La comunità ebraica in Croazia

La storia della comunità ebraica in Croazia, un percorso imbattuto che rivela inaspettate influenze sullo sviluppo culturale e politico del paese. Una tesi di laurea

11/12/2012, Sandy Gentilezza -

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Mosé, monumento nel cimitero Mirogoj a Zagabria

Quali affinità possono esistere, quale condivisione storica può accomunare la società croata alla cultura ebraica? Le risposte sono quantomeno insospettabili.

Le prime testimonianze di un insediamento ebraico permanente sul territorio dell’attuale Croazia, risalgono al II-IV secolo d.C. La loro presenza è stata registrata grazie ai resti di alcuni antichi cimiteri, in particolare a Solin, vicino a Spalato, e nell’entroterra nei pressi di Osijek. La loro datazione coincide con l’arrivo dei Romani, in particolare in Dalmazia, sui cui litorali promuovevano i loro scambi commerciali.

La presenza ebraica su questi territori precede quindi di almeno tre secoli la colonizzazione del popolo slavo nei Balcani, il quale trovò la sedentarietà alle porte dell’Impero Romano d’Oriente solo nel VII secolo.

I primi segni documentati di un’influenza ebraica sullo sviluppo di cultura e società croate risalgono al finire del IX secolo, con la scelta di Cirillo e Metodio di inserire fonemi ebraici nella scrittura glagolitica. I due monaci, con l’intento di avere una lingua comune utile alla conversione al cristianesimo dei popoli slavi di tutta la regione balcanica, scelsero curiosamente di non inserire fonemi latini.

Effettivamente il loro alfabeto ebbe ampissima diffusione per tutto il Medioevo e Papa Innocenzo IV conferì nel 1248 ai soli croati in tutto il mondo cattolico il diritto di utilizzare la propria lingua madre e la scrittura glagolitica, anziché il latino, nella liturgia ecclesiastica cattolica.

Le prime migrazioni documentate

La prima cospicua ondata migratoria ebraica documentata sul territorio è stata quella sefardita, ebrei cacciati dal cattolico Ferdinando d’Aragona nel 1492, e dispersi poi in Italia, nei Balcani e in tutto il bacino del Mediterraneo. Questa ha interessato soprattutto la zona dei litorali, quindi Fiume, Spalato e Ragusa.

Nel 1526 poi l’intero territorio dell’attuale Croazia entra nella sfera asburgica e da questo momento per i successivi due secoli non verranno più costituite comunità ebraiche ufficiali. Inizierà invece un lento e graduale processo di segregazione degli ebrei nei ghetti, nonché le prime discriminazioni, che si distingueranno nelle regioni interne per la loro natura prevalentemente finanziaria. Fu infatti imposta nel 1746, insieme ad altri oneri, la cosiddetta Tassa di Tolleranza, il cui mancato pagamento permetteva l’espulsione dal territorio.

Gli ebrei di Dubrovnik, subirono invece vere e proprie persecuzioni, che si concretizzarono in false accuse di omicidi rituali. Famoso è ad esempio il caso di Isach Jesurun, del 1622, accusato di aver ucciso una ragazza, il cui corpo fu poi trovato sotto il letto della stessa anziana signora che lo indicò come mandante dell’omicidio. Il caso scatenò una persecuzione anti-ebraica.

Nei decenni successivi la città entrò sotto il protettorato turco, la cui amministrazione riconobbe alle attività commerciali ebree un valore aggiunto per la città.

Editto di tolleranza

Il resto del territorio rimase invece sotto l’influenza austriaca, fino alla dissoluzione dell’Impero nel 1918. Nel 1783 Giuseppe II promulgò l’Editto di Tolleranza, denominato Systematica gentis Judaicae regulatio. L’Editto si rivolgeva nei territori croati alle appena 25 famiglie ebree registrate. Il suo effetto fu la cancellazione di tutti i decreti restrittivi precedenti, consentendo agli ebrei libertà di commercio e circolazione, nonché l’apertura di scuole ebraiche.

Inaspettata invece, fu l’improvvisa immigrazione nel paese di ebrei ashkenaziti, di origine tedesca, che ne seguì. Questa massiccia ondata migratoria fu la causa della prima discussione interna tra le comunità ebraiche presenti sul territorio, che si divisero in sionisti ed assimilazionisti.

