La Croazia e i crimini di guerra
A seguito delle minacce ricevute per le proprie inchieste, il giornalista di Feral Tribune e nostro corrispondente Drago Hedl torna sulla questione della libertà di stampa in Croazia e sull’atteggiamento dell’opinione pubblica del Paese nei confronti dei crimini di guerra. Da Transitions Online
Di Drago Hedl, Transitions Online, 8 dicembre 2005 (titolo originale: "Impunity prevails")
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall’Asta
Nella Croazia di oggi chi scrive sui crimini di guerra commessi dai Croati non viene più bollato come traditore, come avveniva invece ai tempi del Presidente Franjo Tudjman, morto nel corso del suo mandato alla fine del 1999. Tornando a quei tempi, la dottrina ufficiale sosteneva che i Croati non avrebbero potuto commettere crimini di guerra, perché avevano condotto una guerra puramente difensiva. L’artefice di questa teoria era nient’altri che Milan Vukovic, l’allora presidente della Corte Suprema. Tutto ciò che si opponeva a questa posizione, che era sostenuta dalle più alte autorità legali dello Stato, era considerato una denigrazione della Guerra Patriottica, come i Croati definiscono il conflitto armato innescato dalla dissoluzione della Jugoslavia nel 1991.
Ma mentre ufficialmente la Croazia non nega più che nella guerra del 1991-1995 anche i Croati commisero crimini di guerra, scrivere al riguardo non è facile neppure oggi. È un argomento che non rende popolari. I giornalisti che scrivono su questo tema tuttora finiscono per trovarsi in situazioni spiacevoli, e molti lettori tuttora tendono a reagire dicendo: "Perché invece non scrivete sui crimini di guerra commessi dai Serbi, colpevoli di avere aggredito la Croazia?"
All’inizio degli anni ’90, quando io scrissi il primo articolo sui crimini contro civili serbi commessi a Pakracka Poljana da membri di una unità speciale al comando di Tomislav Mercep, il settimanale Feral Tribune, che aveva pubblicato l’articolo, finì in tribunale. Mercep, una figura potente sulla scena politica croata (era consigliere del ministro degli Interni e membro del Parlamento), accusò la rivista di diffamazione. Il processo non si è ancora concluso.
I cosiddetti media "orientati nazionalisticamente", le principali televisioni e riviste che erano all’epoca completamente controllate dal regime di Tudjman, si riferivano costantemente al settimanale per cui tuttora lavoro e a me stesso come a mercenari stranieri e traditori che si sarebbero venduti anche l’anima per i "venti denari di Giuda". Questo era un aperto riferimento al fatto che il Feral Tribune, uno dei pochi media indipendenti all’epoca, era sostenuto finanziariamente dalla Open Society Foundation di George Soros.
Considerando con la prospettiva odierna la breve storia della cronaca dei crimini di guerra fatta dai media croati, possiamo ritenere che le scioccanti rivelazioni di Miro Bajramovic, membro dell’unità di Mercep, che il Feral Tribune pubblicò nell’autunno del 1997, abbiano segnato un punto di svolta.
Sotto il titolo "Come abbiamo ucciso a Pakracka Poljana" Bajramovic descrisse in dettaglio le atrocità a cui furono sottoposti i civili serbi prima di essere uccisi. Il suo resoconto, in cui forniva esaurienti dettagli di atroci torture e mostruosi omicidi a cui egli aveva partecipato direttamente, giunse come uno shock per l’opinione pubblica croata. Era la prima volta che un colpevole di crimini di guerra ne parlava apertamente.
La storia di Bajramovic pose fine all’idea che i Croati non avrebbero potuto aver commesso crimini di guerra. Le atrocità commesse erano orrende, ed era innegabile anche che dei civili serbi, principalmente da Zagabria ma anche da altri posti della Croazia, fossero stati deportati in un’improvvisata prigione illegale di Pakracka Poljana, dove erano stati torturati e uccisi. Dato che questo era un classico crimine di guerra, il regime di Tudjman non potè più far finta di chiudere un occhio. Solo un giorno dopo che Bajramovic aveva reso pubblica la sua storia, egli fu arrestato insieme ad alcuni compagni.
Il processo per i crimini di guerra commessi a Pakracka Poljana sta per entrare ora nella sua fase finale.
Il silenzio su Vukovar
Quando sette anni fa io cominciai a indagare a Vukovar sui crimini commessi dai Croati contro i Serbi del posto alla vigilia della guerra del 1991, e riaffiorò il nome di Tomislav Mercep, mi scontrai con un insormontabile muro di silenzio.
