La città selvaggia
Belgrado è una città costruita quasi per metà in "modo informale", cioè abusivo. Speculazione, ma anche incapacità del sistema di rispondere alle necessità abitative di base alla base di un fenomeno che non sembra rallentare, nonostante i provvedimenti delle autorità
"Divlja gradnja", costruzioni selvagge. E’ questa l’espressione con cui, solitamente, in lingua serba si indica l’abusivismo edilizio. Dal 2004, dopo il Congresso di Vienna dedicato a questo tema nell’Est Europa, si è passati all’uso del termine "costruzioni informali". Belgrado è in pratica per metà una città costruita "in modo informale". Secondo i dati raccolti nel 2006 da "UN-HABITAT" (agenzia delle Nazioni Unite per le politiche abitative) il 43% della superficie ad uso abitativo nella capitale serba è costruita abusivamente. Ufficialmente si parla di 200mila abitazioni.
"Le costruzioni selvagge" vanno dalla singola unità abitativa al piano in più costruito senza permessi, per arrivare a veri e propri insediamenti: si va dagli slum abitati da rom (125 censiti a Belgrado) a quartieri fatti di ville e abitazioni lussuose, con strade magari talmente malconce da permettere a malapena il passaggio delle macchine, ma con case e ambienti perfettamente curati non appena si varca la soglia dei cancelli.
"Questo tipo di soluzioni abitative si trova soprattutto nelle grandi città come Belgrado e Novi Sad", spiega Zlata Vuksanović, project manager di UN-HABITAT ed esperta di insediamenti informali. "Ci sono state delle accelerazioni del fenomeno durante le guerre balcaniche a causa di rifugiati da Bosnia e Croazia e di sfollati dopo la guerra in Kosovo".
Sarebbe però fuorviante considerare la divlja gradnja come un fenomeno unicamente legato alle guerre degli anni Novanta. Si tratta piuttosto di una modalità di sviluppo legata alla scarsa capacità del sistema, socialista prima e dello stato post-socialista dopo, di provvedere ai bisogni abitativi di una società che è profondamente cambiata negli ultimi decenni.
"L’abusivismo edilizio è iniziato in forma massiccia negli anni Settanta – continua la Vuksanović – quando l’industrializzazione del paese ha causato un massiccio spostamento di popolazione dalla campagna alla città. In quegli anni lo Stato ha costruito tantissimo: Novi Beograd si è sviluppata con punte di 10mila appartamenti tirati su in un anno, ma anche questo ritmo forsennato si è rivelato insufficiente. In molti iniziarono allora ad installarsi ai bordi della città. Secondo una legge valida ancora oggi, la superficie che rientra nei confini cittadini è di proprietà del comune, non privatizzabile, la superficie agricola invece si poteva liberamente comprare".
Questi nuovi cittadini hanno perciò comprato un pezzetto di terra su cui hanno costruito, senza permessi, la propria casa. A Belgrado l’esempio più clamoroso di questo tipo di sviluppo è Kaluđerica, piccola città di 20mila abitanti nata alla periferia sud-est della capitale serba, lungo l’autostrada che porta a Niš, senza alcun tipo di pianificazione. "Era una posizione ottimale – continua la Vuksanović – non si rischiavano sanzioni o la demolizione della casa e allo stesso tempo era vicino alla città. Oggi ci sono anche alcuni servizi, come una scuola e un ambulatorio medico, ma per molti anni Kaluđerica ha avuto grossi problemi con l’elettricità, l’acqua corrente, la raccolta dei rifiuti e tutt’ora è non è ben servita".
Con le guerre, soprattutto con il 1999, la Serbia si è trovata a dover gestire un altra bomba demografica: dopo la guerra in Kosovo il 10% della popolazione, a livello nazionale, era costituita da rifugiati o IDPs (Internally displaced persons, ovvero profughi dal Kosovo). Lo Stato non aveva però i mezzi per provvedere ai bisogni, anche abitativi, di queste persone, se non con la creazione di centri collettivi insufficienti e precari. Chi ha potuto, quindi, ha costruito di propria iniziativa una casa su terreni agricoli.