I primi, composti prevalentemente da ebrei ashkenaziti, miravano al mantenimento della loro identità culturale e al legame con Israele, sentendosi comunque parte del tessuto sociale dello Stato in cui risiedevano. Nonostante questo, gli ebrei ahskenaziti venivano percepiti perlopiù come stranieri, rispetto ai sefarditi, la cui presenza era consolidata da secoli.

L’intera comunità ebraica riuscì ad ottenere la piena cittadinanza in Croazia solo nel 1873, quando il Sabor, il parlamento croato, emanò il Decreto sull’emancipazione della minoranza ebraica.

Le persecuzioni degli anni ’20

Il primo luglio del 1919 venne costituito l’Unione delle comunità religiose ebraiche (Savez jevrejskih veroispovednih opština), per contrastare un orientamento politico fortemente anti-semita che si stava instaurando con la nascita della prima Jugoslavia. Tale misure non fu sufficiente ad evitare le persecuzioni che ebbero luogo in tutto il neonato Regno di Jugoslavia, che nell’insieme contava ora più di 70.000 cittadini ebrei. Furono soprattutto gli ashkenaziti a subire maggiormente questi provvedimenti. La giustificazione di tali misure di sicurezza era la prevenzione di disordini anti-statali. Re Alessandro promulgò in seguito, nel 1929, la legge sulle comunità ebraiche, che ne disciplinò formazione e organizzazione per ogni città, ponendo temporaneamente fine alle discriminazioni.

Con l’avvento al potere di Hitler, in Germania, si accese una nuova campagna antisemita, basata sull’odio razziale. Questa venne sostenuta su tutta la stampa jugoslava, soprattutto in Vojvodina, dove risiedeva una numerosa comunità tedesca, e a Zagabria, dove presto i nazionalisti fondarono il movimento ustaša. La morte nel 1934 del Re Alessandro peggiorò la posizione degli ebrei in tutto il Regno.

Gli anni ’30

Anche i sentimenti della comunità ebraica del Regno erano cambiati: mentre la prima ondata antisemita del 1920 veniva percepita come temporanea, ora le preoccupazioni si facevano più evidenti. David Albala, leader del sionismo di Belgrado dichiarò al sesto Congresso dell’Unione delle comunità religiose ebraiche del 1936: “Non sono avvezzo all’antisemitismo in Serbia. È difficile essere un ebreo in Jugoslavia. Vorrei che molti non-ebrei lo diventassero solo per 24 ore, per comprendere la tragedia della nostra posizione, perché si sentano come ci sentiamo noi quando le teste e gli sguardi si voltano dall’altra parte, quando le conversazioni si bloccano perché il tuo interlocutore capisce che sei ebreo". Durante il Congresso, si sostenne comunque che l’intera popolazione fosse dotata di tolleranza e che l’avvicinamento politico del Regno alla Germania fosse dettato più dalla paura, che da reali sentimenti antiebraici.

Non esisteva infatti in Croazia un partito che presentasse nel proprio programma politico espliciti riferimenti antisemiti: gli stessi ustaša erano un movimento di destra anti-Jugoslavo sin dalla sua fondazione nel 1932-33. Manifestava principalmente odio nei confronti del regime di Belgrado e dei serbi. Uno dei primi fondatori del movimento, nonché braccio destro di Pavelić, era proprio un ebreo, Vladimir Singer (venne catturato e ucciso nel 1941, paradossalmente proprio da militanti ustaša). Il movimento però si radicalizzò velocemente, cominciando a considerare anche gli ebrei meritevoli di uno sterminio di massa.

Esisteva comunque un’altra Croazia, che si opponeva a tutte queste argomentazioni. Nell’aprile del 1938 il leader del HSS (Hrvatska seljačka stranka – Partito contadino croato) Vladko Maček, dichiarò che “l’antisemitismo è un fenomeno inusuale e ridicolo. Non esiste alcuna minaccia ebraica, la quale non è niente più che un’allucinazione di alcuni partiti. L’antisemitismo non può esistere tra i croati”. A causa di queste affermazioni, Maček e l’Hss furono accusati da diversi quotidiani dell’epoca di complottare assieme agli ebrei.