Il 15 gennaio 1998, dopo due anni di pacifica amministrazione sotto gli auspici dell’ONU, Vukovar fu reintegrata nell’ordine costituzionale e legale della Repubblica di Croazia. Era stata nelle mani dei ribelli serbi come parte della cosiddetta Repubblica della Krajina Srpska, fin dal momento in cui le forze serbe l’avevano conquistata il 18 novembre 1991. I Serbi locali erano t[]izzati non sapendo cosa sarebbe successo dopo. I traumatizzati Croati che iniziavano a tornare alle loro case dopo sette anni di spostamenti ritennero inopportuno parlare dei crimini croati in una città così devastata durante l’aggressione serba, e che aveva visto un crimine orribile come quello di Ovcara, dove più di 200 Croati, principalmente degenti dell’Ospedale, erano stati uccisi dai Serbi.
La gente con cui parlai, in maggioranza parenti di civili serbi assassinati, raccontò ciò che sapeva solo con molta riluttanza, perché avevano paura di probabili ritorsioni. Chiesero di incontrarmi in posti appartati e insistettero per rimanere completamente anonimi. Solo pochi Croati di Vukovar accettarono di essere intervistati, ma tutti dissero che non era ancora venuto il tempo per quello che volevo sapere.
Nonostante questi ostacoli, e sulla base della scarsa informazione e documentazione che ero riuscito a procurarmi principalmente da fonti serbe, riuscii a pubblicare un articolo su come i negozi, i caffé e le case dei Serbi di Vukovar fossero stati fatti esplodere nella primavera e all’inizio dell’estate prima della guerra, e su come i membri della Zbor Narodne Garde, precursore dell’esercito croato al comando di Tomislav Mercep a Vukovar, avessero prelevato e ucciso i Serbi locali. Il mio pezzo fu prontamente condannato.
Le associazioni dei veterani protestarono che siffatti articoli "infangavano la Guerra Patriottica" e "insultavano l’eroica città di Vukovar". La televisione di Stato e la rivista governativa Vjesnik utilizzarono una mia visita a Vukovar per dipingermi come un collaborazionista dei Serbi, una cosa che mi causò notevoli problemi in quei giorni.
Qualcosa di simile avvenne quando iniziai a scrivere sui crimini di guerra di Osijek, una città in cui dozzine di civili, principalmente serbi, furono uccisi nel 1991-1992. Le informazioni erano pressoché impossibili da ottenere perché i funzionari chiave dell’amministrazione, della magistratura e della polizia erano tutte persone che durante la guerra avevano occupato alte cariche militari. Per esempio, il più importante funzionario civile in quella parte del Paese, il Governatore Branimir Glavas, era stato comandante della difesa di Osijek. Il presidente della Corte Cantonale era Petar Kljajic, assistente di Glavas durante la guerra, e il capo della polizia di Osijek era Dubravko Jezercic, in guerra uno dei comandanti della 160ª Brigata Osijek, sotto il comando di Glavas. In simili circostanze, era pressoché impossibile ottenere una qualsiasi informazione sui lati oscuri della difesa di Osijek: la gente era semplicemente troppo t[]izzata per dire una sola parola.
Dopo che io ebbi pubblicato un paio di articoli sui crimini di guerra commessi a Osijek, Glavas, allora a capo della regione, generale dell’esercito croato e una delle figure politiche più potenti in Croazia, mi mandò a dire tramite un deputato del Parlamento che egli mi avrebbe "polverizzato e incenerito". L’unica protezione che avevo allora era quella della Federazione Internazionale dei Giornalisti e dell’Ambasciatore statunitense in Croazia, Peter Galbraith, che mi telefonò personalmente e si offrì di aiutarmi informando le massime autorità della minaccia e domandando che fossi protetto.
Occultare le prove
I crimini di Osijek erano indicibili, e i miei articoli fornivano ampiamente prove e fatti, così come anche serie prove circostanziali. Ma non ebbero seguito. Il Procuratore di Stato non ritenne necessario indagare sui fatti, anche se io avevo riferito di dozzine di omicidi, 10 dei quali erano stati commessi nello stesso identico modo. Soldati dell’esercito croato facevano irruzione nelle case dei civili serbi, li portavano via spiegandogli che c’era bisogno di loro per un breve interrogatorio, e li portavano in automobile al numero 30 di via Dubrovacka ad Osijek. Qui li interrogavano e li torturavano, gli legavano le mani con un pezzo di corda, li imbavagliavano con del nastro adesivo, quindi li conducevano sulle rive del fiume Drava e là li uccidevano. Io avevo rapporti della polizia su questi omicidi, dichiarazioni dei parenti e foto delle vittime. Non era sufficiente per un’indagine ufficiale.
