La crisi nel nord del Kosovo

Continua la tensione nel nord del Kosovo, dopo che il governo di Pristina ha cercato di assumere il controllo dei valichi di frontiera con la Serbia centrale. Lo sviluppo della crisi nel reportage della nostra corrispondente

29/07/2011, Tatjana Lazarević - Mitrovica

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Il sindaco di Zubin Potok parla con la KFOR alle barricate (Foto Tatjana Lazarević)

La lunga tregua nel nord del Kosovo è finita. All’inizio di questa settimana, unità speciali della polizia kosovara denominate ROSU hanno colto di sorpresa le semideserte cittadine del Kosovo settentrionale. Con una rapida azione, hanno preso il controllo dei due valichi amministrativi che comunicano con la Serbia centrale, Brnjak e Jarinje, e la crisi è riesplosa.

Nonostante [il governo di] Pristina avesse deciso di chiudere le frontiere meridionali ai prodotti serbi, fino a quando Belgrado non avesse riconosciuto i timbri dello Stato kosovaro, e alcune voci avvertissero della possibilità di un’azione nel nord, molti serbi se ne erano andati in vacanza.

Quelli che erano rimasti a casa hanno reagito immediatamente, bloccando le strade con tronchi d’albero e erigendo barricate di legna e sabbia. Le unità albanesi sono riuscite ad arrivare a Brnjak disarmando gli ufficiali serbi della polizia kosovara (KPS). Quando però hanno cercato di fare la stessa cosa a Jarinje, sono stati chiusi in un imbuto.

La stessa sera è arrivato sul luogo il responsabile serbo dei negoziati con Pristina, Borislav Stefanović, accompagnato dal ministro per il Kosovo Goran Bogdanović, per incontrarsi con il comandante della KFOR, Erhard Bühler, e la comunità locale.

Nell’incontro i serbi hanno richiesto il ritiro delle forze del ROSU dal nord e il ripristino della situazione antecedente l’arrivo delle unità speciali, con i valichi presidiati da funzionari serbi della KPS insieme alla polizia dell’EULEX. Il governo di Pristina invece era determinato a far rimanere sul posto le unità ROSU, e a introdurre lo stesso regime doganale in vigore nel resto del Kosovo.

La morte del poliziotto Enver Zymberi

Nonostante segnali positivi di soluzione, era evidente che l’incontro-maratona non sarebbe stato l’ultimo. Il giorno successivo un poliziotto delle forze speciali ROSU è stato ferito a morte nell’area di Zubin Potok. Fonti albanesi hanno riportato la notizia che l’agente sarebbe stato ucciso da un colpo alla testa sparato da un cecchino, mentre si stava ritirando da Brnjak. Un testimone oculare che ha parlato sotto la condizione di anonimato ha invece sostenuto che il poliziotto albanese sarebbe stato ucciso in uno scambio di colpi tra armi automatiche: “Un’unità della ROSU si stava ritirando, come era stato concordato. Ma appena hanno lasciato l’area sotto il nostro controllo, è apparsa una nuova unità ROSU, che era lì in attesa. Si sono diretti con i loro mezzi verso le nostre barricate. Immediatamente siamo andati loro incontro con le macchine, per raggiungerli prima che arrivassero alle barricate e impedire che entrassero in città e nel villaggio di fronte. Quando siamo arrivati gli uni di fronte agli altri, sulla strada, abbiamo fatto un blocco con le macchine. Loro si sono fermati e sono usciti con le armi. Ci sono stati prima alcuni spari in aria, non sappiamo chi abbia cominciato a sparare per primo, poi abbiamo cominciato a spararci addosso. Hanno violato i patti. Non avrebbero dovuto tornare indietro.”

Dopo continui negoziati tra i serbi e la KFOR, nella stessa giornata Stefanović ha dichiarato che tutti i dettagli erano stati concordati, e che le ultime truppe della ROSU si sarebbero infine ritirate entro le 8 della mattina successiva.

A Pristina, intanto, quella sera il Primo ministro Hashim Thaci ha tenuto una conferenza stampa straordinaria per rendere onore al militare ucciso e giustificare l’azione: “La decisione di ieri sera non è stata facile, ma era giusta e questa azione era necessaria. In quanto Primo ministro ho il dovere morale, costituzionale e legale di prendere decisioni così gravose”, ha dichiarato Thaci senza che i giornalisti presenti potessero fare domande.

L’ufficiale ucciso si chiamava Enver Zymberi, ed è stato definito un eroe. Molte pagine Facebook sono state immediatamente aperte in suo onore, raccogliendo migliaia di simpatizzanti albanesi che hanno condiviso forti sentimenti nazionali e condannato i serbi: “È stato ucciso mentre proteggeva i confini del suo Stato, assassinato mentre svolgeva il suo dovere da un cecchino, in un’imboscata”, si legge ad esempio nel commento postato da Valjdete Idrizi, attivista di una ong di Mitrovica sud.

Stato di emergenza

Il ministro degli Interni del Kosovo, Bajram Rexhepi, ha confermato poi il ritiro della ROSU dal nord, ma ha dichiarato che la missione era stata portata a termine con successo, a seguito della creazione di un posto di dogana e delle condizioni per il lavoro di una polizia di frontiera etnicamente mista.

Sembrava che la crisi fosse risolta, ma è invece proseguita nella giornata successiva, quando in poco tempo si sono diffuse informazioni contraddittorie sulla presenza di unità ROSU nella base KFOR americana di Leposavić e sul trasporto con elicotteri croati di nuove unità ROSU a Brnjak. Fonti croate hanno poi confermato che era stato aperto il fuoco contro un loro elicottero che trasportava doganieri e poliziotti di frontiera.

