convinto che andrebbe sempre conservata la capacità critica rispetto a quanto facciamo.
Eulex ha dichiarato che porterà avanti una sua inchiesta sui casi messi in luce. Sarà in grado di dare supporto a future indagini legali?
Io sono un giornalista, e il mio mestiere è quello di portare fatti all’attenzione dell’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa, e non agli organi di magistratura. Non saprei cosa altro aggiungere oltre a quanto già pubblicato e messo nero su bianco.
Altin Raxhimi è un giornalista freelance. Lavora principalmente a Tirana. Laureato in giornalismo nel 1997 all’Università di Tirana, ha scritto e lavorato per varie testate locali, regionali ed internazionali, tra cui "Top Channel", "Albanian Daily News", "BIRN", "Transition Online", "Time", "Newsweek", il "Chicago Tribune" e il "New York Times".