Secondo Ivan Kucina, professore di architettura all’Università di Belgrado che da anni studia il fenomeno della crescita "illegale" della città, la modalità di sviluppo di Belgrado è il risultato anche di anni di isolamento e di embargo che hanno portato alla normalizzazione di un tipo di economia "grigia" che riguarda anche il mercato della casa e che non si limita solo alle categorie sociali deboli. "Con la fine della guerra – dice Kucina – non è cambiato molto, si è continuato a costruire in maniera autonoma ed illegale. Soltanto la scala è cambiata: ora gli investimenti sono più massicci".
Da parte dello Stato ci sono stati vari tentativi di arginare il fenomeno. Nel 2003 è stata varata una legge che mirava a regolarizzare gli abusi esistenti e a punire severamente quelli futuri, rendendo la costruzione abusiva un reato penalmente perseguibile. La legge è risultata presto fallimentare su entrambi i fronti: la percentuale di chi si è regolarizzato è stata minima, mentre si continua a "costruire informalmente" e ad oggi non è stato tenuto nemmeno un processo per abusivismo. "Se dagli anni ’90 al 2003 – dice Kucina – erano stati costruiti 150mila edifici illegali, dal 2003 ad oggi ne sono stati costruiti altri 50mila per un totale di 200mila abitazioni abusive,e parliamo soltanto di quelle di cui siamo a conoscenza".
"Il problema della legge del 2003 – spiega ancora la Vuksanović – è che da una parte i termini per la regolarizzazione erano troppo rigidi, dall’altra le municipalità non avevano le capacità per gestire questo processo. La legge è semplicemente collassata su se stessa".
Secondo l’esperta di "UN-HABITAT" non si possono trattare gli insediamenti informali unicamente come un problema di pianificazione: ci vuole un approccio multisettoriale. "Non si possono mettere sullo stesso piano ricchi e poveri: non è la stessa cosa costruire per la propria famiglia o per il profitto. A Žarkovo, ad esempio, alcuni costruttori hanno edificato condomini di 6-7 piani per poi vendere gli appartamenti, consapevoli di non avere alcuna concessione edilizia. Questi nuovi proprietari dovranno ora pagare per regolarizzare l’abilitazione, mentre il costruttore che ha preso i soldi ora è sparito". Un ottimo espediente, tra l’altro, per riciclare denaro sporco.
Nonostante la divlja gradnja, però, Belgrado soffre di carenza di case: il 30% in meno per abitante rispetto alla media nel Sud Est Europa, tanto che i prezzi per metro quadro vanno dai 2mila ai 5mila euro.
Discorso a parte quello degli insediamenti rom. Quelli più antichi derivano dalla vecchia conformazione della Belgrado turca composta da mahale, quartieri abitati da persone della stessa comunità etnico-religiosa e professione. Nel corso del successivo sviluppo industriale e della riorganizzazione della capitale le mahale sono scomparse: unica eccezione alcuni insediamenti rom come Orlovsko Naselje a Mirijevo, a sud est di Belgrado. Negli ultimi trent’anni si sono invece sviluppati veri e propri slum in cui famiglie rom, impoverite da varie crisi economiche, guerre e colpite da molteplici livelli di discriminazione, si rifugiano con l’idea che in città qualcosa per sopravvivere si riesca comunque a trovare.
Alcuni slum si trovano in zone centrali di Belgrado ad alto valore immobiliare, come "Deponja" (letteralmente: discarica), insediamento estremamente degradato tra fabbriche di cemento e una discarica abusiva, dove i rom vivono da tre generazioni. L’area, vicino al ponte per Pančevo, rientra nell’area in concessione al Porto di Belgrado, sul quale si stanno affrontando di fronte al giudice i potentissimi tycoon Milorad Mišković (Delta Holding) e Milan Beko (che hanno comprato il Porto a prezzi stracciati e vorrebbero convertirlo in zona residenziale e commerciale, con profitti enormi) e il Comune di Belgrado, che vorrebbe mantenere l’attività portuale. Ma questa è un’altra storia, quella della città "legale".