Nel giugno 2002 mi imbattei nella terrificante storia di come 18 corpi di civili serbi, residenti di Paulin Dvor vicino a Osijek, erano stati spostati 500 chilometri più a ovest, nella provincia della Lika sulle montagne croate, per nascondere ogni traccia del crimine. Io ne avevo già scritto in precedenza: 18 serbi e un ungherese, tutti civili e in maggioranza donne e anziani, erano stati uccisi da soldati croati nella notte tra l’11 e il 12 dicembre 1991. Io sapevo più o meno tutto su questo caso, ciò che non sapevo era dove fossero i corpi.
Nonostante l’attendibile informazione che i resti dei civili di Paulin Dvor erano stati inumati in bare di plastica nella Lika, non riuscii a ottenere una conferma ufficiale. Pubblicai comunque la storia, dato che le mie fonti erano affidabili. Questo fu un nuovo shock per il pubblico croato: non solo membri dell’esercito croato avevano commesso dei crimini, ma avevano anche cercato di nasconderne le prove. Allora emerse che 18 corpi provenienti da Paulin Dvor erano stati nascosti nel magazzino militare di Cepin, vicino a Osijek, e un cadavere femminile era rimasto sul luogo del massacro, dove era stato trovato pochi giorni dopo da unità dell’Esercito Popolare Jugoslavo e da paramilitari serbi che avevano preso il villaggio ai Croati.
Io avevo informazioni dettagliate su tutti coloro che avevano preso parte nello spostamento dei corpi, e avevo anche ricevuto informazioni attendibili secondo cui esso era stato organizzato dal locale comando militare e dai servizi segreti militari, e che le massime cariche dello Stato a Zagabria ne erano a conoscenza. Fui informato che Miroslav Tudjman, figlio maggiore del Presidente Tudjman, era anch’egli coinvolto; egli era a capo di tutti i servizi di intelligence croati nel gennaio 1997, quando i corpi furono rimossi dal magazzino militare e trasferiti nella Lika.
Egli ignorò completamente la mia richiesta di rispondere a questa accusa.
Ma il caso era troppo imbarazzante per essere completamente ignorato. Presto furono arrestati due sospetti esecutori del crimine, Nikola Ivankovic and Enes Viteskic. Io avevo sentito menzionare i loro nomi quali possibili esecutori del crimine alcuni anni prima, quando scrivevo i primi articoli sui massacri di Paulin Dvor. Naturalmente non avevo pubblicato quei nomi, non avendo prove ma solo indicazioni.
Un anno dopo, quando ad Osijek incominciò il processo contro Ivankovic e Viteskic, io presenziai a quasi tutte le udienze. Lì vidi una vera farsa: sia l’accusa che la corte cercavano premurosamente di non coinvolgere nessuno dei "pesci grossi", e si dedicarono meticolosamente ad accollare agli accusati l’intera responsabilità per l’uccisione delle 19 persone. La corte discusse solo il crimine in sé, non la questione di chi spostò i corpi per nascondere le prove. L’ufficio del Procuratore di Stato a Zagabria spiegò che secondo la legge croata, nascondere un crimine di guerra non costituiva in sé un crimine di guerra e che la prescrizione per l’occultamento di prove era di cinque anni, da poco trascorsi, e questo bastava per evitare di indagare al riguardo.
L’atmosfera in tribunale era insostenibile. Membri delle associazioni dei veterani di guerra, e le famiglie e gli amici degli accusati, facevano commenti ad alta voce durante le deposizioni dei testimoni, scoccavano loro sguardi minacciosi durante le pause in aula, arrivando ad aggredirne verbalmente alcuni. Io stesso fui attaccato a parole da due membri di una associazione di veterani di guerra di fronte al palazzo di giustizia, quasi al limite dell’aggressione fisica.
Soggetti a queste pressioni, i testimoni dell’accusa iniziarono a cambiare drammaticamente le deposizioni che avevano fatto durante le indagini. Laddove avevano offerto delle concrete descrizioni dei fatti agli inquirenti, ora dicevano di non avere una buona memoria e di aver dimenticato quanto era accaduto. Uno dei testimoni chiave, Josip Uglik, che aveva fornito le descrizioni più dettagliate e aveva menzionato un "pesce grosso" che, pur essendo a conoscenza del crimine, non aveva fatto nulla per colpirne gli esecutori, sostenne di fronte alla corte che quel giorno era completamente ubriaco e che non riusciva a ricordare nulla.
Ivankovic fu condannato a 12 anni di prigione per l’omicidio di 19 persone mentre Viteskic fu rilasciato per insufficienza di prove. La Corte Suprema in seguitò invalidò il verdetto e un nuovo processo sta per iniziare.
Nel luglio di quest’anno, otto anni dopo le scioccanti dichiarazioni di Miro Bajramovic, che per prime misero il pubblico croato di fronte ai crimini commessi dall’esercito croato, intervistai Krunoslav Fehir, che era stato testimone e aveva partecipato alla eliminazione dei civili di Osijek nel 1991-1992.
