La città dei martiri
Dopo la fine della tregua unilaterale dichiarata dal PKK, gli scontri con l’esercito sono ripresi. Un reportage da Diyarbakır, la città principale del Kurdistan turco, dove ai bambini vengono dati i nomi dei martiri
Viyan gironzola per casa gettando oggetti in giro tra i rimproveri della madre, ha solo due anni, non abbastanza per comprendere appieno quello che le accade intorno. Osserva con gli occhi sbarrati gli F-16 che sorvolano senza sosta la sua casa in un quartiere popolare alla periferia di Diyarbakır (la città principale del Kurdistan turco) poi qualcos’altro la distrae e torna a giocare con le bambole sparse sul pavimento.
Sono tante le cose che non sa, a partire dal perché si chiama proprio Viyan, è “il nome di una guerrigliera del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) uccisa in combattimento” racconta orgoglioso il nonno Mehmet mentre guarda il canale satellitare curdo Roj Tv che trasmette dalla Danimarca nonostante le proteste del governo turco che ne chiede la chiusura da anni. Il canale trasmette senza soluzione di continuità immagini delle celebrazioni clandestine per l’anniversario del 15 agosto 1984, quando il PKK lanciò la campagna militare per la creazione di uno stato curdo indipendente.
Dopo i servizi sull’anniversario del 15 agosto sullo schermo appaiono le foto di due guerriglieri, indossano l’uniforme del Pkk, faccia sorridente, sullo sfondo la bandiera dell’organizzazione, sono gli ultimi “martiri” curdi morti in combattimento. Mehmet chiama la famiglia, tutti guardano le foto con attenzione chinandosi sulla piccola televisione appoggiata sul pavimento, la moglie di Mehmet non riesce a trattenere le lacrime, ha paura, anche suo figlio qualche anno fa è “salito sulle montagne”, è un guerrigliero.
La sua foto, in divisa con un fucile in mano è appesa all’ingresso. Dall’altra parte della stanza la foto di un altro figlio, ma con una divisa diversa “sta facendo il servizio militare ad Erzurum” racconta il padre, “il servizio militare è obbligatorio qui in Turchia, non ha avuto scelta” continua l’uomo “siamo divorati dall’ansia, un figlio nei militari e l’altro guerrigliero, è una situazione pesantissima”.
La festa a Diyarbakır
A Diyarbakır, il 15 agosto nel parco Sümeri, il più importante della città, è stato organizzato un concerto, ufficialmente in onore del direttore del quotidiano in curdo Azadiya Welat, Vedat Kurşun. E’ in carcere perché accusato di propaganda pro-PKK. A tutti però è ben chiaro il vero motivo del raduno, celebrare un’organizzazione che gode del sostegno incondizionato della maggior parte dei curdi, almeno nel sud-est della Turchia. La gente balla su canzoni che parlano di guerriglia sventolando drappi rossi, verdi e gialli, i colori del popolo curdo, qualche bandiera del PKK, foto del leader del movimento, Abdullah Öcalan.
E’ presente anche una delegazione di rappresentanti del comune controllato dal pro-curdo Partito della Società Democratica, hanno un’aria nervosa, l’aria di chi vuole mostrare empatia col proprio popolo, ma allo stesso tempo non dare pretesti alle autorità turche per accusarli di essere il braccio politico del PKK. E non hanno tutti i torti, sono stati tanti, infatti, i nomi che il partito ha cambiato dagli anni novanta ad oggi, HEP (Partito del lavoro del popolo), ÖZDEP (Partito della libertà e della democrazia), HADEP (Partito della democrazia del popolo), un nome per ogni nuovo movimento aperto dopo la messa fuori legge del precedente da parte delle autorità turche, l’ultimo della serie il DTP, il Partito della società democratica è stato chiuso l’11 dicembre 2009: l’accusa sempre la stessa, essere il braccio politico del PKK.