Nonostante Bühler, parlando di fronte ai serbi che si erano radunati, avesse negato la presenza di unità ROSU nel nord, il panico e la tensione si erano ormai già diffusi e le autorità locali hanno dichiarato lo stato d’emergenza. Notizie locali sostenevano che Brnjak fosse finita sotto il controllo dei doganieri albanesi, e che una colonna motorizzata di KFOR americana era stata fermata alle barricate di Zvečan, sulla strada per Leposavić. Secondo alcune voci, gli Hummer e gli elicotteri americani stavano trasportando le forze ROSU a Jarinje. Stefanović richiedeva intanto il ritiro dei doganieri e degli ufficiali di frontiera albanesi dal checkpoint di Brnjak, insistendo sul rispetto dell’accordo che era stato negoziato prima.

Insieme al vescovo serbo ortodosso in Kosovo, Teodosije, Stefanović ha cercato di calmare le tensioni tra i serbi locali riuscendo infine a persuaderli a lasciar passare gli americani, dopo aver avuto assicurazione che l’unità americana non trasportava forze ROSU ma era una normale unità di rifornimento di acqua e viveri alla base militare di Leposavić.

Barricate

Zubin Potok, sulle barricate (Foto Tatjana Lazarević)

Zubin Potok, sulle barricate (Foto Tatjana Lazarević)

La gente sulle barricate è rimasta senza dormire per diverse notti. I sentimenti dominanti sono la rabbia, la forte tensione e l’attenzione esasperata nei confronti di qualsiasi voce o segnale di cambiamento della situazione. I manifestanti non dimostrano fiducia nei media e non parlano volentieri, rifiutando di rivelare i propri nomi o di essere fotografati. “Devi capirci. Siamo all’aperto 24 ore su 24 in questo caldo. Più di tutto siamo infuriati con la KFOR. Danno la colpa a noi, ma sono gli albanesi che provocano. Non vogliamo una dogana o una frontiera albanese qui. È la nostra terra. Noi ci difendiamo, non attacchiamo”, mi ha dichiarato a bassa voce un dimostrante alle barricate nel villaggio di Zupče, municipalità di Zubin Potok.

Un altro, giovane, alto e con le spalle larghe mi ha gridato: “Non abbiamo futuro nel loro Paese. Guarda i serbi nel sud. Scompaiono.”

Il sindaco di Zubin Potok, Slaviša Ristić, era con la sua gente: “Ci hanno mentito. Ieri Bühler ci aveva detto di informarlo immediatamente se avessimo visto unità ROSU, e di arrestarle. Oggi le stanno trasportando al check point con gli elicotteri”, mi ha dichiarato con durezza.

L’incendio del check point

La crisi non aveva ancora raggiunto il suo culmine. Nella serata, mentre alcune stazioni televisive serbe mandavano servizi dal posto di Jarinje, che appariva tranquillo, sono apparsi all’improvviso una cinquantina di giovani incappucciati e con occhiali scuri, dando furiosamente alle fiamme le strutture, radendo al suolo l’area e poi scomparendo di fronte alle telecamere. Non è ancora chiaro come siano riusciti a superare le barricate. Il ponte principale a Mitrovica nord è poi stato chiuso da unità corazzate dell’EULEX.

L’esplosione di violenza è stata immediatamente seguita da una dura e forte reazione da parte del presidente serbo e del rappresentante serbo Stefanović, insieme a dichiarazioni contraddittorie di alcuni esponenti politici sulla natura organizzata o spontanea della violenza. La polizia serba ha avviato intensi controlli per prevenire l’eventuale arrivo di facinorosi dalla Serbia centrale. Alcune fonti di Pristina hanno immediatamente accusato Belgrado per l’accaduto. Entrambe le parti si sono però trovate concordi nel definire come estremisti, vandali e hooligan gli autori della devastazione.

Bühler e Stefanović si sono poi incontrati nuovamente. Ieri la KFOR americana ha assunto il controllo di quello che restava del posto di Jarinje, e ha fornito sostegno anche a Brnjak dove ci sono ancora doganieri e poliziotti di frontiera albanesi. Nel quarto giorno della crisi, Stefanović e Bühler stavano ancora negoziando.

Il meccanismo dell’escalation

La benzina sul fuoco arriva sempre sotto forma di voci non verificate e di informazioni contraddittorie.

“È stato incredibilmente difficile lavorare in questi giorni, per la quantità di disinformazione e di voci non verificate che ricevevamo”, ha dichiarato Zvezdan Djukanović, corrispondente e fotografo della Associated Press.

EULEX, d’altro canto, è rimasta sorprendentemente silenziosa. In uno sterile comunicato stampa ha dichiarato che “è importante che la situazione attuale venga risolta in maniera calma e pacifica. EULEX si sta coordinando strettamente con la KFOR affinché questo avvenga, e per mantenere la sicurezza”. EULEX ha negato ogni coinvolgimento nell’operazione dei ROSU.

Al termine di un periodo di silenzio quasi artificiale, nel nord del Kosovo sono ricominciati giorni irrequieti. La tensione è nell’aria. Gli elicotteri sorvolano il territorio. La gente è di nuovo per le strade. Una nuova generazione di adolescenti rabbiosi e impavidi è cresciuta in una città circondata dal filo spinato, osservando scontri etnici per le strade sin dall’infanzia. I più grandi sono consapevoli del rischio che i serbi del nord siano sull’orlo di uno scontro di vasta portata, e tutti sono decisi a lottare contro uno scenario che li veda vivere come i loro connazionali del sud.

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