L’occupazione e lo sterminio

Nel 1941, l’esercito jugoslavo fu schiacciato dalle forze nazi-fasciste in appena 11 giorni (6 aprile-17 aprile 1941). I territori dell’attuale Croazia non annessi ad altri Stati, vennero consegnati alla formazione denominata Nezavisna Država Hrvatske (NDH), ossia allo Stato Indipendente Croato, al cui potere i tedeschi insediarono Ante Pavelić.

L’occupazione fu la condanna per gli ebrei jugoslavi. I crimini più noti e cruenti furono perpetrati contro prigionieri ebrei e serbi sull’isola di Pag e a Jasenovac. Solo in quest’ultimo campo trovarono la morte 20.000 ebrei. Quello stesso anno, l’Unione delle comunità religiose ebraiche croate cessava di esistere.

Solo 5.000 ebrei croati sopravvissero all’Olocausto, la maggior parte dei quali aveva trovato la salvezza arruolandosi con i partigiani di Tito.

La Jugoslavia socialista

Quando la Jugoslavia fu liberata nel 1945, nacque la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia. Da questo momento in poi, l’ateismo diventa la politica ufficiale dello Stato. Ciononostante, insieme alla nuova Repubblica, nasce nel 1945 la Federazione delle comunità ebraiche di Jugoslavia, con sede a Belgrado. I suoi obiettivi includevano la rappresentanza legale delle comunità ebraiche e dei loro interessi davanti allo Stato, così come condizioni sicure che consentissero l’osservanza dell’ebraicità nel paese. Il suo operato si svolgeva con l’intensa collaborazione, soprattutto economica, dell’American Jewish Aid e delle organizzazioni degli studenti sionisti emigrati nel 1920, ma che si sentivano comunque molto obbligati al loro paese d’origine. Saranno le organizzazioni sioniste ad influenzare molto la vita della comunità ebraica nella Jugoslavia di Tito.

Fu soprattutto nel tentativo di ritrovare gli elementi di una comune appartenenza ebraica che, nell’estate del 1952, la Federazione delle comunità ebraiche organizzò una campagna avente lo scopo di dedicare cinque monumenti alle “Vittime ebree del fascismo” (agli ebrei jugoslavi uccisi durante la Seconda guerra mondiale) da localizzarsi nei cinque centri maggiori: Belgrado, Zagabria, Sarajevo, Novi Sad e Đakovo.

Questi monumenti dovevano assolvere ad una doppia funzione: dimostrare e ricordare la partecipazione ebraica alla liberazione nazionale, valorizzando così l’appartenenza alla società jugoslava, e contrastare la campagna politica di revisione storica in atto in tutta Europa, che ovunque “dimenticava” la menzione dell’Olocausto. Questi cinque monumenti erano quindi un monito per l’intera società a non dimenticare. L’iniziativa ebbe successo e i monumenti effettivamente costruiti.

L’indipendenza

All’indomani della Dichiarazione d’indipendenza della Croazia nel 1992 nacque il Coordinamento delle comunità ebraiche in Croazia (Koordinacija židovska zajednica Hrvatska), con l’obiettivo di assicurare una memoria veritiera, la riappropriazione dei beni confiscati durante le guerre mondiali e il periodo socialista e la riconferma dell’identità ebraica. A tale fine è stato promosso il festival Be-yahad, importante manifestazione a cui partecipano tutte le comunità ebraiche dell’ex-Jugoslavia.

La comunità ebraica croata deve ancora lottare per la propria sopravvivenza identitaria e per questo mantiene l’unità con le comunità ebraiche dei paesi confinanti. Oggi insieme devono affrontare la terribile sfida della modernità: le conseguenze delle decimazioni dell’ultimo secolo e un sentimento di appartenenza culturale delle nuove generazioni da rinforzare. La nuova sfida alla sopravvivenza della cultura ebraica rimane nelle capacità della società umana di raccogliere piccoli frammenti di vita e trasmetterli alle generazioni future, nel tentativo di ricomporre le fratture politiche e sociali del secolo scorso.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa

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