La ripresa dei combattimenti
Dal 1 giugno, quando l’ennesimo cessate il fuoco unilaterale proclamato dall’organizzazione armata è terminato, gli scontri tra PKK e l’esercito sono ripresi violentemente in tutto il Kurdistan turco e il Nord Iraq. Il clima di ottimismo dell’anno scorso, nato dopo il discorso in parlamento del primo ministro Erdoğan che ha inaugurato “l’apertura democratica” (progetto che aveva come obiettivo la soluzione politica del conflitto), ha lasciato il posto al pessimismo. L’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo del premier Erdoğan, non ha avuto il coraggio di portare fino in fondo un progetto che intimoriva l’opinione pubblica turca e irritava l’esercito. Chiusa la parentesi degli scorsi mesi la Turchia è ora tornata alla solita normalità fatta di propaganda nazionalista, lotta anti-t[]ista e funerali dei “martiri”.
Minaccia chimica
Una guerra sporca secondo Der Spiegel che il 12 agosto ha denunciato l’uso da parte dell’esercito turco di armi chimiche. La notizia, ripresa dalla stampa tedesca ed internazionale, con annesse foto di corpi di guerriglieri uccisi, ha spinto l’SPD, la Linke e i Verdi tedeschi a presentare un’interrogazione al Parlamento federale tedesco rispetto alle presunte violazioni. Per gli esperti dell’ospedale dell’Università di Amburgo le foto mostrerebbero inequivocabilmente l’uso di armi illegali da parte dell’esercito, in violazione della Convenzione sulle Armi Chimiche sottoscritta dalla Turchia nel 1993. Per il portavoce del ministero degli Esteri turco Selçük Ünal, invece, “le speculazioni secondo le quali nel nostro paese si stia facendo uso di armi chimiche sono da considerarsi completamente false e frutto della propaganda dei t[]isti”.
Armi chimiche o meno il conflitto continua, nonostante più di duecento organizzazioni politiche e della società civile curda, riunitesi in occasione della Conferenza della Società Democratica lo scorso 21 e 22 agosto a Diyarbakır, abbiano fatto una proposta al governo che aprirebbe la strada al disarmo del PKK e ad un cessate il fuoco permanente. I curdi chiedono il rilascio dei militanti incarcerati, l’abbassamento dello sbarramento elettorale che ora è al 10%, l’abolizione della legge anti-t[]ismo e una nuova costituzione democratica che sostituisca quella scritta durante il colpo di stato militare del 1980. Il Presidente della Repubblica Abdullah Gül ha dichiarato di essere disponibile a incontrare i portavoce delle organizzazioni curde, senza esprimersi però sul contenuto della proposta.
Il coraggio di capire
Secondo Faruk Balıkçı Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Sud Est della Turchia, tuttavia, la pace è ancora lontana: “Il problema è che nella parte ovest del paese non ci si interroga sul perché del conflitto. Ci sono solo t[]isti da combattere militarmente, le persone vengono educate per anni a valori nazionalisti secondo i quali violare certi tabù come la questione armena e il problema curdo è un atto di tradimento verso la nazione. Se questi problemi fossero stati affrontati negli anni Novanta le cose sarebbero andate diversamente.”
Secondo Balıkçı anche i media giocano un ruolo importante nel conflitto: “In Turchia vi sono giornali indipendenti come Taraf o la stampa di sinistra che vogliono la pace, ma sono un’esigua minoranza. I giornalisti turchi hanno fatto un grosso []e, quello di non essere stati capaci di capire i curdi, invece come se stessero assistendo a una partita di calcio hanno scelto una squadra per cui tifare”. E poi continua: "Negli anni Ottanta i militari al potere ci chiamavano turchi di montagna, ci sono voluti vent’anni di lotta perché si accettasse in Turchia che i curdi avevano un’identità culturale propria, ora che questi diritti individuali li abbiamo conquistati, perché ci vengano concessi anche diritti collettivi e politici serviranno per lo meno altri vent’anni”.