Ripercorrendo le sue dichiarazioni, rese pochi giorni prima al procuratore di Stato a Zagabria, mi raccontò in dettaglio come avesse ucciso un civile serbo, secondo gli ordini di Branimir Glavas, comandante della difesa di Osijek. Fehir, che all’epoca aveva solo 16 anni, era membro di una unità speciale che presidiava il quartier generale militare di Glavas. Fehir fornì a sostegno delle sue dichiarazioni dei documenti, il proprio tesserino militare, varie fotografie, e diverse lettere indirizzate a lui in quanto membro dell’esercito croato, e che provavano anche che egli faceva parte dell’unità di Glavas.
Mi raccontò cose terribili: di come avesse custodito civili serbi portati al quartier generale di Glavas per essere interrogati, di come essi erano stati torturati e seviziati, e in seguito uccisi. La parte più spaventosa della storia era come i detenuti fossero stati costretti a bere l’acido delle batterie che erano immagazzinate nel garage dove erano rinchiusi.
Le circostanze cambiano
La mia storia diede un’altra scossa al pubblico croato. Il pezzo sui crimini di guerra di Osijek venne pubblicato in diversi giornali, e la televisione di Stato mi invitò a presentare le mie tesi in una trasmissione di un’ora dedicata all’argomento; tutte e tre le emittenti televisive di Stato dedicarono spazio a questo tema.
Una simile esposizione mediatica sarebbe stata assolutamente inconcepibile ai tempi di Tudjman e mostra che le condizioni nel Paese sono cambiate e che ora almeno si può parlare apertamente.
Ma questo non vuol dire che oggi sia più facile di prima raccogliere prove. Quando cercai di ottenere dei documenti su questi fatti dalla polizia e dall’ufficio del procuratore, la loro risposta fu che non potevano essermi d’aiuto "nell’interesse delle indagini".
Quando tentai di avere il referto autoptico sulla morte di Cedomir Vuckovic, una delle persone che secondo il mio testimone erano state forzate a bere l’acido delle batterie, il dipartimento di anatomia patologica dell’ospedale di Osijek mi disse che non ero autorizzato a prendere visione dei documenti, e che solo i parenti potevano farlo. Contattai il figlio di Vuckovic, che vive nel Regno Unito. Egli mi inviò una lettera di autorizzazione, autenticata dall’Ambasciata croata a Londra, e io riuscii a vedere le note conclusive dell’autopsia, che stabilivano senz’ombra di dubbio che la morte di Vuckovic era avvenuta in
seguito ad avvelenamento da acido solforico. Ma non mi fu dato il completo referto dell’autopsia, e non mi fu concesso neppure di dargli un’occhiata.
A causa degli articoli che avevo pubblicato sulle esecuzioni a Osijek e sul suo possibile coinvolgimento, Glavas mi attaccò violentemente sui giornali e in televisione, definendomi "un caso psichiatrico", un "bugiardo" e "una persona malata". Almeno per questa volta non mi minacciò direttamente, come aveva fatto 10 anni fa.
Ma il 7 dicembre di quest’anno ho ricevuto per posta una lettera anonima che mi minacciava di morte. Stando al timbro postale, la lettera era stata spedita da Osijek il 5 dicembre. Il Feral Tribune ha informato la polizia e l’ufficio del Procuratore di Stato.
Anche se ora è possibile scrivere sui crimini commessi dai Croati durante la guerra, con meno rischi rispetto a cinque o dieci anni fa, e anche se io non credo che la polizia segreta tenga più sotto sorveglianza i giornalisti come al tempo di Tudjman, le indagini e i procedimenti giudiziari procedono sempre con dolorosa lentezza e vengono condotti con intollerabile trascuratezza. (Dopo la caduta dell’HDZ di Tudjman nel 2000, si scoprì che i servizi segreti tenevano sotto controllo i telefoni di 121 giornalisti e che all’intelligence militare erano affidati 20 "nemici dello stato". Dato che io ero in entrambi i gruppi, ebbi l’opportunità di ispezionare questi vergognosi dossier segreti).
Intanto, i Serbi sono stati sottoposti a rapidi processi di fronte alle Corti croate, per crimini di guerra commessi in Croazia, ottenendo il massimo della pena sulla base di prove molto inferiori a quelle presentate nei casi contro i Croati. I Croati beneficiano anche della legge sull’amnistia generale, anche nel caso di omicidi multipli.
Si può quindi dire che oggi non è più un segreto per nessuno che anche i Croati hanno commesso dei crimini di guerra, ma che poco si sta facendo per punirli.